sabato 22 settembre 2012

Spese folli, il ripristino dei controlli preventivi non può attendere

Luigi Oliveri

Non ci voleva lo scandalo delle spese incontrollate del consiglio regionale del Lazio per comprendere quanto davvero marce siano le travi che dovrebbero sorreggere le istituzioni.

Non ci voleva questa ennesima umiliazione inferta ai cittadini italiani, per comprendere che gli ultimi 20 anni di amministrazione e legislazione sono stati costellati di errori devastanti, che hanno segnato in maniera difficilmente rimediabile il futuro dell’Italia.

Certo, non può essere un caso che proprio in questi ultimi 20 anni il debito pubblico dell’Italia sia salito alle stelle e la produttività del lavoro sia crollata ai minimi dei Paesi avanzati.

Le cause, ovviamente sono tante. Ma è evidente il vizio gravissimo di autorevolezza e capacità delle istituzioni e di chi dovrebbe guidare il Paese verso lo sviluppo.

Tra le cause se ne scorgono sicuramente almeno tre: il “federalismo” all’italiana; l’eliminazione dei controlli; la cooptazione di una dirigenza “a contratto” allineata alla politica.

Partiamo dal “federalismo”. La Lega, circa 20 anni fa, si era affermata come movimento e partito “nuovo”, idoneo ad una funzione salvifica e catartica per il dopo-Tangentopoli. Le proposte della Lega erano evidentemente eversive dell’ordinamento costituito. Ma si pensò di farne propri gli elementi di “rinnovamento” che avrebbero potuto riformare il Paese, come, appunto, un riordino in senso federale, da compiere per evitare pericoli secessionisti di un popolo del Nord del quale si millantava il possesso di “fucili” invece mai visti e che è sempre rimasto infinitesimale minoranza rispetto al resto del popolo italiano.

Sta di fatto, che si è pensato bene di alleggerire le spinte secessioniste aprendo le braccia ad un federalismo che non poteva non innestarsi male in un ordinamento tipicamente unitario, mutuato dalla Francia e dal Regno di Sardegna.

Il guazzabuglio era inevitabile. Il federalismo è un processo difficoltosissimo di cessione di parte della sovranità da parte di Stati verso un centro federale. Lo stiamo conoscendo: è esattamente il percorso complesso di aggregazione dell’Europa.

Pensare di affrontare un federalismo al contrario, nel quale è lo Stato centrale a cedere parte delle proprie prerogative e funzioni decisionali è stato scellerato.

Il risultato una confusissima modifica del Titolo V della Costituzione ed altre norme che hanno finito per aumentare i poteri di spesa degli enti “periferici”, simmetricamente ai loro poteri decisionali.

Il tutto, senza una riforma fiscale che disaggregasse il sistema di acquisizione delle entrate e della spesa, in modo da accompagnarsi al processo. La parola d’ordine era che il controllo dei cittadini sul modo di spendere le loro tasse, col federalismo, sarebbe stato più diretto e si sarebbe espresso più consapevolmente con le elezioni.

E’ accaduto esattamente l’opposto. La mancanza totale di trasparenza rende impossibile per i cittadini capire come si sta governando, mentre lo si fa. Le magagne si apprendono molto dopo.

E la spesa pubblica è letteralmente esplosa, insieme con una pressione fiscale esponenzialmente incrementata anche al livello decentrato. Con la beffa dell’eliminazione dell’Ici sulla prima casa, l’unica vera tassa “federale” esistente, che si è dovuto ripristinare sotto le mentite e terribili spoglie dell’Imu, il cui gettito prevalente, comunque, va allo Stato.

Insieme col dilagare di un federalismo mal concepito, peggio attuato e malissimamente amministrato da consorterie locali più propense a curarsi delle ostriche e dello champagne che a governare, l’altro gravissimo, imperdonabile vulnus al concetto di “buona amministrazione”: l’eliminazione dei controlli preventivi ed esterni di legittimità e merito.

La maggiore “responsabilizzazione” derivante dall’elezione diretta (a livello statale totalmente smentita dall’attuale legge elettorale), il “federalismo”, si diceva, avrebbero permesso di eliminare controlli “formali e burocratici” preventivi, buoni solo a far perdere tempo. Il “vero” controllo, si diceva, lo hanno i cittadini, quando esprimono il voto. Sarebbe stato, dunque, sufficiente istituire controlli “interni”, non tanto mirati alla legittimità, ma “ai risultati”, secondo le tecniche “manageriali” che insegnavano le aziende del “privato”.

Si è, così, riformata l’organizzazione amministrativa, copiando dal privato, mentre quel privato azzerava la produttività, andava incontro ad esperienze come Cirio e Parmalat o dimostra di saper fare profitti se ben pagato dall’erario, come Fiat o come le aziende sanitarie convenzionate con le regioni, le quali proprio nella sanità dilapidano una quantità immensa di risorse (ma, poi, i Gabibbo alla Sergio Rizzo fanno credere che il problema della spesa pubblica in Italia siano le province…).

E si è pensato che fossero sufficienti controlli di organi interni, nominati dagli stessi soggetti controllati, perché contestualmente si riteneva che la Corte dei conti, mediante il controllo successivo sulla gestione avrebbe garantito l’efficienza e la legalità.

Illusioni, parole scritte sulla sabbia. I controlli interni, come proprio la vicenda del Lazio (ma se ne possono citare moltissime altre) non hanno alcuna capacità di ottenere l’unico risultato cui un controllo dovrebbe tendere: evitare che una decisione produca effetti negativi (sperpero di risorse) prima che essa produca i suoi effetti.

Ragionare in termini di “prodotto” dell’azione amministrativa, come se gli enti producessero dentifrici è stato e permane tutt’ora un gravissimo errore.

Affidarsi all’intervento della Corte dei conti, altrettanto. La magistratura interviene sempre e solo quando un evento si è già verificato, per sanzionarlo. Non può evitare che si determini. L’effetto deterrenza è praticamente nullo: le procedure sono lentissime, la possibilità della prescrizione elevata, l’eventuale condanna infinitesimale rispetto al danno e all’eventuale profitto illecito guadagnato.

Occorrono necessariamente controlli preventivi, di legittimità e forse fino al merito, come filtro per assicurarsi che le decisioni assunte siano finalizzate a perseguire gli interessi pubblici, la buona amministrazione e rispettose delle leggi, prima che producano effetti. E occorre che siano controlli esterni, di autorità amministrative, in modo che si possa proporre ricorso.

La Corte dei conti non può effettuare controlli preventivi, è un giudice, deve rimanere terzo. Può, anzi deve, dare direttive e indicazioni su modalità e oggetto dei controlli agli organismi, che da essa dovrebbero dipendere funzionalmente.

Nessun organo deve risultare esentato dai controlli. Nemmeno gli organi di governo. Non solo perché altrimenti finisce come la deprecabile situazione del Lazio, ma perché di come spendere i soldi pubblici occorre che ne risponda chiunque li maneggi, politico o burocrate.

I controlli, si dirà, non evitarono Tangentopoli. Ma la loro eliminazione ha favorito la degenerazione della spesa pubblica e dei comportamenti, sotto gli occhi di tutti. Un contenimento preventivo non può essere più rinviato.

Infine, altro fattore devastante, lo spoil system e, comunque le possibilità consentite ai politici, da varie leggi, di cooptare dirigenti “di fiducia”. Nella trasmissione Piazza Pulita, la presidente della regione Lazio, ha precisato che ritiene necessario circondarsi di dirigenti fiduciari, che la “proteggano” dalle molte responsabilità che comportano le firme sui suoi atti.

La verità pare un’altra: la dirigenza fiduciaria più che fare quello che dovrebbe fare qualsiasi vero e serio dirigente di ruolo, assicurare la correttezza dell’azione amministrativa degli organi di governo, è piuttosto considerata e spesso così portata ad agire, più come “complice”, come muro di gomma, come strumento di potere che di amministrazione.

Una dirigenza di tal genere è essenziale al sistema, aggira i controlli e non argina la cattiva gestione: obbedisce agli input della politica.

Tutto questo, l’Italia non può più consentirselo. Non c’è molto altro da aggiungere.

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