mercoledì 7 novembre 2012

L'occasione perduta di un "riordino" vero delle #province

Il Governo ha adottato la peggiore delle soluzioni possibili per riordinare le province. Il vulnus del decreto di riordino pare simboleggiato dalla provincia-monstre di Massa Carrara-Lucca-Pisa-Livorno: un territorio troppo vasto per poter essere governato da una sola provincia, una storia e tradizioni troppo diverse e conflittuali per poter mai creare un’entità amministrativa credibile.
Le scelte del Governo sulle province appaiono, purtroppo, guidate principalmente dall’intento di ottenere un facile consenso (strano, trattandosi di tecnici), mostrando di aver per davvero razionalizzato lo Stato e ridotto i “costi della politica”.
La clamorosa smentita a questo assunto è contenuta nel comunicato stampa di presentazione del decreto, ove si legge: "Al termine di questo processo sarà possibile calcolare gli effettivi risparmi che comporterà l’intera riforma". Come ha avuto modo di dichiarare lo stesso Ministro Patroni Griffi, e come attestato dalle tabelle della Ragioneria Generale dello Stato sugli effetti finanziari della “spending review” (il d.l. 95/2012, convertito in legge 135/2012), dalla manovra sulle province non discende nessun risparmio stimabile. E’ solo auspicato che, simmetricamente al riordino delle province, da accorpamenti di prefetture, questure ed altri uffici statali decentrati, possa derivare qualche spesa in meno. Ma, su territori che vanno da Massa Carrara a Livorno o da Cremona a Mantova è perfettamente chiaro che saranno in ogni caso necessari presìdi ed uffici decentrati praticamente identici a quelli oggi esistenti nelle “vecchie” province.
Lo Stato, per essere davvero incisivo, aveva due scelte sole. La prima consisteva nel decidere di abolire del tutto le province e passare le loro competenze alle regioni. Si sarebbe trattato della scelta più logica e facile da gestire: 110 enti sarebbero stati inglobati da 20 regioni, il sistema fiscale avrebbe avuto necessità di pochi ritocchi per assegnare alle regioni le fonti di entrata provinciale, il passaggio dei dipendenti sarebbe stato agevole. In alternativa, se il problema fosse stato solo quello dei costi della politica, sarebbe stato sufficiente prevedere l’assoluta gratuità delle cariche elettive, col divieto di costituire uffici di staff (gabinetti, addetti stampa, segreterie particolari) ed ogni struttura servente le sole funzioni politiche.
Tra le due alternative, il decreto sceglie una soluzione di compromesso. Non sopprime le province, ma le accorpa. Le rende enti molto più grandi, quasi quanto le regioni, ma ne diminuisce le competenze. Invece di passare le funzioni alle regioni, nella logica delle economie di scala, prevede di assegnarle ai comuni, innescando problemi di modifica degli assetti del sistema tributario locale praticamente irrisolvibili, oltre a rischiare la polverizzazione di funzioni per loro natura di area vasta in enti, i comuni, che per gestirle dovrebbero associarsi tra loro, ricostituendo strutture sovracomunali di dimensioni pari a quelle delle “vecchie” province.
La visione semplicistica e al limite del populistico del Governo è confermata dalla “road map” prevista per gli accorpamenti delle province. Il decreto immagina sia possibile fare la ricognizione delle dotazioni del personale, dei beni mobili ed immobili, entro il 30 aprile 2013, come se si dovessero accorpare o fondere non enti territoriali di rilevanti dimensioni, ma due bottegucce di quartiere.
Il decreto immagina un ridisegno delle province che sembra sin dall’inizio votato al caos ed al fallimento, oltre che a confermare la dubbia costituzionalità sotto vari aspetti: la sanatoria, per decreto legge, dei provvedimenti amministrativi adottati dal Governo per giungere al riassetto territoriale, la decadenza anticipata delle assemblee elettive, la palpabile violazione dell’articolo 133 della Costituzione, secondo il quale il riordino delle circoscrizioni provinciali dovrebbe partire dal basso,con un’iniziativa dei comuni, assolutamente mancata.
Il decreto non fornisce alcuna indicazione sulle modalità per gestire la sorte dei 56.000 dipendenti e, contrariamente a quanto ha dichiarato da quasi un anno l’Esecutivo, punta decisamente alla revisione al ribasso delle dotazioni organiche, per giungere alla dichiarazione di esubero dei lavoratori provinciali.
Così stando le cose, si prospettano nel 2013 e 2014 due annualità estremamente critiche per l’organizzazione dello Stato, ma anche per i cittadini. La questione della titolarità delle funzioni è centrale (si pensi alle competenze sul mercato del lavoro, lasciate nel limbo proprio in una acutissima fase di crisi occupazionale), ma solo sfiorata dal decreto, che, per altro, la regola con una norma che potenzialmente potrebbe lasciare tutto com’è all’infinito.
Un decreto, insomma, caratterizzato dall’avere creato non un nuovo ordine (come dovrebbe aversi per effetto di un ri-ordino), ma solo mille incertezze operative, che non solo non portano risparmi certi, bensì compromettono i servizi ai cittadini.

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