domenica 25 novembre 2012

#Produttività ancora scambiata con maggior produzione

Il controverso accordo sulla produttività non si sa quali effetti potrà esplicare nei riguardi del lavoro pubblico, ma in ogni caso sembra riproporre i medesimi errori di impostazione che si riscontrano negli ultimi venti anni di riforme.

Sembra che l’unico punto di partenza per il miglioramento dell’economia sia il solo fattore lavoro. Ed, in effetti, da troppo tempo si assiste quasi esclusivamente ad una legiferazione ad una contrattazione e ad un dibattito incentrati sugli strumenti necessari per incrementare la produttività del fattore lavoro. Senza prendere in nessuna considerazione gli altri fattori fondamentali, tra i quali il capitale.

La cosa curiosa è che parlare in questa fase di crisi soprattutto finanziaria, caratterizzata da una stretta al credito mai vista prima, di produttività del lavoro è illusione pensare che il miracolo del rilancio dell’economia possa derivare, senza alcun sostegno di denaro e capitale, da misure come l’installazione di telecamere o dalla possibilità di demansionare, insiti nell’accordo.

L’idea di base sarebbe quella di incentivare maggiori prestazioni lavorative mediante un plus di orario e la detassazione dei premi di produttività.

Obiettivo dichiarato, anche indirettamente nelle premesse dell’accordo, è migliorare il costo del lavoro per unità di prodotto, recuperando la perdita di competitività subita in questi 20 anni.

L’accordo pare dimenticare, però, nelle sue premesse e nel suo sviluppo, che il costo del lavoro può scendere non solo se si incrementa la produzione, ma se nuove metodologie produttive (frutto di investimenti) permettono nel medesimo tempo di lavoro di produrre maggiori risultati.

Una delle misure sulle quali l’accordo insiste particolarmente è “la gestione flessibile degli orari di lavoro, al fine di rispondere alle diverse dinamiche temporali della produzione e dei mercati, nel rispetto della vigente normativa comunitaria oltre che dei diritti e delle esigenze delle persone”, auspicando che, accanto al potere della contrattazione di derogare ampiamente alle leggi, la contrattazione di primo livello deleghi la contrattazione aziendale allo scopo di disciplinare “la prestazione lavorativa, gli orari e l’organizzazione del lavoro”.

L’idea di fondo è incrementare, quando serve ai fini produttivi, l’orario di lavoro. Sfuggono, evidentemente, però, due elementi fondamentali.

In primo luogo, in questa fase, un incremento dell’orario di lavoro dovuto ad esigenze di maggiore produzione presupporrebbe quello che esattamente manca: la crescita dell’economia e degli ordinativi. Né pare che la contrattazione, sia di primo o di secondo livello, abbia alcun potere di intervenire per modificare questa congiuntura.

In secondo luogo, l’incremento dell’orario di lavoro non comporta di per sé un aumento della produttività, ma solo della produzione.

La produttività è necessariamente la risultante della frazione che al numeratore ha gli input (appunto i fattori produttivi) e al denominatori gli output (i prodotti realizzati). Se si incrementano gli input e in pari misura anche gli output, la produttività non aumenta per nulla.

Uno strumento essenziale per migliorare il lavoro, come rilevato prima, è fare in modo che a parità di lavoro esso migliori qualitativamente. Certo, grazie alla maggiore esperienza, alla dedizione, alla formazione. Ma, occorrono anche sistemi organizzativi e strumenti di produzione migliori, tali per i quali nella stessa unità di tempo, il prodotto aumenti. Occorre, cioè, incidere su quegli elementi del numeratore tendenzialmente stabili, come il capitale ed i macchinari, in modo da determinare una decisa spinta all’incremento del valore aggiunto, tendenzialmente stabile nel tempo.

Invece, tutto ciò non traspare. Si enuncia quasi soltanto il principio secondo il quale l’incentivo economico permetta un incremento di produttività connesso solo, lo si ripete, al fattore lavoro.

E a questo scopo, si punta decisamente a svuotare la contrattazione di primo livello della funzione di garantire un salario di base comune a tutti, per lasciare alla contrattazione aziendale il ruolo di determinare se e quale parte del salario destinare ad una produttività. Ma non si capisce, fermi gli altri fattori, come possa incrementarsi solo con il lavoro.

Per altro, la contrattazione nazionale viene sganciata dalla logica del mantenimento del potere di acquisto (discendente dall’articolo 36 della Costituzione) dal momento che secondo l’accordo dovrà assicurare la dinamica degli effetti in coerenza con le tendenze generali dell’economia. Come dire, che se l’economia è in crisi, la contrattazione sostanzialmente potrebbe non distribuire nulla al salario di base, lasciando tutto, forse, alla sola contrattazione decentrata. Il che in periodi come questo, di piena crisi, priverebbe il fattore lavoro del principale incentivo, il recupero del potere d’acquisto (del resto leso non solo dalla recessione, ma anche con i ritardi cronici e francamente eccessivi dei rinnovi).

L’accordo, oltre tutto, precisa che la contrattazione deve demandare agli accordi aziendali la “pattuizione di elementi retributivi da collegarsi ad incrementi di produttività e redditività”. La redditività è una new entry degli accordi. Un elemento tipico del guadagno dell’imprenditore diviene una variabile della retribuzione per i lavoratori.

Tali e tante appaiono le condizioni ed i condizionamenti per avviare l’incentivazione connessa alla maggiore produttività, che questa rischia di impantanarsi nelle enunciazioni un po’ vuote.

Questo è quanto, nella sostanza, è già accaduto nell’ambito del lavoro pubblico, nel quale si è scambiato il problema dell’incremento della produttività col sistema di valutazione, senza che nemmeno si sia minimamente riusciti a trovare sistemi standardizzati di misurazione della produttività.

Del resto, la stessa Corte dei conti Sezioni Riunite in sede di controllo, nella Relazione 2011 sul costo del lavoro pubblico, cap. 6, par. 5) lo ha confermato: “È notorio quanto la valutazione della produttività del settore pubblico sia oggetto di continui studi ed approfondimenti, allo scopo di individuarne una o più chiavi di lettura che rendano, quanto più possibile, oggettivi e condivisi i relativi indicatori.

Appare tuttavia opportuno rilevare, visti i numerosi rapporti che intercorrono tra settore pubblico e privato, come sia più che plausibile ipotizzare un’influenza reciproca sul livello di produttività e, in ultima analisi, di entrambe sulla competitività del sistema.

A tal scopo la seguente figura 9 26 evidenzia come si sono evoluti, negli ultimi dieci anni, gli indicatori macroeconomici della produttività e della competitività, quest’ultima letta attraverso il costo del lavoro per unità di prodotto (CLUP) 27, entrambi misurati sul PIL, come indicati nei documenti di programmazione economica e finanziaria.

I dati del DEF 2011-2014 confermano la situazione di difficoltà: per il 2010 la produttività viene stimata in lieve ripresa ma sono previsti un calo della stessa nel 2011 (0,6%) ed una sostanziale invarianza del CLUP.

Da simili informazioni tuttavia non si evince il peso che il livello di produttività del settore pubblico possa avere nell’influenzare l’andamento di tali indicatori. Rimane tuttavia l’ipotesi che un forte impulso positivo al sistema Italia possa essere dato proprio dalla produttività del settore pubblico, una volta noti gli elementi cardine per la sua, non solo misurazione, ma soprattutto valorizzazione e promozione.”.

Quindi, è acclarato: non sono noti gli elementi per misurare la produttività nella pubblica amministrazione. Ogni tentativo è una meritoria sperimentazione.

Mancano, infatti, nell’analisi della produttività della pubblica amministrazione alcuni elementi fondamentali:

a)            le cosiddette “unità di prodotto”, necessarie per determinare il costo del lavoro per unità di prodotto, indice principale della valutazione della produttività ai fini statistci;

b)            un sistema di “commesse” o “ordini” che indichi come le entrate influenzino il prodotto e, dunque, il valore aggiunto della produzione.

In quanto al problema delle unità di prodotto, esso è di difficile soluzione, perché il sistema di valutazione della produttività è incentrato soprattutto sulla produzione industriale, nell’ambito della quale è possibile relazionare ore lavorative con un numero di beni realizzati.

Di conseguenza, l’attenzione sulla produttività intesa come disponibilità del singolo lavoratore a lavorare “di più e meglio”, puntando su incentivi economici (che per altro, a partire dal 2010 nella pubblica amministrazione sono congelati), non ha aiutato a compiere un solo passo in avanti verso la ricerca del valore aggiunto all’attività svolta.

Appare piuttosto preoccupante che il medesimo atteggiamento pare riversarsi anche nell’accordo sulla produttività, considerando che nel sistema produttivo privato, invece, vi è la possibilità di valutare bene le unità di prodotto.

Un punto di contatto tra lavoro privato e pubblico riguarda, invece, il sistema di disciplina delle mansioni. Come è noto, nel lavoro pubblico non ha mai avuto applicazione l’articolo 2013 del codice civile, allo scopo di assicurare che le progressioni di carriera avvenissero mediante concorsi e non per fatti concludenti. Il sistema di reclutamento e di carriera pubblico è profondamente diverso da quello privato, ovviamente.

L’accordo, tuttavia, punta a modificare profondamente la disciplina delle mansioni. Si punta ad affidare “alla contrattazione collettiva una piena autonomia negoziale rispetto alle tematiche relative all’equivalenza delle mansioni”. Appare piuttosto evidente l’intento di superare l’articolo 2013 ed il meccanismo di acquisizione delle mansioni superiori connesso al fatto concludente di assegnare al lavoratore appunto attività lavorative superiori all’inquadramento posseduto per un certo lasso di tempo.

Sarà la contrattazione collettiva a curare questa fattispecie, probabilmente lasciando anche in questo caso campo a quella aziendale. E la piena autonomia molto evidentemente non riguarda solo il se e il quando assicurare la crescita delle mansioni e del livello di inquadramento, ma anche il percorso inverso. Il tutto appare oggettivamente legato al problema dell’estremo allungamento della vita lavorativa. L’accordo sottolinea: “E’ volontà delle parti individuare soluzioni utili a conciliare le esigenze delle imprese e quelle di lavoratori più anziani, favorendo percorsi che agevolino la transazione dal lavoro alla pensione, creando nello stesso tempo nuova occupazione anche in una logica di “solidarietà intergenerazionale””. Appare piuttosto evidente la possibilità di abbinare forme di orario ridotto a possibili demansionamenti, come misure di accompagnamento alla pensione.

Le positive ricadute, tuttavia, anche di queste misure (in particolare, queste appaiono facilmente “esportabili” anche nel lavoro pubblico) in termini di produttività, francamente non si vedono.

Non si capisce, poi, in un accordo che riguarda la produttività, la collocazione delle previsioni in tema di mercato del lavoro. Nulla di male a provare a disciplinare il sistema di aiuto alla ricerca di nuova occupazione anche col contributo delle parti. Risulta, tuttavia, troppo evidente che la materia è del tutto estranea al “merito” dell’accordo e che avrebbe dovuto trovare la sua sede nella “riforma-Fronero”, che, invece, ha quasi totalmente abdicato alla possibilità di intervenire in questo ambito. Lasciando, per altro, aperta ancora la questione dell’individuazione delle competenze in tema di mercato del lavoro, connessa al disegno di riordino delle province.

 

 

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