domenica 3 marzo 2013

Congelamento dei contratti di lavoro pubblico, rimedio necessario #statali #lavoro

 

I sindacati del settore pubblico sono prontamente insorti alla notizia che il Governo starebbe per dare corpo al congelamento degli incrementi contrattuali fino al 31.12.2014.

Secondo le sigle sindacali si tratterebbe di un colpo inferto "a urne chiuse" contro il potere d’acquisto, un’ingiusto modo di perseguitare i lavoratori pubblici, insomma un colpo di mano.

Ancora una volta, probabilmente, le organizzazioni sindacali stanno perdendo l’occasione di dimostrare senso vero di responsabilità e capacità di comprendere, affrontare e risolvere i problemi della pubblica amministrazione in modo efficace e senza ideologie.

L’Italia affronta una fase di crisi terribile, della quale l’esito delle elezioni probabilmente rinvia le possibili soluzioni.

Non c’è dubbio che tra i fattori di questa crisi stia il costo del lavoro pubblico. Lo dimostra il seguente quadro:

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Nel 2013 la previsione è di una spesa pubblica di 809,543 miliardi, sui quali la spesa per il personale pubblico sarà di 166,490 miliardi, con un’incidenza del 20% circa.

Il Def 2012 dimostra un andamento di costante decrescita tra il 2010 e il 2014 (cui corrisponde anche una riduzione dell’incidenza sulla spesa complessiva, che aumenta per cause non connesse al lavoro pubblico, con una previsione di incremento nel 2015.

Ora, se la spesa per gli stipendi pubblici fino al 2014 è prevista in discesa, la ragione consiste proprio nella scelta – dolorosa quanto si vuole – di congelare la contrattazione del lavoro pubblico.

Scelta operata col d.l. 78/2010, convertito in legge 122/2010, ma sostanzialmente ribadita nella prima manovra estiva della tremenda estate 2011. Infatti, nessun articolo di giornale ha spiegato che il “colpo di mano” del Governo Monti non c'entra nulla non esiste. Il blocco dei trattamenti economici pubblici fino al 31.12.2014 è previsto da 2 anni e lo ha introdotto il Governo Berlusconi, con l'articolo 16, comma 1, lettera b), del d.l. 98/2011, convertito in legge 111/2011.

La norma in questione dispone: "1. Al fine di assicurare il consolidamento delle misure di razionalizzazione e contenimento della spesa in materia di pubblico impiego adottate nell'ambito della manovra di finanza pubblica per gli anni 2011-2013, nonché ulteriori risparmi in termini di indebitamento netto, non inferiori a 30 milioni di euro per l'anno 2013 e ad euro 740 milioni di euro per l'anno 2014, ad euro 340 milioni di euro per l'anno 2015 ed a 370 milioni di euro annui a decorrere dall'anno 2016 con uno o più regolamenti da emanare ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, su proposta dei Ministri per la pubblica amministrazione e l'innovazione e dell'economia e delle finanze, può essere disposta:

(omissis)

b)  la proroga fino al 31 dicembre 2014 delle vigenti disposizioni che limitano la crescita dei trattamenti economici anche accessori del personale delle pubbliche amministrazioni previste dalle disposizioni medesime;".

Risulta, a questo punto, davvero incredibile che ci si stupisca per l'attuazione di una disposizione normativa. Semmai, quello che colpisce è il ritardo con cui vi si sta dando seguito. Anche perchè, oggettivamente, purtroppo dall'agosto 2011 al marzo 2013 la situazione finanziaria dell'Italia non appare troppo migliorata.

I sindacati del settore pubblico dovrebbero avere ben chiaro, invece di strillare contro l’adozione di un atto dovuto (perché previsto dalla legge e perché imposto dalla situazione economica), due fattori.

Il primo: nel decennio tra il 2000 e il 2009 un’attuazione discutibile, se non scellerata, della contrattazione collettiva nazionale e decentrata ha prodotto costantemente una crescita del costo del lavoro pubblico molto più elevata del previsto, cagionata anche e soprattutto dalle cosiddette “progressioni orizzontali” (aumenti di stipendio) e “progressioni verticali” (promozioni). Le Sezioni Riunite della Corte dei conti hanno dimostrato che tra il 2001 e il 2008 in media ogni dipendente degli enti locali, ad esempio, ha ricevuto due aumenti di stipendio, mentre uno su due ha ricevuto un avanzamento di carriera.

Questo modo di intendere la contrattazione è devastante, perché è la negazione della selettività dei riconoscimenti incentivanti, ma produce anche conseguenze sui costi della contrattazione collettiva, che partono da livelli retributivi più elevati del previsto.

Ci sarebbe da chiedersi se i sindacati ritengano possibile puntare alla crescita del reddito dei lavoratori dipendenti pubblici in una fase in cui né la loro produttività è dimostratamente incrementata, né il datore di lavoro, la pubblica amministrazione, naviga in buone acque. Presso un datore privato sarebbe da stupirsi se si congelassero i trattamenti economici?

In secondo luogo, l’affermazione di alcune forze politiche dopo le elezioni sta riportando in auge il tema (oggettivamente falso) dell’eccesso di dipendenti pubblici, rilanciando e radicalizzando l’idea di procedere all’immediato licenziamento di centinaia di migliaia di essi, in barba ad ogni confronto con organizzazioni statali simili[1] ed ad un logico modo di procedere, quando si debbono affrontare periodi di recessione.

Posizioni di retroguardia come quelle espresse dalle organizzazioni sindacali appaiono indifendibili.

Al di fuori di ogni facile slogan, il numero ed il costo dei dipendenti pubblici in Italia è in linea con quello dei Paesi competitori. Una riduzione drastica del numero degli “statali” non comporterebbe nessuna razionalizzazione, bensì necessariamente una riduzione della quantità (sulla qualità non ci si pronuncia) di servizi e prestazioni. Il minor costo in pressione fiscale di cui beneficerebbero i cittadini, sarebbe integralmente fagocitato dalla necessità di acquistare sul mercato quegli stessi servizi dimessi dal settore pubblico.

Sono considerazioni semplicissime, che nessuno esplicita, però. Allora, i sindacati bene farebbero ad assumersi la responsabilità di condividere il blocco della contrattazione, come tangibile segno della volontà del settore del lavoro pubblico di farsi carico della situazione economica difficilissima del datore di lavoro, senza strillare e rendendosi, invece, disponibili ad un’operazione straordinaria di revisione della distribuzione dei dipendenti tra le varie amministrazioni, prima causa dei problemi di efficienza.

Per poter, poi, puntare a far comprendere che la prima razionalizzazione, il modo fondamentale per ottenere la semplificazione e la riduzione dei carichi su cittadini e imprese consiste nel rivedere profondamente leggi, prodotte dal Parlamento e non dalla “burocrazia”, che producono solo carichi, oneri e nessun beneficio. Ne è un esempio clamoroso il decreto legislativo di riordino della trasparenza: tutti inneggiano all’adozione anche in Italia di una sorta di Freedom of information act, nessuno dice che questo comporterà un carico operativo immane, con la necessità di distogliere migliaia di lavoratori da servizi produttivi, per dedicarsi all’attività di pubblicatori di portali.

Altro esempio: rivedere radicalmente la disciplina del famigerato Durc. Come può la legge impedire alle amministrazioni di pagare le imprese non in regola con i versamenti contributivi, se ciò sia causato da ritardi di pagamento di altre amministrazioni? Come è possibile che, nonostante si inneggi alla trasparenza, all’agenda digitale, per acquisire le informazioni occorra ancora “chiedere” il Durc e fermare per almeno 30 giorni la procedura per il pagamento, mentre le direttive europee impongono di pagare entro i 30 giorni?

La burocrazia sta nella mente di chi legifera in questo modo, più che nell’organizzazione e nei comportamenti operativi che, comunque, possono e debbono essere portati ad efficienza maggiore.

Questo dovrebbero chiedere sindacati davvero preoccupati del bene del Paese e dei dipendenti pubblici, che, invece, anche a causa di battaglie di retroguardia vengono additati come gli “untori”.

L.O.



[1] La Relazione 2011 delle Sezioni Riunite in sede di controllo sul costo del lavoro pubblico spiega che la spesa è simile. Nel 2009, l’Italia ha incontrato una spesa di 171.905 milioni di euro, contro i 254.326 della Francia, i 177.640 della Germania, i 189.464 dell’Inghilterra ed i 125.164 della Spagna (solo quest’ultima è inferiore).

 

La spesa pro capite italiana è di 2.863 euro, inferiore a quella francese (3.951), e a quella inglese (3.076), e superiore a quella tedesca (2.166) e spagnola (2.731).

 

In linea anche il peso delle retribuzioni del lavoro pubblico rispetto al Pil: sempre nel 2009, in Italia la percentuale è stata dell’11,3%, in Francia del 13,2%, in Germania del 7,4% (l’unica inferiore), in Inghilterra del 12,0%, in Spagna dell’11,8%, nell’Area Euro del 10,8% e nell’Area Ue dell’11,2%.

 

Stessa tendenza vale se si considera la quota della spesa per redditi da lavoro sul totale della spesa corrente: nel 2009 per l’Italia è stata del 23,5%, mentre del 25,8% in Francia, del 16,6% in Germania, del 26,1% in Inghilterra e del 29,8% in Spagna.

 

Se a questi dati aggiungiamo quelli dello studio Eurispes su dati Ocse, scopriamo che nel 2007 in Francia c’erano 3.175.000 dipendenti, in Germania 3.250.000, in Inghilterra 4.179.000 e in Spagna 2.202.000.

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