domenica 8 settembre 2013

#Appalti: obbligo di suddividere in lotti, scelta di retroguardia contraria allo sviluppo #decretofare

In Italia, come è noto, esiste un problema rilevante per l’economia: la dimensione eccessivamente piccola delle imprese e la loro sottocapitalizzazione.

Le piccole e medie imprese (Pmi) rappresentano la grandissima maggioranza delle imprese italiane, sono oltre 4,1 milioni e sono circa i 95% del totale.

Nulla di male, ovviamente. Ma accanto al dato positivo della brillantezza, della capacità di rischiare ed intraprendere, fa da contraltare la rilevantissima debolezza organizzativa e soprattutto finanziaria di queste imprese, che denunciano l’assenza di un adeguato capitale di rischio a garanzia del corretto svolgimento dell’attività imprenditoriale, rispetto all’indebitamento verso terzi. Il che ha determinato in Italia, ad esempio, una crisi ancora più sensibile di liquidità, perché le imprese non sono state capaci di autofinanziarsi col capitale.

In una situazione di questo genere, il decreto “salva Italia”, il d.l. 201/2011, convertito in legge 214/2011 modificò l’articolo 2 del d.lgs 163/2013 inserendovi i commi 1-bis e 1- ter. Per effetto di questa novellazione:

a)                  nel rispetto della disciplina comunitaria in materia di appalti pubblici, “al fine di favorire l'accesso delle piccole e medie imprese”, si stabilì che le stazioni appaltanti dovessero (obbligo vero e proprio), ma “ove possibile ed economicamente conveniente” suddividere gli appalti in lotti funzionali;

b)                 e in ogni caso, per la realizzazione delle grandi infrastrutture la stazione appaltante “deve garantire modalità di coinvolgimento delle piccole e medie imprese”.

Dunque, in controtendenza ai vari decreti “sviluppo” sfornati dal Governo Berlusconi, tutti miranti alla costituzione di “reti di impresa” volte a favorire l’aggregazione ed il rafforzamento delle Pmi, invece di agire per indurre i piccoli imprenditori a superare i problemi di debolezza organizzativa e finanziaria, si è pensato di spingere le amministrazioni appaltanti ad adeguare gli appalti alla situazione delle aziende. Dunque, suddividere in lotti, per abbassare la base di gara e ridurre le lavorazioni, così da permettere la possibilità di partecipare alle gare anche ad imprese con qualificazioni Soa di livello più basso o, comunque, di affrontare il rischio operativo nonostante forte indebitamenti ed insufficiente capitale. Per poi, magari, stupirsi di Durc negativi, dovuti non solo ai ritardi dei pagamenti delle pubbliche amministrazioni, ma anche in non secondaria parte alla sottocapitalizzazione di tali aziende.

Il decreto “salva Italia” intraprese una strada molto diversa dal disfavore col quale il legislatore aveva sin qui considerato la suddivisione delle opere in lotti. Proprio questa pratica, largamente operata negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, aveva allargato a dismisura gli affidamenti mediante trattativa privata, spinto verso progettazioni piuttosto frettolose e sommarie, e indirettamente favorito pratiche tangentizie, infiltrazioni della criminalità organizzata e l’incremento dei costi di produzione al di fuori di ogni controllo e ragionevolezza.

Tracce molto chiare della visione normativa di favore verso l’unitarietà e concentrazione delle opere e dei progetti sono presenti nel d.lgs 163/2006, che, ricordiamolo, recepisce le norme comunitarie in materia. Ad esempio l’articolo 29, comma 4, ai sensi del quale “nessun progetto d'opera né alcun progetto di acquisto volto ad ottenere un certo quantitativo di forniture o di servizi può essere frazionato al fine di escluderlo dall'osservanza delle norme che troverebbero applicazione se il frazionamento non vi fosse stato”.

In effetti, a minare questa visione favorevole all’unitarietà degli appalti era già stato lo “statuto delle imprese”, la legge 180/2011, contenente una ricca disciplina dedicata agli appalti pubblici nel suo articolo 13, il cui comma 2, alla lettera a) stabilisce l’obbligo in capo alle amministrazioni di “suddividere, nel rispetto di quanto previsto dall'articolo 29 del codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, gli appalti in lotti o lavorazioni ed evidenziare le possibilità di subappalto, garantendo la corresponsione diretta dei pagamenti da effettuare tramite bonifico bancario, riportando sullo stesso le motivazioni del pagamento, da parte della stazione appaltante nei vari stati di avanzamento”.

E’ evidente come l’innesto dei commi 1-bis e 1-ter nell’articolo 2 del d.lgs 163/2006 e le previsioni dell’articolo 13 della legge 180/2011 avessero creato una situazione di contrasto interno nel sistema degli appalti. Da un lato, infatti, il favore verso l’unitarietà dei progetti e delle prestazioni, volto ad evitare surrettizi frazionamenti finalizzati ad eludere le regole poste a garanzia della concorrenza attraverso l’eccesso di ricorso a procedure negoziate. Ma, dall’altro, l’indicazione chiara del legislatore di abbassare gli importi ed i livelli di prestazione, per facilitare l’accesso agli appalti per le Pmi, proprio con la suddivisione in lotti come strumento privilegiato.

Restava un problema. L’articolo 2, comma 1-bis, del d.lgs 163/2006, pur prevedendo l’obbligo di suddividere in lotti le opere, lo condiziona alla circostanza che ciò risulti “possibile ed economicamente conveniente”. Dunque, nella configurazione iniziale della norma residuava un non irrilevante margine di discrezionalità in capo alle stazioni appaltanti.

Quanto, tuttavia, la norma aveva influito sull’onere motivazionale? Appariva, oggettivamente che, visto l’obbligo a frazionare in lotti, con la determinazione a contrattare fosse necessario spiegare nel dettaglio quali fossero appunto le ragioni che rendessero possibile e conveniente (in endiadi: le due condizioni debbono convivere) suddividere la prestazione in lotti. Si è per altro manifestata una giurisprudenza non pregiudizialmente contraria alla suddivisione in lotti: Consiglio di Stato, Sezione IV, 13 marzo 2008, n. 1101: “la suddivisione in lotti di un’opera non è in se illegittima, imponendo comunque l’applicazione del diritto comunitario se la somma degli importi dei singoli lotti supera la soglia comunitaria”.

Tuttavia, resta il dato fondamentale della disciplina dei lotti: la loro autonomia funzionale, cioè la necessità che il lotto permetta una piena fruizione e consenta una totale funzionalità dell’opera, per quanto essa alla fine possa risultare l’aggregazione di una serie di più lotti funzionali. Lo dimostra quanto prevede l’articolo 128, comma 7, del d.lgs 163/2006: “un lavoro può essere inserito nell'elenco annuale, limitatamente ad uno o più lotti, purché con riferimento all'intero lavoro sia stata elaborata la progettazione almeno preliminare e siano state quantificate le complessive risorse finanziarie necessarie per la realizzazione dell'intero lavoro. In ogni caso l'amministrazione aggiudicatrice nomina, nell'ambito del personale ad essa addetto, un soggetto idoneo a certificare la funzionalità, fruibilità e fattibilità di ciascun lotto”.

A superare il problema della necessità di una motivazione profonda ed estesa circa la possibilità di avvalersi dei lotti, interviene la novella apportata all’articolo 2, comma 1-bis, del d.lgs 163/2006, da parte dell’articolo 26-bis del d.l. 69/2013, convertito in legge 98/2013, che ha aggiunto il seguente nuovo periodo: “Nella determina a contrarre le stazioni appaltanti indicano la motivazione circa la mancata suddivisione dell'appalto in lotti”.

Come si nota, il legislatore prende una posizione chiara: nella determinazione a contrattare occorre necessariamente una motivazione riferita ai lotti.

Ciò che fa storcere la bocca, però, è l’insistenza che il legislatore dimostra verso la garanzia di partecipazione alle gare da parte delle piccole imprese. Infatti, la novella non si limita a precisare la necessità di motivare la scelta di suddividere o meno l’opera in lotti, ma impone di spiegare perché non si suddivida l’appalto in lotti. Insomma, sembra che il legislatore del decreto del “fare” abbia totalmente cambiato rotta, per indirizzarsi verso un deciso favor nei riguardi dell’interesse delle piccole e medie imprese ad ottenere opportunità di lavoro con la pubblica amministrazione. Tanto che le stazioni appaltanti sono sempre tenute a spiegare per quale ragione non suddividano l’opera in lotti.

La disposizione normativa, per un verso, dunque, limita lo spazio di discrezionalità discendente dalla circostanza che la suddivisione in lotti sia “possibile e conveniente”. In realtà, pare che per il legislatore detta suddivisione sia sempre possibile e conveniente, salvo prova contraria da fornire con la determinazione a contrattare.

E’ facile immaginare quali problemi simile intervento normativo potrebbe aprire. Oltre ad insistere, inopportunamente, sulla strada della suddivisione in lotti invece che spingere le imprese ad aggregarsi, il legislatore mette le Pmi in condizione di sindacare, di volta in volta, sulla legittimità della scelta delle amministrazioni di non suddividere gli appalti in lotti, potendo partire dalla presunzione che la legge spinge per tale tipo di scelta. Il rischio di un incremento incontrollato di un contenzioso che blocchi le opere pubbliche ed i contratti prima ancora di avviare le gare è elevatissimo; almeno, tanto quanto quello di indurre le amministrazioni, pur di non subire appunto ricorsi sulle determinazioni a contrattare, di suddividere sempre le opere in lotti, prescindendo dal requisito dell’autonomia funzionale, posto, però, a presidio di un interesse generale di valore più elevato, almeno stando anche alle direttive comunitarie: la garanzia della concorrenza e la transnazionalità.

La normativa introdotta a partire dallo “statuto delle imprese”, così come andata evolvendosi fino al decreto del “fare”, dunque, porta a più di qualche perplessità sia sul piano strettamente funzionale, sia sul rispetto dei principi del Trattato Ue.

Talmente forte è l’intento del legislatore di favorire la partecipazione agli appalti delle Pmi, anche a rischio di contrastare con i principi del Trattato, che il decreto “fare” ha modificato anche l’articolo 6, comma 5, del codice dei contratti, in modo che l’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici operi per garantire l'osservanza dei principi di cui all'articolo 2: oltre ai principi di correttezza e trasparenza delle procedure di scelta del contraente, anche la tutela delle piccole e medie imprese “attraverso adeguata suddivisione degli affidamenti in lotti funzionali”, ma anche vigilando che siano rispettate le regole della concorrenza nelle singole procedure di gara. Una specie di ossimoro, che ben simboleggia le contraddittorie disposizioni normative del decreto “fare”.

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