sabato 7 marzo 2015

#province #Gattopardi della #stampa italiana assurda inchiesta de L'Espresso

gattopardo espesso

L’inchiesta de L’Espresso sulle province poteva essere l’occasione per svelare, finalmente, agli occhi del grosso pubblico il disastro totale della riforma delle province attivato dalla legge Delrio e completato (e complicato) dalla legge 190/2014.

Si è trattato, invece, di un’occasione mancata. L’inchiesta, infatti, non può sottrarsi al dovere di informare e fornire i dati sulla folle Caporetto di una riforma devastante. Ma, li chiude e quasi nasconde all’interno di altri contenuti, che sviano totalmente l’attenzione. A partire, ovviamente, dal titolo dell’inchiesta “Gattopardi di provincia” e relativo occhiello “Politici e dipendenti inchiodati a poltrone e privilegi. Da Monza a Vibo Valentia, il viaggio in Italia di Fabrizio Gatti svela come continua il grande spreco nell’ente abolito solo sulla carta”.

Solo gli elementi del titolo dell’inchiesta meriterebbero che ci si soffermasse molto. “Gattopardi”? In che senso? Il titolo, ma anche il taglio dell’inchiesta appare teso a fornire al lettore la sensazione che nonostante siano state “virtuosamente” abolite, le province si abbarbichino a qualsiasi pretesto pur di restare in vita e continuare a sprecare allegramente.

Diamo uno scoop a L’Espresso, allora. C’è un fatto, clamoroso, che evidentemente è sfuggito al settimanale: le province non sono state per nulla abolite.

Invitiamo, cortesemente, redazione, autore dell’inchiesta e direttore del settimanale a leggere con attenzione la legge Delrio, la legge 56/2014, oppure la legge di stabilità 190/2014, per verificare se in esse esista una sola norma che disponga che le province sono abolite. Facilitiamo loro il compito: non esiste.

Dunque, la parte dell’occhiello in cui si afferma che l’ente è “abolito solo sulla carta” è semplicemente falsa, perché l’ente non è abolito, nemmeno sulla carta. E ciò non avverrà nemmeno con la riforma della Costituzione, che si limiterà ad eliminare la parola “province” dal testo, ma gli enti scaturenti dalla devastante riforma resteranno, con diverse funzioni e altro nome, ma resteranno.

Torniamo al “Gattopardo”, definizione che dà l’idea di un indolente trascinamento verso un mondo che cambia, opponendo resistenza passiva, nella convinzione che occorra che tutto cambi, perché tutto resti come prima. Poniamo a L’Espresso una domanda: ma, chi è il “Gattopardo”? Chi ha fatto la riforma? Le province? Oppure, Governo e Parlamento?

Le province col gattopardismo non c’entrano nulla. Dovrebbe essere perfettamente chiaro che gli enti province sono il bersaglio della riforma, non il motore. E che non stanno opponendo, anche perché prive di qualsiasi strumento, alcuna resistenza. Se ancora vi sono e se ancora la riforma non ha preso piede, le responsabilità sono del Governo, il vero e unico Gattopardo protagonista di una delle riforme più sbagliate e mal congegnate della storia.

Resta, poi, da comprendere quali sarebbero i privilegi e le poltrone alle quali resterebbero inchiodati politici, dipendenti e dirigenti.

Leggendo l’articolata inchiesta di Fabrizio Gatti, dei dirigenti provinciali nemmeno si parla. Vabbè: un articolo “a sensazione” per fare grancassa va bene, ma almeno la parolina “dirigenti” nel corpo dell’articolo la si poteva inserire.

Vediamo, allora, cosa risulta dall’inchiesta, rispetto ai politici inchiodati. In effetti, nel corpo dell’articolo se ne parla. Leggiamo: è la storia di Fabrizio Sala (il cui cognome, non si sa perché, dovrebbe apparire a prima vista un equivoco con Salina… mah). Cosa c’è di clamorosamente gattopardesco nella vicenda di costui? Sentite sentite: era assessore della provincia di Monza e Brianza e nel 2013 se n’è andato per andare a fare l’assessore, ora, in regione Lombardia.

La domanda, a questo punto, sorge spontanea: e allora? Cosa c’entra con le province, col Gattopardo, con la riforma, la normalissima vicenda di un politico che cerca di far carriera, saltando da un ente all’altro? O si vuol lasciar credere che l’ingresso in regione Lombardia di un assessore ex provinciale sia frutto di un imperscrutabile “gomblotto” delle potenti, ma oscure, forze provinciali, che per metempsicosi si reincarnano nei poteri delle regioni?

Che si tratti di una vicenda normalissima nella carriera dei politici lo attesta la circostanza che si è ripetuta moltissime volte: persino l’ex presidente dell’Unione delle Province Italiane (Upi) Antonio Saitta, da presidente della Provincia di Torino e primo critico della devastazione apportata al sistema dalla riforma Delrio, oggi si trova assessore alla sanità della regione Piemonte. Dunque? Il Gattopardo chi è? Saitta, la regione Piemonte, o la provincia? Vallo a capire.

Insomma, di gattopardismo dei politici, francamente non si vede dove ve sia. Una cosa, invece, rispetto alla politica è chiara: la legge Delrio, senza aver affatto abolito le province, ha, invece, abolito il voto democratico del corpo elettorale. E’ noto, infatti, che le province, non abolite per nulla, adesso sono enti con rappresentanza di secondo grado, sicchè i presidenti ed i consiglieri provinciali (non ci sono più gli assessori), sono eletti dai consiglieri comunali ed i sindaci dei comuni del territorio. Una sorta di sperimentazione in vitro della grande privazione dell’espressione democratica del voto, che avverrà in grande stile e con molto maggiore peso grazie alla riforma del Senato. Si ha, comunque, allora, la netta sensazione che il Gattopardo, per gli effetti della riforma elettorale delle province, siano i partiti, lasciati liberi di incidere attraverso gli ordini delle loro segreterie nel decidere quali presidenti di provincia e consiglieri nominare, ed i comuni, che hanno acquistato una rilevante capacità di influenza nei confronti delle province.

Vabbè, si dirà. E’ giusto che siano i comuni a guidare le province. I comuni sì che sono virtuosi e vicini alla popolazione. Spiega l’inchiesta de L’Espresso, infatti, che le province hanno tantissimi debiti fuori bilancio! Meglio, allora, che siano amministrazioni virtuose come i comuni a gestirle.

Peccato, però, che l’inchiesta de L’Espresso, mentre riporta i dati sui debiti fuori bilancio delle province, ometta quelli, interessantissimi, dei comuni.

Ma, noi, che siamo un po’ pignoli, li riportiamo, traendoli dalla medesima fonte, cioè la deliberazione della Corte dei conti, Sezione per le Autonomie Deliberazione della Corte dei Conti, Sezione Autonome 29/sezaut/2014/frg, relativamente all’anno 2013:

  • - debiti fuori bilancio dichiarati da 75 province: 130,347 milioni;

  • - debiti fuori bilancio dichiarati da 1951 comuni: 697,851 milioni.


Ops! I debiti fuori bilancio dei comuni, gli enti che hanno preso in mano le redini delle province, sono molto superiori a quelli delle province.

Non stiamo a sottilizzare. Vorrà dire che le province dovranno essere messe a bada per l’ammontare complessivo del loro debito, altissimo: secondo fonti di Bankitalia, elaborate dall’Upi, nel 2013 era di 8,452 miliardi. Chissà quanto più basso sarà stato il debito dei comuni, no? Vediamo, sempre dalla stessa fonte: 47,292 miliardi. Ops! I debiti dei comuni sono molto maggiori di quelli delle province. E il debito delle regioni? 36,577 miliardi; e quello di altri enti, in particolare la sanità? 15,289 miliardi. E quello dello Stato, autore della riforma delle province? 2.067 miliardi.

Anche guardando ai crudi numeri, non sembra affatto che le province costituiscano il reale problema della finanza pubblica. Né lascia molto tranquilli la circostanza che l’eventuale messa a freno dei loro “sprechi” sia assegnata ad enti che sprecano molto, ma molto di più…

Ovviamente, questi dati nell’inchiesta de L’Espresso non sono riportati. Eppure, come detto, Fabrizio Gatti non poteva sottrarsi dal fornire uno squarcio di verità. In poche righe, soffocate tra testa e coda dell’articolo, parla di “strangolamento a mani nude delle Province”, riferendosi all’incredibile ed insostenibile serie di “tagli” apportati al comparto in pochissimi anni. E l’inchiesta riporta i dati: “2,9 miliardi già persi dal 2009, via un altro miliardo nel 2015, via due miliardi nel 2016, via tre miliardi nel 2017”. Un comparto che nel 2011 aveva una spesa complessiva di 12 miliardi circa, si ritrova nel 2014 con una spesa di 9,5 miliardi, destinata a ridursi a 6,5 miliardi nel 2017. Una riduzione praticamente del 50%, mai imposta a nessun altro comparto. La spesa pubblica dello Stato (fonti dati Siope elaborati da Upi) nel 2013 ammontava a 481,454 miliardi di euro. Una riduzione del 50% di questa spesa avrebbe portato l’Italia certamente fuori dalla crisi molto tempo fa. Da notare che questa spesa dello Stato è aumentata di circa 100 miliardi dal 2012. Allora, chi è il Gattopardo? Chi amministra lo Stato, continuando ad accrescerne la spesa a dismisura? Oppure, le province, falcidiate da una serie di interventi finanziari che le stanno annichilendo, impedendo loro anche di erogare i servizi ai cittadini, vere vittime dell’insensatezza delle riforme? Già nel 2015, infatti, le province dovranno fare i conti con una riduzione drastica della capacità di spesa, ma, come riporta l’inchiesta de L’Espresso “A parità di servizi, però, e quindi di costi: strade (piene di voragini), manutenzione e riscaldamento nelle scuole (al minimo), trasporti (ridotti), assistenza ai disabili (quasi inesistente), stipendi (in ritardo)”.

E tutto questo, per una riforma che, riportiamo sempre le considerazioni dell’inchiesta, “alla fine inciderà soltanto sull'1,26 per cento della spesa pubblica nazionale: dieci miliardi da ridurre a meno della metà. Il grosso, 562 miliardi destinati all'amministrazione centrale e 163 miliardi alle Regioni, non verrà toccato. Resteranno compensi e vitalizi da favola a parlamentari, segretarii sottosegretari e deputati regioni”.

Verissimo. Ma, allora, dov’è che si annida il Gattopardo? Nelle province, realmente investite dall’ondata di piena di una riforma solo populista e dagli effetti finanziari pressoché nulli per le risorse pubbliche. Oppure in Stato e regioni, la cui spesa resta sempre crescente, con privilegi a loro volta crescenti (sarà l’aria delle tutele crescenti del Jobs Act), che troveranno la sublimazione in un Senato di nominati, del quale entreranno a far parte trionfalmente proprio le regioni ed i comuni, dalla discutibilissima virtù finanziaria (e non solo), come visto sopra?

C’è, poi, l’ultimo, ma non ultimo, elemento del titolo ed occhiello dell’inchiesta: quello dei “dipendenti inchiodati alle poltrone”.

Sembra, oggettivamente (non ce ne vogliano a L’Espresso) una vera e propria presa per i fondelli nei confronti di migliaia di persone.

Inchiodati? Vediamo un po’. Giovedì 5 marzo, il giorno prima della pubblicazione dell’inchiesta de L’Espresso, il quotidiano Il Foglio dà alle stampe un’intervista al Ministro Maria Anna Madia. Si legge, nell’articolo: “già entro la fine di marzo si manifesterà "una sfida non da poco" per l'esecutivo. "Le province dovranno comunicarci gli esuberi che dipendono dal superamento delle province stesse. Sui 39 mila dipendenti provinciali complessivi, sono circa 19 mila quelli necessari alle funzioni che restano di competenza delle province dopo la Legge Deirio - dice Madia - Ci siamo impegnati a ricollocare, in prospettiva, tutti gli altri, fino a 20 mila persone, anche se alcuni di loro per esempio andranno semplicemente in pensione". I 20 mila non saranno licenziati, ha garantito l'esecutivo ("anche per questo nell'ultima Legge di stabilità abbiamo bloccato tutte le assunzioni nella Pa per due anni"), ma dovranno accettare di essere spostati ad altre amministrazioni. "Collaborando con il ministero della Giustizia, per esempio, abbiamo preparato un bando per circa 1.000 ufficiali giudiziari che andranno a rafforzare gli organici lì dove ci sono carenze. Ciò non toglie che siamo di fronte alla più grande operazione di mobilità della storia repubblicana. E' nella filosofia della riforma: il dipendente pubblico non può essere considerato 'proprietà privata' di questa o quell'altra amministrazione”.

Nonostante questa intervista al Ministro Madia sia piuttosto piena di semplificazioni, il dato è comunque vero: 20.000 dipendenti delle province, per effetto della sgangherata riforma in atto, dovranno essere trasferiti e in fretta, entro 2 anni, perché altrimenti perderanno il lavoro. Parlare di dipendenti “inchiodati” appare, francamente, di discutibile gusto.

La stessa inchiesta de L’Espresso riporta queste cifre. Non si capisce, allora, da dove possa trarsi la sensazione che vi sia personale “inchiodato” nei suoi privilegi; mentre, forte è la sensazione che l’occhiello utilizzi questa metafora, per richiamare lettori e suscitare inviti a ripetizione nelle trasmissioni di approfondimento: infatti, il direttore de L’Espresso era ospite nella trasmissione Ottoemezzo su La7 il giorno stesso dell’uscita dell’inchiesta.

I 20.000 dipendenti provinciali rischiano molto seriamente di restare senza lavoro, come del resto dispone in maniera chiarissima la legge 190/2014. Né il Governo sta facendo nulla, contrariamente a quanto affermano i suoi esponenti, per gestire in maniera ordinata i trasferimenti. Il 28 febbraio proprio il Ministro Madia avrebbe dovuto approvare un decreto per stabilire i criteri dei trasferimenti: non si è visto. Nell’intervista de Il Foglio, sempre il Ministro Madia afferma che per facilitar la ricollocazione dei 20.000 provinciali “abbiamo bloccato tutte le assunzioni nella Pa per due anni”. Nelle stesse ore in cui il Ministro dichiarava questo, appunto violava il termine per l’essenziale decreto sui trasferimenti; l’Agenzia delle entrate bandiva un concorso pubblico (con buona pace delle assunzioni bloccate) per 892 funzionari; il Ministero della giustizia correggeva il proprio bando di mobilità per 1031 posti, ma senza prevedere alcuna priorità per i dipendenti provinciali in soprannumero; le migliaia di amministrazioni continuano ad assumere come vogliono e credono, forti, ora, anche di pronunce più che discutibili della Corte dei conti, che, in totale contrasto con la circolare 1/2015 sempre della Funzione Pubblica, ritengono ancora possibile la mobilità dei dipendenti pubblici tra enti, non riguardante i dipendenti provinciali. Il tutto, mina totalmente l’efficiacia e l’attuabilità della riforma, lascia a carico delle province il costo di dipendenti che non sarà per nulla facile, né trasferire, né lasciare al lavoro.

Le province non hanno alcun interesse a che tutto cambi, perché tutto resti come prima. Per loro, le province, tutto è cambiato. I bilanci sono stati devastati dalle leggi e non possono sostenere né la spesa per i servizi, né quella per il personale. Il comparto avrebbe tutto l’interesse alla velocissima realizzazione della riforma.

L’inchiesta de L’Espresso evidenzia come sia paradossale che a Roma vi siano tantissime centrali operative di forze di polizia, tra cui quella della provincia (pardon, città metropolitana, oggi). Ma, cosa sarebbe costato al Governo ed al Parlamento disporre, subito, hic et nunc, il trasferimento dei 3000 agenti di polizia provinciale ad una qualsiasi forza di polizia? 3000 dipendenti in meno da ricollocare, una razionalizzazione organizzativa immediata, 100 milioni di spesa per personale in meno per le province. E perché si continua ancora con lo stillicidio sull’Agenzia nazionale per l’occupazione? 7.500 dipendenti delle province avrebbero potuto essere immediatamente trasferiti al nuovo organo di gestione delle politiche del lavoro, altri 7.500 dipendenti in meno da ricollocare e 300 milioni circa risparmiati per le province. Ma, dell’agenzia si parla solo sulla carta nella legge 183/2014 e perché veda la luce occorrerà forse aspettare prima la riforma della Costituzione. Insomma difficile vederla in opera prima della fine del 2016. Eppure, Governo e Parlamento potevano decidere hic et nunc di mantenere le funzioni legate alle politiche del lavoro in capo alle province solo in via transitoria, accollandosi intanto la connessa spesa, visto che lo Stato già dal 2015 preleva forzosamente dalle province il miliardo di cui si è parlato prima. Miliardo che, si badi, non è un taglio: lo Stato non ha nulla da tagliare alle province, perché dal 2013 non versa loro nemmeno un centesimo. Per cui, non taglia, ma chiede soldi: 1 miliardo nel 2015, 2 nel 2016, 3 nel 2017.

Parlare di dipendenti privilegiati fa sempre molto gioco e comodo alla stampa generalista, perché è un modo sicuro per incrementare numero di lettori e di commenti agli articoli.

L’inchiesta, dunque, sui gattopardi (che, si spera aver dimostrato non sono per nulla le province) ha finito per spostare l’attenzione, allora, sui “dipendenti privilegiati”, anche qui, con un’operazione davvero spiacevole: quella, cioè, di prendere comportamenti esecrabili di alcune persone, per farli assurgere a paradigma generale. Se quei dipendenti della provincia di Napoli, quel custode della scuola di Monza, quei dipendenti della provincia di Isernia si comportano così, vuol dire che tutti i dipendenti provinciali sono fannulloni, che rubano lo stipendio ed il pane agli altri cittadini italiani, depredati da questa congerie di raccomandati.

Infatti, basta andare sulla pagina web de L’Espresso e leggere i commenti che si sono scatenati. Ovviamente, c’è il salto logico: da mandare al rogo non sono solo i dipendenti delle province (loro, magari, per primi), ma tutti i dipendenti pubblici nel loro complesso.

E’ un sistema troppo facile per accaparrarsi lettori. Lo utilizzano da anni i modelli di inchieste di tale genere, Stella e Rizzo, per altro segnalatisi negli anni proprio per aver gettato benzina sul fuoco della campagna anti province, quella che sta portando al risibile risultato della strozzatura a mani nude di enti che valgono poco più dell’1% della spesa pubblica, di cui parla l’inchiesta de L’Espresso.

Alla fine, la sensazione nettissima è che il vero Gattopardo sia la stampa italiana. Da anni non fa altro che seguire l’onda e rafforzare la campagna anti-province. Fino a pochi mesi fa, tutti i giornali, senza alcuna eccezione, erano con Delrio. Nessuno ha mai evidenziato, come era già da subito possibile e doveroso, i danni organizzativi derivanti dalla riforma, gli effetti perversi, i risparmi risibili, che ne sarebbero conseguiti.

L’Espresso accompagna l’inchiesta di Gatti con un breve articolo “Conto alla rovescia per gli esuberi”, che certifica il disastro della riforma: “La disposizione della legge di riforma 56/14 completamente attuata riguarda soltanto il cambio degli organi politici: i presidenti di Provincia sono oggi i sindaci di uno dei Comuni del territorio, le giunte sono state cancellate, i consigli provinciali sono stati rieletti dagli amministratori comunali ed è stata insediata l'assemblea dei sindaci. «Una valida alternativa a questa riforma», spiega Giuseppe Coduto del centro studi internazionali Edimas, «sarebbe stata la trasformazione delle Province in uffici territoriali delle regioni». Il rischio invece è che i consorzi di Comuni, nella necessità di sostituirsi alla soppressione delle province per garantirne i servizi, moltiplichino i centri di spesa, anziché ridurli”.

Chi scrive, lo aveva già affermato, nel 2012, ben 3 anni fa, sulle pagine de La Voce Info, nell’articolo “Se le regioni inglobano le province, ove si legge: “Saltato il livello provinciale, sia l’articolo 118 della Costituzione che disciplina la sussidiarietà verticale, sia valutazioni di maggiore efficacia della redistribuzione delle competenze, sia, soprattutto, la caratteristica di funzioni di “area vasta” delle competenze sottratte alle province, avrebbero dovuto consigliare di individuare nelle Regioni e non nei comuni gli enti destinati a succedere nell’esercizio delle funzioni dismesse delle province.

La scelta di sminuzzare e polverizzare le funzioni provinciali (come scuola, edilizia scolastica, formazione, lavoro, programmazione territoriale) tra i comuni appare perdente, e in contraddizione con la decisione, adottata dal medesimo decreto, di accorpare gli uffici giudiziari e dei piccoli comuni. Per perseguire economie di scala, è sempre consigliabile aggregare e non diluire”.

Ma, la stampa-Gattopardo per anni si è totalmente disinteressata del problema e delle conseguenze di una riforma delle province che poteva benissimo essere realizzata, tuttavia, con metodi, sistemi attuativi, tempi e risorse adeguati ed utili ad una sua buona riuscita e non allo smacco che sta vivendo.

Ma, alla stampa-Gattopardo, che segue troppo spesso veline, onda e pancia, fa comodo tutto. Fa comodo osannare una riforma dannosa come quella delle province, per ingraziarsi il Governo e sventolare al popolo la bandiera della lotta agli sprechi. Ma, allo stesso tempo, fa anche comodo che la riforma, destinata al fallimento, appunto fallisca, così da poter, poi, sbizzarrirsi in inchieste come quella de L’Espresso, che, con ritardo perfettamente sincronizzato, si accorge che la riforma fa acqua da tutte le parti, condendo però la cronaca della disfatta con elementi di populismo, per non dispiacere comunque ai manovratori e, soprattutto, non distaccarsi troppo dalla richiesta del popolo, che ha voglia di dare addosso ai dipendenti pubblici e che se i 20.000 saranno alla fine licenziati, scenderà in piazza a festeggiare e gioire.

Tutto questo era facilmente prevedibile e si è puntualmente verificato. Quanto vogliamo scommettere che ora, per qualche tempo, si attiverà l’onda delle inchieste sulle province?

Ultime considerazioni. I comportamenti dei dipendenti descritti dall’inchiesta de L’Espresso sono gravissimi e vanno condannati, senza alcuna riserva. Ciò, anche a prescindere dalla circostanza che la sede di Napoli dove si descrive la presenza di due dipendenti che dormono ed uno che guarda i cartoni possa non essere della provincia (città metropolitana), bensì del comune.

Tuttavia, le responsabilità individuali ed organizzative restano degli individui che vìolano i loro doveri e delle singole organizzazioni che non vigilano.

L’inchiesta irride alla “sala Odevaine” nella provincia di Roma. Ma, Odevaine è entrato a far parte della pubblica amministrazione come dirigente entrando dal portone principale del Comune di Roma, chiamato con tutti gli onori dall’allora sindaco Veltroni, come dirigente “di fiducia” (molto ben ripagata). E scandali come Mose o Mafia Capitale, per non citarne altri, o dissesti come quelli di Alessandria o Parma, si sono verificati in comuni, non in province. E l’assenteismo di massa dei vigili urbani si è verificato a Roma, nel Comune di Roma, non presso la provincia.

Eventi come questi, non hanno fin qui indotto a ritenere che dovessero essere aboliti i comuni, anche se gli scandali dei rimborsi elettorali presso le regioni da qualche tempo suscitano le ire abolizioniste di chi semplicisticamente pensa che i problemi si risolvano non amministrando bene, ma abolendo. Come se negli Usa, dopo il caso Watergate ed il coinvolgimento del Presidente Nixon la soluzione del problema fosse stata quella di abolire lo Stato federale.

Il fatto è che in Paesi anglosassoni, o, comunque, con tradizioni democratiche molto solide, organizzazione istituzionale seria, stampa libera e popolazione correttamente informata, pulsioni populistiche verso l’abolire tutto, tanto per farlo, non ci sono. Infatti, nessuno si sogna nemmeno lontanamente di abolire le province, che per esempio la Germania si tiene ben strette, con i loro immensi poteri anche nell’economia, essendo il landkreis principali investitori pubblici delle banche rurali e popolari.

In quelle Nazioni non solo non è facile che vi siano gattopardi in politica e nelle istituzioni, ma è da escludere che una stampa-Gattopardo la mattina osanni riforme devastanti, per poi la sera sfornare inchieste che danno del Gattopardo a chi tali riforme le subisce.

2 commenti:

  1. sono utili gli interventi per capire dove stiamo andando, dove vanno le province, dove non vanno i dipendenti, generare confusione è una tattica oramai standardizzata. Alcuni autorevoli personaggi hanno l'intimo gusto di attirare l'attenzione sui problemi reali stavolgendone il significato , alimentano il dibattito senza provocare la soluzione.

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  2. […] all’esaustivo commento nel merito di Luigi Oliveri, che da par suo confuta nel migliore dei modi i contenuti, mi limito ad andare ancora più contro […]

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