sabato 8 agosto 2015

Lo Stato non è un’azienda

E’ difficile prendersi la responsabilità di andare contro la corrente di un pensiero unico, di matrice bocconiana, che dilaga in ogni ganglo della dottrina, dell’informazione, della politica, dell’amministrazione ed anche della giurisprudenza.

Tuttavia, qualcuno che avvisi della circostanza che il re è nudo è opportuno vi sia. E allora, occorre dirlo con chiarezza: lo Stato non è un’azienda.

Da oltre 20 anni si assiste a una serie di riforme della pubblica amministrazione, tutte “epocali”, tutte finalizzate a far risparmiare, semplificare la vita a cittadini e aziende, ad ottenere migliori prestazioni con minori risorse, a trasformare i dirigenti in manager, a passare dalla “cultura dell’atto” a “quella del risultato”. Ultima di questa serie innumerabile di riforme è la legge delega di recente approvata in via definitiva in Parlamento. E, come tutte le altre, si fonda sulla filosofia secondo la quale “Lo Stato è come un’azienda”, sicchè introdurre la valutazione, gli obiettivi, gli incentivi è necessario per ottenere un’amministrazione che funzioni meglio.

Nessuno, tuttavia, si chiede perché da 20 anni e passa si adottano riforme della PA al grido “lo Stato è come un’azienda” e nessuna abbia funzionato. Nessuna riforma ha prodotto i risultati di maggiori semplificazioni, minori costi, più alta efficienza o, almeno, non nelle misure raccontate nelle sempre mirabolanti e fantasmagoriche presentazioni autoreferenziali dell’epocale riformatore di turno.

Eppure, un perché deve esserci. Ed è facile reperirlo nella constatazione che si sia adottato un approccio largamente sbagliato: quello, appunto, di considerare lo Stato come se fosse un’azienda.

Una chiave di lettura, questa, semplicistica e sbagliata, che sconta il difetto della sua provenienza da consulenti, ricercatori e politici da università e mondo aziendale-imprenditoriale. Portatori, dunque, di una cultura e di una visuale ben precisa, intenzionati ad imporle anche all’interno di mondi e realtà con esse non si vuol dire incompatibili, ma profondamente diversi, tanto da richiedere adattamenti molto consistenti.

Secondo la filosofia “aziendale”, lo Stato dovrebbe funzionare meglio se, come in un’azienda, si valuta la dirigenza, si legano gli incentivi a particolari obiettivi, così da incentivare indirettamente i dirigenti ad agire come manager, dunque organizzando i servizi diretti e coordinando il personale in modo che anche essi raggiungano risultati tali da ottenere premi. Il tutto a beneficio, quindi, del cittadino, destinatario di servizi migliori grazie a questo sistema “forzato” di mercato all’interno della gestione.

Questa visione è completamente sbagliata, per una serie di ragioni. In primo luogo per l’evidente e ritrita questione che un’azienda persegue un interesse egoistico, far profitti e, dunque, vendere i propri servizi al minor costo o con i maggiori margini di profitto possibili. Lo Stato non fa profitti, persegue un interesse generale ed ha il compito di redistribuire le risorse acquisite con le imposte, per garantire livelli essenziali di prestazioni e favorire sviluppo e investimenti, in particolar modo proprio nei settori nei quali l’azione del privato risulterebbe troppo limitata.

In secondo luogo, la concezione “aziendalistica” dell’amministrazione sconta un altro clamoroso errore: non tiene conto della diversità molto profonda dell’autonomia operativa di un’azienda, in confronto ad un ente pubblico.

L’azienda agisce entro parametri precisi: i codici civile e penale, alcune leggi di settore, le regole del mercato del lavoro, i sistemi di qualità; ma, sopportati e scontati questi vincoli (non teniamo conto di quelli finanziari), ha ampia libertà di scegliere quale prodotto e servizio svolgere, a quali clienti rivolgersi, in quale ambito territoriale, con quali strumenti, entro quale mercato concorrenziale. Un’azienda, dunque, pur producendo uno stesso bene (un giornale, una vettura, un prodotto alimentare, etc) può scegliere una clientela più o meno ricca, un mercato più o meno avanzato, una rete di vendita on line o di contatto, un prodotto a maggiore o minore intensità di manodopera e di maggiore o minore penetrazione nell’ampio pubblico o entro ristretti target di mercato (Fiat e Ferrari vendono entrambi autovetture, ma la prima ne vende molte di più, eppure stanno entrambe nel mercato).

Lo Stato deve rispettare non solo i vincoli normativi esistenti per le aziende, ma il più ampio e complesso spettro delle regole pubblicistiche preposte alla sua azione: si pensi ai vincoli particolari nella gestione finanziaria e contabile, alle regole per affidare gli appalti, alle garanzie partecipative dei procedimenti amministrativi. I vincoli sono molto maggiori. Così come nella gran parte dei casi, le amministrazioni pubbliche non possono scegliere il prodotto da erogare, né la clientela a cui rivolgersi.

Dunque, un’azienda dispone di un’autonomia amplissima nello scegliere i metodi di produzione ed i sistemi organizzativi, sicchè l’azione della dirigenza risulta fondamentale; lo Stato predetermina con le leggi e le altre norme le regole per erogare i propri servizi, senza lasciare sostanzialmente alcun margine per scegliere i destinatari dell’azione posta in essere, né gli strumenti di produzione.

Un dirigente di un’azienda può liberamente decidere quali strumenti di negoziazione utilizzare per stringere un affare con altre aziende. Nessun dirigente pubblico può scegliere (se non incorrendo in illeciti anche penali) di trattare contratti con aziende private se non attuando il codice dei contratti pubblici ed il connesso regolamento di attuazione, qualcosa come 500 articoli che non lasciano il minimo spazio alle scelte “manageriali” ed “organizzative”, visto che stabiliscono analiticamente persino gli strumenti con i quali comunicare alle aziende gli esiti delle gare.

Gli esempi potrebbero essere molti altri. Sta di fatto che la normativa e l’ordinamento delle amministrazioni pubbliche non ha nulla a che vedere con un’azienda.

Questo, ovviamente non significa che non siano da considerare come un diritto di ogni cittadino ed impresa la correttezza dell’azione amministrativa, la sua efficienza, la sua economicità.

Ma, immaginare che questi diritti possano essere garantiti attraverso strumenti “aziendalistici” è fallace ed ha portato a 20 e più anni di convulse riforme su riforme della PA, tutte diverse eppure tutte uguali, soprattutto uguali nel non servire a molto.

Proprio perché lo Stato non è un’azienda, non ha senso applicare strumenti di valutazione ed incentivazione propri dei sistemi aziendali.

Legare gli incentivi dei dirigenti e del personale di un’impresa a particolari risultati operativi è corretto e costituisce una spinta indispensabile per l’attività imprenditoriale. Ma, è evidente che i risultati non possono che essere correlati al maggior numero di prodotti venduti, alla crescita del fatturato, all’acquisizione di nuovi mercati o clienti, all’ottenimento di brevetti, tutti trasformabili in entrate maggiori di quelle previste, traducibili, a loro volta, in incentivi stipendiali di varia misura.

E’, insomma, naturale che se un giornale vende più copie di quanto previsto dal piano industriale, parte dei maggiori introiti sia diffuso come premio alla redazione.

Queste logiche, però, allo Stato o, comunque, alla gran parte dei servizi di base, non sono semplicemente applicabili e se le si applichino sono foriere talvolta di effetti deleteri.

E’ assurdo attribuire un premio di produzione, ad esempio, agli uffici demografici di un comune perché hanno prodotto più carte di identità. Questa maggiore produzione non deriverebbe certo da condizioni di mercato, ma solo dalla richiesta – ingovernabile – di carte allo sportello.

Né avrebbe senso incentivare gli ospedali pubblici in relazione al semplice dato della riduzione dei tempi di degenza, di riduzione dei costi dei farmaci e del contenimento della spesa gestionale. Questo va benissimo per un’azienda di cura privata, ma nel caso di una struttura pubblica, la prima (forse anche l’unica) cosa da valutare è come contribuisce al presidio degli indice generali di salute. A questo proposito, quello che c’è da spendere si deve, non solo, si può, spendere.

La misurazione, allora, dei risultati e dell’incentivazione nella pubblica amministrazione andrebbe fatta nel rispetto di parametri completamente opposti a quelli normali nelle aziende private.

Anzi, probabilmente è proprio sbagliata l’idea dell’incentivazione. La prova che essa sia fuori bersaglio è data dalla circostanza che da oltre 20 anni non si è riusciti a produrre nemmeno uno straccio di sistema standard valutativo, con indicatori accettabili e minimamente oggettivi, salvo qualche sforzo compiuto proprio nel tentativo di evidenziare livelli essenziali di assistenza nella sanità o livelli essenziali delle prestazioni nel mercato del lavoro (in questo caso, con un ritardo inaccettabile ed un livello di definizione infimo).

Del resto, perché si dovrebbe attribuire un “premio” al dirigente che riesce ad appaltare un lavoro nei tempi previsti? O perché ha chiuso una procedura rispettando tutti i passaggi? O perché ha assicurato tutte le pubblicazioni imposte dalle norme sulla trasparenza?

Non si tratta, forse, di doveri d’ufficio? Nell’adempiere a questi (e a molti altri, frutto di attività obbligatorie della PA), il dirigente, come del resto l’apparato, adempiono esattamente ad un dovere. Non producono maggiori entrate, non acquisiscono nuovi clienti, non estendono la posizione dell’azienda nel mercato, non elaborano nuovi prodotti.

Non vi è proprio il presupposto per un incentivo, secondo le regole aziendali. Di recente, come noto, l’Aran ha modificato il proprio orientamento sui presupposti per incrementare il fondo del salario accessorio negli enti locali, allo scopo di incrementare le risorse appunto da destinare agli incentivi. Per esemplificare progetti “credibili” ai quali destinare gli incentivi, ha indicato l’estensione dell’orario di apertura di un ufficio e l’attivazione dei turni per gestirlo, giungendo a considerare possibile pagare una prestazione fissa e continuativa (il turno) con risorse variabili.

Ma, l’estensione dell’orario di lavoro, se non legata ad un indice di incremento della produttività, quale riduzione del costo orario per unità di prodotto o incremento degli ordinativi di vendita, a cosa serve, ai fini dell’incentivo? La risposta è chiara: assolutamente a nulla. Meno ancora, se l’aumento dell’apertura degli sportelli è un’obbligatoria misura per assicurare ai cittadini livelli minimi essenziali delle prestazioni.

La verità è un’altra. Occorrerebbe determinare un valore preciso e standard del costo orario per prodotti o servizi nella PA ed eliminare gli incentivi, se non con le eccezioni di ambiti (come sanità, servizi sociali, lavoro, istituzioni culturali) nei quali si possono fissare livelli base di prestazione e standard, tali da consentire “asticelle” al di sopra delle quali possano scattare premi.

Diversamente operando, poiché la gran parte delle attività amministrative è dovuta e obbligatoria, sarebbe molto più razionale agire per sottrazione: negare parte del salario a quegli uffici che non siano in grado di assicurare i livelli essenziali. Uffici che, per esempio, pur in presenza di obblighi di digitalizzazione di procedimenti o documenti chiedano la copia cartacea “di cortesia”; uffici che sforino i tempi dei procedimenti per una certa percentuale dei procedimenti trattati; uffici che eccedano nelle trattative private; uffici che paghino in tempi superiori alle prescrizioni.

Finchè non si esce da questi equivoci, ogni riforma bocconian-aziendalista della PA sarà sempre molto “epocale”, ma di epocale davvero avrà sempre il suo fallimento.

L.O.

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