sabato 5 dicembre 2015

Articolo 18 riformato: si applica alla PA. Dov’è la sorpresa?

 

Citare se stessi risulta sempre antipatico, ma se qualcuno non rimane certamente sorpreso dalla sentenza della Cassazione 26 novembre 2015, n. 24157 secondo la quale l’articolo 18, come riformato dalla legge Fornero si applica al lavoro pubblico, è certamente chi scrive.

Sin dal 2012, infatti (vedasi La Settimana degli Enti Locali 5/2012: “Già disapplicato l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori per la P.A.?; LeggiOggi del 26 marzo 2012: “La gran confusione su articolo 18 e lavoro pubblico”; La Voce.info del 22 marzo 2012: “Articolo 18 nella PA: una domanda a due ministri”) chi scrive ha manifestato e motivato l’idea dell’inevitabile estensione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, come riformato dalla “legge Fornero” al lavoro pubblico.

La motivazione, in effetti, è semplicissima e sta tutta in una norma di poche parole, l’articolo 51, comma 2, del d.lgs 165/2001: “La legge 20 maggio 1970, n.300, e successive modificazioni ed integrazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti”.

Pochissime e semplicissime parole, che danno vita ad uno strumento ben noto: il cosiddetto “rinvio dinamico” di norme ad altre norme.

L’estensione al lavoro pubblico privatizzato (tutti i dipendenti pubblici ad eccezione di quelli contemplati nell’articolo 3 del d.lgs 165/2001) delle leggi sul lavoro pubblico, implica la connessa applicazione della principale tra le leggi di disciplina del rapporto di lavoro: la legge 300/1970. Dunque, il d.lgs 165/2001, testo unico sul rapporto di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, ha disposto appunto il rinvio dinamico, per effetto del quale lo Statuto dei lavoratori si applica integralmente (salvo le sue norme specificamente derogate dal medesimo d.lgs 165/2001: si pensi all’articolo 52, comma 1, relativo alle mansioni superiori), così come tutte le sue modifiche ed integrazioni.

Parole semplici ed indicazioni chiare anche secondo la Cassazione. La sentenza 24157 non può che trarne le conseguenze: “è innegabile che il nuovo testo dell’art. 18 della legge n. 300/70, come novellato dall’art. 1 legge n. 92/12, trovi applicazione ratione temporis al licenziamento per cui è processo e ciò a prescindere dalle iniziative normative di armonizzazione previste dalla legge cd Fornero di cui parla l’impugnata sentenza”, perché “l’inequivocabile tenore dell’art. 51 cpv. d.lgs. n. 165/01 prevede l’applicazione anche al pubblico impiego cd. contrattualizzato della legge n. 300/70 “e successive modificazioni ed integrazioni”, a prescindere dal numero dei dipendenti”.

La lineare semplicità con la quale la Cassazione interviene nel dibattito, rende ancor più evidente quanto barocca e bizantina sia allo stesso tempo la tesi secondo la quale, invece, l’articolo 18 non sarebbe applicabile alla PA. Riportiamo un passaggio di uno degli interpreti che meglio rappresentano l’indirizzo rigettato dalla suprema Corte, F. Carinci, in “Ripensando il “nuovo” art. 18 dello Statuto dei lavoratori” (in http://www00.unibg.it/dati/corsi/6669/63578-seconda%20lettura.pdf): “Ma proprio da quella stessa interpretazione letterale qui condivisa riparte chi esclude che il nuovo art. 18 sia applicabile al solo lavoro privato: se, a’ sensi del co. 7, ricade sotto la l. n. 92/2012 quello che vi è regolato esplicitamente anche per il pubblico impiego privatizzato; allora ciò vale proprio per il nuovo art. 18, in forza del rinvio mobile di cui all’art. 51, co. 2 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165: “La legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni ed integrazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti”. Dato che l’art. 51, co. 2 è a tutt’oggi in vigore, l’art. 18, così come modificato ed integrato dall’art. 1, co. 42 ss. l. n. 92/2012, varrebbe anche per il dipendente delle p.a. soggette al d.lgs. n. 165/2001. Non c’è dubbio, un bell’argomentare. Ma, già a stare alla interpretazione letterale condivisa, risulta assai più ingegnoso che persuasivo: il co. 7 fa riferimento a quanto non espressamente previsto dalle disposizioni della stessa legge, quindi contenute nel nuovo art. 18, non nell’art. 51, co. 2 d.lgs. n. 165/2001; e, comunque, il rinvio mobile di cui a tale ultimo articolo vale solo se ed in quanto le successive “modificazioni ed integrazioni” non abbiano escluso di poter essere applicabili anche ai pubblici dipendenti privatizzati. Se si ritiene che questo sia il senso del co. 7, ne segue che l’art. 1, co. 42, l. n. 92/2012 per cui “a) la rubrica è sostituita …” e “b) i commi dal primo al sesto sono sostituiti …” con riguardo all’art. 18 St. è da intendersi come limitato al lavoro privato: pone un problema non di abrogazione, ma di disapplicazione, per cui il vecchio testo non è soppresso, ma affiancato dal nuovo, che lo limita all’impiego pubblico privatizzato, col solo fatto di espropriarlo del lavoro privato. Per quanto questo possa suscitare un primo moto di istintivo rigetto, per il fatto di far convivere sotto il comune elemento distintivo di art. 18 dello Statuto dei lavoratori, un doppio testo, costituisce un modulo non solo tecnicamente fondato ma anche e soprattutto praticamente utilizzato”.

La teoria del Carinci si basa sul contenuto dell’articolo 1, comma 7 della legge 92/2012 (le legge Fornero) il quale recita che le “disposizioni della presente legge, per quanto da esse non espressamente previsto, costituiscono principi e criteri per la regolazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni …”.

Sicchè, la conclusione che ne trae il Carinci è che la modifica del testo dell’articolo 18 per la PA sarebbe solo un principio e, dunque, il testo, anche se modificato, sopravviverebbe, ma solo per la PA, nella sua formulazione ante riforma Fornero.

Lo sforzo del Carinci per supportare la lettura secondo cui l’articolo 18 riformato non trova spazio nel lavoro pubblico privatizzato è notevole, ma risulta estremamente chiaro quanto la chiave di lettura fornita sia forzata.

L’articolo 18 risulta platealmente riformato nel suo testo e nel suo contenuto e non v’è nella legge 92/2012 alcuna specifica salvaguardia di un testo diverso, né esiste giuridicamente l’idea stessa di un “doppio testo” di un medesimo articolo, per il semplicissimo e fondamentale principio di successione delle norme nel tempo, volto proprio ad evitare privilegi, quali l’applicazione di norme – per loro natura generali – a sole certe categorie e non altre, in base (anche) alla conservazione di vecchi testi più “favorevoli” a certe categorie, rispetto a quelli novellati.

Sta di fatto che la Cassazione non ha neppure preso in considerazione teorie come quelle elaborate dal Carinci e si è semplicemente attenuta ai fatti: l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori è stato riformato; le riforme dello Statuto dei lavoratori si applicano direttamente al lavoro pubblico per espressa volontà dell’articolo 51, comma 2, del d.lgs 165/2001; l’articolo 18 riformato si applica al lavoro pubblico.

Il dibattito, da questo punto di vista, dovrebbe considerarsi chiuso, al netto della consapevolezza che una sola pronuncia della Cassazione non garantisce sicuramente il consolidamento di un indirizzo giurisprudenziale.

Sta di fatto che la chiave di lettura tendente a disapplicare l’articolo 18 nei confronti dei dipendenti pubblici si presta anche al pericolo di un’evidente declaratoria di incostituzionalità, per plateale violazione dell’articolo 3 della Costituzione.

Certo, il vincolo lavorativo che si costituisce per effetto del reclutamento tramite concorso appare più forte.

Potrebbero, allora, esservi elementi per divaricare la disciplina dei licenziamenti del pubblico rispetto a quella del privato? Può darsi. Ma, tale divaricazione non può avvenire solo per via di interpretazioni oggettivamente arzigogolate o mediante dichiarazioni dei Ministri sui giornali. Occorre una disciplina normativa espressa diametralmente contraria a quella oggi contenuta nell’articolo 51, comma 2, del d.lgs 165/2001.

Il tutto, senza dimenticare che, comunque, il licenziamento per ragioni economiche, o meglio finanziarie, anche individuale, nel lavoro pubblico è già previsto. Infatti, l’articolo 33, comma 1, del d.lgs 165/2001 nello stabilire che “Le pubbliche amministrazioni che hanno situazioni di soprannumero o rilevino comunque eccedenze di personale, in relazione alle esigenze funzionali o alla situazione finanziaria, anche in sede di ricognizione annuale prevista dall’articolo 6, comma 1, terzo e quarto periodo, sono tenute ad osservare le procedure previste dal presente articolo dandone immediata comunicazione al Dipartimento della funzione pubblica” regola esattamente la fattispecie del possibile licenziamento dovuto alle esigenze ivi disposte.

Che tutela c’è, allora, per il dipendente pubblico licenziato per ragioni finanziarie, equivalenti a quelle economiche nel privato?

Il reintegro è da escludere, stante l’attuale assetto normativo visto sopra.

Ma il reintegro potrebbe considerarsi ulteriormente ristretto anche a seguito dell’ulteriore modifica indirettamente apportata all’articolo 18 per effetto dell’articolo 1, comma 3, del d.lgs 23/2015: esso stabilisce che nel caso in cui il datore di lavoro, in conseguenza di assunzioni a tempo indeterminato avvenute successivamente alla vigenza del Jobs Act “integri il requisito occupazionale di cui all'articolo 18, ottavo e nono comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, il licenziamento dei lavoratori, anche se assunti precedentemente a tale data, è disciplinato dalle disposizioni del presente decreto”.

Tale decreto, come è noto, di fatto sostituisce quasi del tutto il reintegro con un indennizzo monetario, anche nel caso di illegittimità del licenziamento.

Il reintegro resta solo per il caso del licenziamento discriminatorio, per le ipotesi di nullità espressamente previste dalla legge e per le ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore.

Il nuovo quesito che si pone è: la modifica implicita alle disposizioni dell’articolo 18 (valevole solo per coloro che siano stati assunti successivamente alla vigenza del d.lgs 23/2015) si applica o no alla PA

L’espresso richiamo dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori contenuto nell’articolo 1, comma 3, del d.lgs 23/2015 rende evidente che esso è una modifica ed integrazione implicita dell’articolo 18 stesso. Quindi, secondo l’interpretazione sostanziale, il d.lgs 23/2015 finirebbe comunque per rendersi operante nel lavoro pubblico, anche se, a differenza della riforma-Fornero, il testo dell’articolo 18 non è stato esplicitamente modificato. Ma, è noto che la novellazione di una norma avviene anche per implicito.

Nel caso di specie, la formulazione dell’articolo 18 dello Statuto non è stata toccata dal d.lgs 23/2015, perché tale ultima norma ha inteso creare un duplice regime normativo: quello destinato appunto ai nuovi assunti, per i quali l’articolo 18 non si applica, ma al suo posto si applicano gli articoli del d.lgs 23/2015 che lo sostituiscono; e i lavoratori già assunti alla data di entrata in vigore del d.lgs 23/2015, ai quali si applica l’articolo 18 riformato dalla legge Fornero.

Ora, non si vede perché il d.lgs 23/2015 non debba applicarsi ai neo assunti nella PA. Non si deve dimenticare che l’articolo 2, comma 2, del d.lgs 165/2001 recita: “I rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel presente decreto”. Dunque, al lavoro pubblico, salvo deroghe espresse, si estende non solo lo Statuto dei lavoratori, ma ogni altra norma di disciplina del rapporto di lavoro privato. Il d.lgs 23/2015 è senza ombra di dubbio “legge sul rapporto di lavoro subordinato nell’impresa”; poiché nel d.lgs 165/2001 non esiste alcuna disposizione “diversa” sulla tutela dei licenziamenti, allora non si può non concludere per l’estensione ai dipendenti pubblici neo assunti della disciplina anche del d.lgs 23/2015. Almeno, finchè Governo e Parlamento non agiscano per una regolazione diversa, sempre che sia costituzionalmente sostenibile.

Nel frattempo, resta fermo il problema concreto delle responsabilità in capo ai dirigenti che pronuncino i licenziamenti.

Infatti, per come attualmente configurato l’ordinamento, laddove il giudice condanni l’amministrazione a pagare al lavoratore illegittimamente licenziato l’indennizzo, il dirigente che ha adottato il provvedimento può essere ritenuto responsabile verso l’erario per il danno. Il che costituirebbe un bel deterrente all’adozione dei provvedimenti di licenziamento.

L’estensione delle riforme dell’articolo 18 alla PA non possono essere scollegate (se non si vuole stabilire, al contrario, una disciplina espressa differente) da norme che esentino i dirigenti dalla responsabilità erariale legata al pagamento degli indennizzi ai lavoratori licenziati illegittimamente.

Presso un datore privato non è nemmeno presa in considerazione l’ipotesi di una responsabilità del manager che risponda all’imprenditore dell’eventualità che un lavoratore licenziato ottenga dal giudice la condanna all’indennizzo. Anche perchè l’indennizzo comunque all’azienda costa molto meno del ripristino del rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

Non si vede perché, invece, nell’ambito pubblico l’applicazione ordinaria di norme come quelle che ormai regolano la tutela dei licenziamenti dovrebbe dare vita al cortocircuito della responsabilità erariale per il caso di licenziamento illegittimo, quando, in ogni caso, il costo finanziario per l’ente risulta molto meno oneroso rispetto al reintegro.

In ogni caso, poiché i dirigenti sono obbligati a disporre i licenziamenti nel caso di esigenze finanziarie o, a maggior ragione, quando scattino le ipotesi di licenziamento disciplinare, la soggezione ex lege del dirigente alla responsabilità disciplinare, ma anche a quella contabile che discenderebbe dalla mancata attivazione dei licenziamenti (tanto sorretti da ragioni economiche, quanto disciplinari), il licenziamento disposto da parte dei dirigenti sarebbe da considerare atto necessitato. Dunque, salvo colpa grave o dolo, appare insensata la responsabilità erariale in questo ambito.

Gli interventi normativi urgenti ai quali è chiamato, dunque, il legislatore sono due e alternativi:

  1. una norma espressa che disciplini la tutela dei licenziamenti nel lavoro pubblico in modo derogatorio rispetto alle norme oggi vigenti che si riverberano automaticamente nella disciplina del lavoro pubblico;

  2. oppure, nel caso in cui il Legislatore non si senta di creare una deroga così plateale, intervenire sulla responsabilità dirigenziale.


Di certo, dopo la sentenza della Cassazione l’unico atteggiamento che il Legislatore non può ulteriormente permettersi è quello di tentennare.

 

 

 

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