domenica 6 dicembre 2015

Resti assunzionali del triennio non programmati? Un’assurda querelle

I resti assunzionali del triennio antecedente non possono che riferirsi alle assunzioni programmate a suo tempo e non sono certo utilizzabili per effetto di una ricognizione a posteriori.

La Corte dei conti sul tema dell’utilizzo dei resti assunzionali si è letteralmente incartata a partire dalla deleteria deliberazione 27/2014 della Sezione Autonomie, secondo la quale il cumulo delle risorse destinate alle assunzioni per un arco temporale non superiore a tre anni consentito dall’articolo 3, comma 5, del d.l. 90/2014, convertito in legge 114/2014, doveva considerarsi riferito non al passato, ma alla programmazione futura.

Un ossimoro paradossale evidente: non è, infatti, possibile né in diritto, né in natura, avere dei residui da una programmazione futura, in quanto ciò che residua lo si accerta a consuntivo sul passato.

La magistratura contabile non ha avuto la forza di rivedere una posizione interpretativa sul piano semplicemente logico del tutto insostenibile. Né è stato sufficiente allo scopo il d.l. 78/2015, convertito in legge 125/2015 per far rivedere del tutto l’improvvida lettura normativa. E’ noto che il “decreto enti locali” ha inteso precisare che ai fini della determinazione del budget assunzionale si può fare riferimento ai “residui ancora disponibili delle quote percentuali delle facoltà assunzionali riferite al triennio precedente”.

La disposizione non è stata del tutto sufficiente a far ripensare del tutto il sistema, così come andrebbe interpretato, cioè nel senso che il budget assunzionale è dato dalla percentuale prevista di volta in volta dalla legge sulla spesa relativa alle cessazioni dell’anno precedente, più i residui del triennio precedente.

La Sezione Autonomie, avvitandosi ancora di più, allo scopo di fornire ai comuni soprattutto un “alleggerimento” ai vincoli alle assunzioni assolutamente non conforme alle previsioni dell’articolo 1, comma 424, della legge 190/2014, ha letteralmente creato dal nulla l’autonomia del budget assunzionale del triennio precedente da quella complessiva, innescando un circolo vizioso, che ormai ha preso piede: moltissimi comuni, infatti, adesso giustificano assunzioni ex novo di ogni tipo, per concorso o mobilità, stabilendo nel 2015 che si tratta di residuo del triennio 2011-2013, senza, tuttavia, alcun riscontro sul dato.

La falla aperta dalle interpretazioni “creative” della magistratura contabile ha dato la stura per un’altra surreale controversia interpretativa. Secondo le sezioni regionali di controllo della Lombardia (parere 398/2015) e della Puglia (parere 213/2015) ritengono che allo scopo di utilizzare i residui del triennio precedente non è necessario che a suo tempo fossero state programmate le assunzioni.

Di avviso opposto è la Sezione per la Campania (parere 222/2015), secondo cui la “legge consente di tenere conto degli eventuali maggiori spazi assunzionali (e quindi dei maggiori “resti”) realizzatisi effettivamente rispetto alle previsioni, purché sia stato adempiuto l’onere della programmazione […]. È ragionevole, infatti, che gli enti, nel programmare le assunzioni, tendano a sottostimare le cessazioni e gli spazi di spesa utilizzabili per nuovi reclutamenti. Per contro, non è possibile utilizzare spazi finanziari che in effetti non si sono realizzati, ove le cessazioni risultino inferiori”.

Come si faccia a ritenere che i resti non debbano essere stati oggetto di programmazione è oggettivamente privo di fondamento. La Sezione Campania cita ripetutamente l’articolo 91, comma 1, del d.lgs 267/2000, quale fonte dell’obbligo della programmazione delle assunzioni. Non bastasse, come è noto la programmazione è obbligatoriamente imposta anche dall’articolo 6 del d.lgs 165/2001.

Nessun resto assunzionale può materialmente determinarsi se l’ente non abbia prima programmato le assunzioni, poi le abbia gestite e se la spesa finale per le assunzioni effettuate non risulti inferiore a quella appunto programmata.

Affermare che non occorra la programmazione significa negare l’evidenza delle norme di legge (ben due) che la impongono e privare di fondamento logico lo stesso determinarsi del residuo.

La cosa non è solo disdicevole ai fini della corretta applicazione della sciagurata normativa sulle province, ma anche a regime per una piana e chiara interpretazione delle norme.

 

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