sabato 6 febbraio 2016

Affittopoli di Roma: l’Anci non ha nulla da dire?

Se c’è un soggetto sempre pronto ad elargire dichiarazioni, a prendere posizioni, ad elaborare “schede di lettura”, a rivendicare che “mancano i soldi”, ci sono “troppi tagli”, ma comunque ad esaltare la capacità ed i risultati “dei sindaci”, questo è certamente l’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani (Anci).

Essa è, ormai, presente in ogni dove ed attraverso proprie articolazioni, come la Fondazione Ifel, ha assunto addirittura un potere di soggetto decisore non solo degli strumenti, ma anche delle politiche fiscali.



Più che un’associazione rappresentativa dei comuni, si tratta in maniera conclamata di una vera e propria, imponente, lobby, capace di condizionare moltissimo, dall’interno, la politica. Al punto da riuscire ad esprimere ministri e componenti del Governo e da collocare nelle compagini dirigenziali ministeriali un ben nutrito gruppo di dirigenti provenienti dalle proprie fila o, comunque, di indicare propri consulenti “di area”.

L’Anci si è detta, da sempre, estremamente favorevole alla riforma delle province e all’istituzione delle città metropolitane. Queste ultime, sin qui, hanno avuto una genesi a dir poco travagliata: nemmeno sono venute alla luce e già si trovano attanagliate da deficit gestionali e finanziari devastanti. Eppure, ancora in molti si ostinano a raccontare il flop indiscutibile di queste istituzioni dall’incertissima definizione come un fulcro per il possibile sviluppo delle città e dei territori (ovviamente, senza riuscire a spiegare perchè mai).

Strana, allora, l’improvvisa afasia dell’Anci sulla situazione del comune di Roma e, in particolare, l’ultima delle molteplici questioni che attanagliano la capitale: Affittopoli.

Nessun comunicato, nessuna “scheda di lettura” oppure “nota interpretativa”. E’ fin troppo chiaro che Roma, primo comune d’Italia, sia totalmente ed assolutamente indifendibile, sotto qualsiasi altro punto di vista.

Roma, per l’Anci e per tutti coloro che hanno pensato, attuato e difeso le riforme dell’ordinamento degli enti locali, compresa la devastante riforma Delrio, è certamente una spina nel fianco.

Guardiamo la situazione del comune di Roma. Talmente è stata disastrosa in particolare negli ultimi anni ’90 e nei primi 2000, proprio quelli maggiormente caratterizzate dalle varie riforme ordinamentali e della finanza locale, da aver generato una cifra di debiti semplicemente spaventosa, accumulata prima del 2008: 22,4 miliardi circa, appesantita dall’ulteriore peso di circa 3 miliardi di crediti inesigibili e centinaia di milioni di ulteriori eventuali debiti che potrebbero manifestarsi a causa di un contenzioso semplicemente gigantesco e fuori controllo.

Per non far fallire, come forse sarebbe stato giusto, il comune di Roma è stata creata la “gestione commissariale per il piano di rientro del debito pregresso del comune di Roma”.

E’ qualcosa di simile ad uno strumento del quale si è molto sentito parlare nei media in questi giorni: la “bad bank”. E’, in sostanza, un organo amministrativo straordinario, alle dipendenze funzionali del Governo, ma strutturalmente collegato col comune di Roma, sul quale sono stati scaricati tutti i debiti e gli oneri del comune vero e proprio, in modo da “ripulire” il bilancio comunale, che rimane, così, apparentemente “candido” e libero da pesi. Tocca alla gestione commissariale provare a gestire le centinaia di migliaia di vertenze, a pagare i debiti, a riscuotere le entrate, come una vera e propria gestione fallimentare, senza, però, che il comune sia fallito. A questa operazione di maquillage finanziario, come è noto, si sono accompagnate varie misure di sostegno finanziario al comune di Roma: la possibilità di prevedere aliquote tributarie altissime e periodici contributi di centinaia di milioni che lo Stato assegna alla capitale (a valere sulle tasse di tutti i cittadini italiani, non solo dei romani).

Un disastro, condito, come si è visto, da Mafia capitale e dalla tendenza molto marcata dei vari sindaci di attribuire a destra e a manca incarichi a dirigenti esterni, secondo il molto apprezzato (dalla politica) sistema della cooptazione senza concorso, quello che ha consentito a Luca Odevaine di essere vice capo di gabinetto del sindaco Veltroni, ad esempio.

A questo disastro, si aggiunge ora (ma è evidente che si tratta solo di uno dei tantissimi altri buchi) Affittopoli: la gigantesca gestione clientelare delle migliaia di immobili del comune, affittati a prezzi più che stracciati a partiti, associazioni varie, conventicole e privati di ogni genere, all’evidente scopo di gestire il “consenso”. Operazione, questa, che ha generato una perdita finanziaria di almeno (la stima è molto prudenziale) 100 milioni all’anno.

Dunque, ricapitoliamo. Roma in poco più di 15 anni ha creato oltre 22 miliardi di debiti, inducendo alla creazione di una gestione commissariale che ancora si arrabatta con un deficit di circa 13 miliardi; il comune ha un bilancio, in buona parte “pompato” dalla fiscalità generale e da quella “straordinaria” a capo dei suoi cittadini, di circa 6,5 miliardi; il comune ha dimostrato una permeabilità senza freni alla crmininalità organizzata; genera ogni anno 100 milioni di perdita per l’incapacità di valorizzare in modo degno il proprio immenso patrimonio immobiliare. Una catastrofe amministrativa.

Facciamoci caso: qualcuno, in presenza di simile devastazione, ha mai solo pensato per un momento di abolire il comune di Roma? Si è mai vista una campagna di stampa o un’azione politica rivolta a questo?

No. L’attenzione, come è noto, è rivolta alle province, devastate da una riforma insensata, e ai piccoli comuni, oggetto di pulsioni aggregazioniste, abolizioniste e vittime di normative capestro, sia finanziarie che organizzative.

Insomma, Roma è un ente solo, un unico comune che da solo ha accumulato un debito pari al doppio di quella che era la spesa di 107 enti, le province. Roma, da sola, ha un bilancio, oggi, di circa 6,5 miliardi di euro, quanto, più o meno, oggi possono spendere sempre quei 107 enti, le province, investiti dalla frana della riforma Delrio.

Roma, da sola, genera una perdita di 100 milioni dalla gestione degli affitti: quanti, dei circa 5500 comuni con meno di 5.000 abitanti, bisognerebbe mettere insieme per giungere ad un simile disastroso risultato?

Poniamoci un’altra domanda, limitata al caso di Affittopoli: è realisticamente pensabile che il disastro sia da considerare circoscritto alla sola capitale? Non è più facile presumere che tante altre grandi città, in particolare del meridione, ma non solo, abbiano utilizzato la “leva” degli affitti stracciati, per ottenere consenso? Quale potrebbe essere la perdita complessiva per le finanze pubbliche?

In ultimo: non è evidente che il riordino degli enti locali, della spesa pubblica e dell’ordinamento, per essere efficace e realizzare misure davvero in grado di giungere alla riduzione delle imposte, dovrebbe passare dai grandi enti, quelli che hanno bilanci di svariati miliardi, quelli che, se gestiscono male, creano buchi immensi anche per il resto dell’Italia?

Che senso ha prendere di mira i comuni di piccole dimensioni, che, anche volendo, non riuscirebbero mai a creare un buco da 100 milioni l’anno nella gestione degli affitti? Che senso ha avuto la furia contro le province, che non ha nemmeno portato, per altro, un centesimo di risparmio sulle tasse, dal momento che detti enti svolgevano servizi finanziati in misura strettissima, tale da non poter consentire alcuna revisione della spesa? Che senso ha non coinvolgere le regioni, fonti di spesa spaventosa, nella razionalizzazione.

L’Anci su queste domande non ha da emettere una “nota interpretativa”? O, per avere la coscienza a posto, è sufficiente realizzare un sistema come quello della “armonizzazione contabile”, capace solo di creare problemi e di decuplicare regole ed interpretazioni di finanza?







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