sabato 9 aprile 2016

Def, strafalcioni sulle province. Riforme PA e appalti: apporto zero alla finanza pubblica


Nelle bozze di Def (Documento di economia e finanza) approvato nei giorni scorsi dal Governo c’è un grande assente: una tabella come quella che si riporta, tratta dalla nota di aggiornamento al Def 2015, approvata lo scorso ottobre:



 Il Def 2016 è una lunga elencazione delle riforme fatte e di quelle che si intendono effettuare, con l’indicazione di auspicati benefici sull’economia. Che, oggettivamente, il Def stesso dimostra di considerare non troppo efficaci.
Tra ottobre 2015 e aprile 2016, intanto si è preso atto di un cambiamento di scenario non di poco conto: la previsione di crescita del Pil (prodotto interno lordo) si abbassa dall’1,6% di qualche mese fa all’1,2% indicato dal Def attuale. E, visto che regolarmente le previsioni di crescita sono sempre troppo ottimistiche, anche questa indicazione è da prendere con molta prudenza.
Il fatto è che, al di là delle indicazioni dal tono non poco propagandistico che accompagnano la gran parte delle “riforme” che si attendono da 20 anni, il loro apporto complessivo ad un miglioramento concreto della situazione finanziaria del Paese appare poca cosa.
Il Def 2015, pur astenendosi di presentare un quadro chiaro del conto della PA, contiene la seguente tavola posta ad illustrare gli effetti di lungo periodo delle riforme “copernicane”:


Come si nota, restando a quanto di specifico interesse del mondo della pubblica amministrazione, si immagina nel 2020 (da qui a 5 anni) un effetto di spinta sul Pil dello 0,4%. Poiché ogni punto di Pil corrisponde a circa 16 miliardi di euro, lo 0,4% corrisponderebbe a circa 6,4 miliardi di effetti benefici delle riforme riguardanti la pubblica amministrazione, destinati a raddoppiare nel 2025 e a triplicare in un periodo ancora più lungo.
Non è dato reperire nel Documento il meccanismo concreto attraverso il quale conseguire da qui al 2020 tale miglioramento alla finanza pubblica dovuto alle riforme e, in particolare, ovviamente, a quella connessa alla legge 124/2015. Nel paragrafo “Riforma della Pubblica Amministrazione e modernizzazione del Paese” vi è una descrizione (meglio dire, un’esaltazione) della legge 124/2015, senza alcuna correlazione “causa effetto” tra la riforma-Madia e gli effetti finanziari previsti.
Qualcosa di più si capisce andando a cercare dati e informazioni sull’unica voce della spesa pubblica realmente sotto controllo e in discesa costante, il lavoro pubblico. Si legge nelle bozze di Def 2016: “Nel settore del pubblico impiego è stato rafforzato il blocco del turn-over per il periodo 2016-2018 nella misura del 25 per cento dei risparmi derivanti dalle cessazioni (al netto degli effetti fiscali e contributivi pari a 23 milioni nel 2016, 81 milioni nel 2017 e 164 milioni nel 2018). Sono state, inoltre, limitate e ridotte le risorse per il trattamento economico accessorio degli addetti (36 milioni annui)”.
Il quantitativo di risparmi derivante dal blocco del turn-over fino al 2018 (ma, quanti sono disposti a scommettere che non vada oltre negli anni?) e dalla riduzione per il trattamento accessorio dei dipendenti non è, comunque, rilevantissimo.
Sta di fatto, comunque, che con queste cifre, un fatto risulta evidente: il “rilancio” della contrattazione collettiva dovrà necessariamente fare i conti con risorse scarsissime. I famosi 300 milioni stanziati dalla legge di stabilità per i rinnovi nel settore statale appaiono oggettivamente già un “lusso”. Per altro, i sindacati che spingono per il “rinnovo subito” forse non hanno ben chiaro un elemento decisivo: a fronte dell’irrisorio incremento contrattuale, scatterebbe l’operatività delle famose tre fasce introdotte dal d.lgs 150/2009. Questo significa che ad almeno un quarto dei dipendenti pubblici non sarà riconosciuto più alcun trattamento collegato al risultato. Nel solo caso degli enti locali, i 159 milioni circa destinati al risultato (dati Conto annuale 2014) verrebbero spesi solo per il 75%, con un risparmio ulteriore della spesa pubblica pari a 39,75 milioni circa. Dunque, anche se il Def e, in realtà nessuno, lo dice, dal rinnovo dei contratti deriverebbero cifre di risparmio sulla spesa di personale piuttosto significative.
Sorge, allora, il dubbio che il contributo alla finanza pubblica derivante dalle riforma della PA possano derivare dalla strategia della riduzione delle stazioni appaltanti. Il Def ci informa che “tale approccio consente di effettuare meno gare per le categorie merceologiche, con una maggiore standardizzazione delle procedure di acquisto, e di realizzare minori differenze di prezzo per l’acquisto degli stessi beni e servizi, con conseguenti possibili risparmi, senza compromettere la qualità dei servizi. Alcuni risultati su questo fronte sono già stati conseguiti: la rilevazione effettuata nel 201513 - sugli acquisti realizzati nel 2014 - segnala una complessiva riduzione dei prezzi unitari di acquisto per 20 categorie merceologiche, individuate nel paniere tra quelle più comunemente utilizzate dalle amministrazioni. Inoltre, grazie alla forte interazione tra i vari comparti dello Stato, il MinSalute, l’ANAC e tutti i soggetti territoriali, si sono concentrati gli acquisti di 19 categorie di beni e servizi, soprattutto di carattere sanitario, attraverso 33 centrali di acquisto”.
Non si mette in dubbio che i prezzi unitari di acquisto possano essersi ridotti, grazie alle centrali di committenza. Ma, il Def 2016 non chiarisce quale riduzione complessiva della spesa per appalti vi sarebbe; né modifica o contraddice il dato della nota di aggiornamento 2015 che, come si nota tornando alla prima tabella sopra, cresce tra il 2015 e il 2016 di oltre 2 miliardi ed è prevista in costante crescita ogni anno.
Le riforme della PA intanto entrate in vigore, poi, hanno aiutato l’economia? Per esempio, tutte le “grandi manovre” per sbloccare i debiti, quanto efficaci sono state? La bozza di Def afferma: “Dall'1 luglio 2014 al 31 dicembre 2015 la piattaforma per il monitoraggio dei crediti commerciali verso le pubbliche amministrazioni ha riscontrato che, a fronte di 21,5 milioni di fatture registrate, per 129 miliardi, sono state pagate 8,9 milioni di fatture per 60,5 miliardi, con un tempo medio di 46 giorni, che scende a 44 per gli ‘enti attivi’. Gli enti qualificati come attivi sulla piattaforma (se intervengono su oltre il 75% delle fatture registrate a loro indirizzate) sono 7.400. L’adesione alla piattaforma di monitoraggio da parte di tutte le pubbliche amministrazioni ha l’obiettivo di disporre delle informazioni di pagamento sul 90 per cento delle fatture registrate entro la fine del 2016 e sul 99 per cento delle fatture registrate entro il 30 giugno 2017. Considerando il numero delle amministrazioni coinvolte e dei relativi servizi, il completamento dell’adesione al sistema e alla programmazione delle attività d’implementazione dei servizi – in coerenza con il piano di crescita digitale - dovrà avvenire entro dicembre 2016”.
Insomma, i debiti pregressi non sono stati affatto azzerati, come pure era stato promesso in pompa magna. Al contrario, i debiti sono tornati a crescere e oltre la metà del valore delle fatture aspetta ancora di essere onorata.
Infine, la bozza di Def non poteva sottrarsi dal compiere alcune valutazioni su una delle riforme più note (e dagli effetti devastanti): quella riguardante le province, letta alla luce della prova generale della “mobilità del personale”, futuro punto forte dell’attuazione della legge 124/2015. Queste le considerazioni: “Alcune misure di razionalizzazione, rivolte in particolare al personale della PA, sono state previste nella Legge di Stabilità per il 2016, anche al fine di accelerare il passaggio del personale delle Province abolite. In particolare, per quanto riguarda i processi di mobilità sarà assicurato il pieno funzionamento a regime del Portale della mobilità, che nella prima fase di esercizio si è focalizzato sull’identificazione dei percorsi di ricollocazione del personale delle città metropolitane e degli enti di area vasta (ex Province). Per favorire tali processi sono state approvate le tabelle di equiparazione fra i livelli d’inquadramento previsti dai contratti collettivi relativi ai diversi comparti di contrattazione del personale non dirigenziale, che permetteranno la piena mobilità nella PA. Quanto al personale complessivo, dai 41.205 dipendenti di province e città metropolitane in servizio al primo gennaio 2015, cioè dall’entrata in vigore della normativa sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni, si è passati ai 21.974 post riforma. La riforma ha quindi consentito, tra il 2014 e il 2015, una riduzione stimata della spesa pari a 1,5 miliardi per le province e le città metropolitane”.
Poche volte, in così poche righe, si può assistere ad una serie così fitta di veri e propri strafalcioni.
Il primo riguarda l’abolizione delle province. Che i media generalisti possano incorrere nell’errore, grossolano e imperdonabile, di affermare l’abolizione delle province, è in parte comprensibile, vista la propaganda di anni tendente alla loro abolizione. Peccato, però, che la legge Delrio non le abbia abolite per nulla: appare, allora, grave ed inaccettabile che sia un documento del Governo, promotore della riforma delle province, ad incorrere nell’errore clamoroso di affermare che le province sono state abolite.
Poi, si afferma che si farà in modo – in futuro – di assicurare il pieno funzionamento a regime del portale della mobilità. Un modo originale per dire lo stato delle cose a rovescia: il portale non ha funzionato per nulla e, soprattutto, il sistema che ha consentito alle amministrazioni di dichiarare quali posti fossero disponibili per la mobilità, ha permesso alla gran parte di esse di tenere nascosti i dati. Una quantità enorme di posti disponibili non sono stati caricati nel sistema impunemente, senza che nessuno abbia controllato o sanzionato. Il risultato è che in mezza Italia, nelle province del sud, il numero dei dipendenti provinciali in sovrannumero è risultato superiore al numero dei posti disponibili. E ancora non è emerso l’altro dato devastante: il mismatching tra profili e qualifiche inseriti in piattaforma e quelli posseduti dai lavoratori in mobilità. Se il sistema così mal gestito verrà esteso a tutta la PA in futuro, senza controlli e senza l’obbligo degli enti di conferire tutti i posti vacanti in dotazione organica (come invece era stato più saggiamente disposto dal d.l. 95/2012), saranno in tantissimi i dipendenti pubblici a trovarsi nelle ambasce dei dipendenti provinciali del Mezzogiorno, compresi i tanti che hanno contribuito a tenere nascosti i dati.
Infine, la bozza di Def afferma che la riduzione del numero dei dipendenti delle province (che poche righe sopra si racconta essere state abolite…) ha comportato circa un risparmio di spesa pari a circa 1,5 miliardi, qualificando questo dato come “risultato significativo in termini di contributo al risanamento delle finanze pubbliche”. Insomma, il Def vuol lasciare intendere che la manovra sulle province abbia lasciato conseguire un risparmio per le finanze pubbliche appunto di 1,5 miliardi.
In primo luogo, il dato fornito non è in alcun modo credibile. Il Def afferma che i dipendenti provinciali sono passati da 41.205 a 21.974; dunque hanno interrotto il rapporto di lavoro con le province in 19.231. Ma, se dividiamo l’importo del risparmio enunciato, pari a 1,5 miliardi per il numero di dipendenti che ha lasciato le province, risulta una retribuzione media per ciascuno di questi lavoratori di euro 77.999,06: un dato completamente fuori da ogni parametro, posto che il costo medio del lavoro dei dipendenti provinciali è di circa 29.000 euro l’anno.
Ma, anche fosse corretto – il che non è – il dato, comunque non risulta per nulla vera la suggestione secondo cui la somma di 1,5 miliardi di euro sarebbe un risultato per le finanze pubbliche. Al netto, infatti, di circa 4.000 dipendenti andati in pensione, i restanti circa 16.000 sono stati trasferiti dalle province ad altre amministrazioni. Quindi, le finanze pubbliche non hanno risparmiato affatto 1,5 miliardi; la gran parte di questa somma, stimabile in realtà in non più di 600 milioni, è stata semplicemente spostata dai bilanci delle province a quelli degli enti in cui sono stati trasferiti.

4 commenti:

  1. Un chiaro esempio di fallimento di una riforma (sulle province) che è stata la più sbagliata e incomprensibile della storia repubblicana. Solo caos, disagi e disservizi...zero risparmio effettivo e come dice Oliveri..soldi che si spostano...prima pagava la provincia ora paga la regione...ad esempio. Credo che un governo come il nostro non doveva minimamente intaccare l'apparato dello Stato. Poi se la sono presa con le province come capro espiatorio buttando fumo alla gente. Altra gravità è che non si è tenuto nemmeno conto di migliaia e migliaia di lavoratori e loro famiglie, come del rispetto per lavoratori che hanno dato l'anima e il cuore e che invece si sono trovati alla gogna. E dei servizi ai cittadini? Nella mia provincia dove è andato tutto alla regione...un povero anziano dovrà farsi 300 km per andare al capoluogo di regione per una pratica. Inoltre come mai diverse regioni hanno riallocato tutto alle province mentre altre dormono a sette cuscini? Non c'è omogeneità e si lascia alla discrezione delle regioni..ci troveremo in un marasma amministrativo senza precedenti e privo di senso. Una riforma seria non lascia dubbi e incertezze. Credo che sia proprio un vero e proprio fallimento senza precedenti. Bocciata. Il prossimo governo ripristini le province che sono l'ente più operativo e vicino al territorio e riduca se non abolisca le inutili regioni.

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  2. Gli "strafalcioni" evidenziati nell'articolo sono reali e ormai noti agli addetti ai lavori,ma nascosti accuratamente alla opinione pubblica.
    Aggiungo due considerazioni :risparmi sul personale ,se vi sono ,sono modestissimi e anzi il trasferimento di dipendenti dalle province alle regioni comporta un aumento di spesa (gli stipendi dei dipendenti delle regioni e loro agenzie sono superiori a quelli delle province);il vero risparmio per le casse dello stato è nel trasferimento di quasi tutte le entrate delle province al Ministero delle Finanze provocando per legge dello stato il dissesto delle province (molte sono già in questa condizione e entro il 2017 lo saranno quasi tutte),ma dato che in servizi da erogare rimangono (non è pensabile chiudere strade,ponti e scuole,ecc.)quello che viene definito risparmio nei documenti del Governo è in realtà un enorme futuro" buco" di bilancio.......
    Paolo Valenti

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    1. È da precisare, tuttavia, che il trattamento economico dei dipendenti provinciali trasferiti alle regioni resterà invariato.

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    2. Questo commento è stato eliminato dall'autore.

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