sabato 2 aprile 2016

Precariato: non vi è perdita di chance se si assume con concorsi


Le sentenze della Coerte di Giustizia Europea o della Cassazione in tema di tutela dei lavoratori pubblici assunti a tempo determinato sono costantemente fonti di allarmismo. Non poteva sfuggire a questa consuetudine la sentenza delle Sezioni Riunite 15 marzo 2016, n. 5072.
Tale decisione ha stabilito in modo da ritenere, ormai, definito, due elementi fondamentali nella complessa questione.
In primo luogo, è assolutamente legittimo che l’ordinamento interno non consenta la “tutela reale” consistente nell’assunzione a tempo indeterminato come sanzione per l’illecita apposizione del termine o l’illecita sequenza di contratti. L’articolo 97 della Costituzione, come del resto ha affermato la giurisprudenza della Cge, impedisce la trasformazione sanzionatoria; altrimenti, il principio del concorso risulterebbe violato. In secondo luogo, la Cassazione ha definito in cosa consista la tutela riservata dall’ordinamento ai lavoratori flessibili della PA, che abbiano subito la “precarizzazione”: si tratta del risarcimento del danno previsto dall’articolo 32, comma 5, della legge 183/2010, ai sensi del quale, nel caso di illegittima apposizione del termine al contratto a tempo determinato nel settore privato “il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un'indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604”.
Dunque, non si tratta di risarcire il danno derivante da illegittimo licenziamento, perché – spiega la Cassazione, rivelando un’ovvietà che però alla giurisprudenza di merito non era evidentemente chiara – “il richiamo alla disciplina del licenziamento illegittimo, sia quella dell'art. 8 della legge n. 604/66 che dell'alt 18 della legge n. 300/1970, che altresì, in ipotesi, quella del regime indennitario in caso di contratto di lavoro a tutele crescenti (art. 3 d.lgs. n. 23 del 2015), è incongruo perché per il dipendente pubblico a termine non c'è la perdita di un posto di lavoro. Può invece farsi riferimento all'art. 32, comma 5, cit. che appunto riguarda il risarcimento del danno in caso di illegittima apposizione del termine”.
In terzo luogo, la Cassazione ritiene necessario applicare la normativa citata, la quale esonera il lavoratore dalla prova, sostanzialmente impossibile, di dimostrare il danno conseguente all’abuso nell’utilizzo delle forme flessibili di lavoro da parte della PA.
Da qui, il principio enunciato dalla sentenza: “Nel regime del lavoro pubblico contrattualizzato in caso di abuso del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una pubblica amministrazione il dipendente, che abbia subito la illegittima precarizzazione del rapporto di impiego, ha diritto, fermo restando il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato posto dall'art. 36, comma 5, d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165, al risarcimento del danno previsto dalla medesima disposizione con esonero dall'onere probatorio nella misura e nei limiti di cui all'art. 32, comma 5, legge 4 novembre 2010, n. 183, e quindi nella misura pari ad un'indennità onnicomprensiva tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'art. 8 legge 15 luglio 1966, n. 604”.
E’ certamente un trattamento di tutela molto diverso da quello spettante ai lavoratori del settore privato, che, tuttavia, non vìola le regole dell’ordinamento. Le Sezioni Unite, infatti, spiegano: “In sostanza il lavoratore pubblico - e non già il lavoratore privato - ha diritto a tutto il risarcimento del danno e, per essere agevolato nella prova (perché ciò richiede l'interpretazione comunitariamente orientata), ha intanto diritto, senza necessità di prova alcuna per essere egli, in questa misura, sollevato dall'onere probatorio, all'indennità risarcitoria ex art. 32, comma 5. Ma non gli è precluso di provare che le chances di lavoro che ha perso perché impiegato in reiterati contratti a termine in violazione di legge si traducano in un danno patrimoniale più elevato. Invece il lavoratore privato non ha questa possibilità e questa restrizione è stata ritenuta costituzionalmente non illegittima (Corte cost. n. 303 del 2011, cit.) considerandosi che egli ha comunque diritto alla conversione del rapporto”.
Questo è il quadro normativo fissato in modo finalmente chiaro dal fondamentale arresto giurisprudenziale della Cassazione.
Come rilevato all’inizio, tuttavia, la sentenza è stata in parte travisata, sì da creare clamore e allarmismo, al suono della necessità di risarcire gli 80.000 precari della PA, paventando costi elevatissimi per miliardi, oppure brandendo l’arma della necessità, comunque, di stabilizzare un precariato comunque necessario per il buon andamento degli uffici.
Si tratta di un panico già visto, già diffuso e già conosciuto, che in passato ha, in effetti, prodotto i frutti non del tutto efficienti di stabilizzazioni, delle quali molte amministrazioni – soprattutto le regioni – hanno fatto ampio abuso.
Simile atteggiamento, tuttavia, è frutto di un travisamento evidente delle indicazioni della Cassazione, interpretate e lette come certificazione che ogni rapporto di lavoro contratto tra un dipendente pubblico ed una PA è di per sé illecito e, quindi, deve essere risarcito secondo i canoni spiegati dalle Sezioni Unite.
Le cose, tuttavia, non stanno affatto in questo modo. La sentenza, nel punto 13, ha contestualmente il pregio di spiegare finalmente in cosa consiste il vero e proprio danno subito dal lavoratore, ma anche il difetto di non essersi spinta troppo oltre e di non aver scritto in modo esplicito quando tale danno non si determina; tuttavia, la sentenza stessa fornisce indirettamente le categorie interpretative necessarie per affermare che è il reclutamento mediante concorso ad impedire di per sé che possa esservi “precarizzazione”, anche laddove complessivamente il rapporto di lavoro tra PA e dipendente superi i 36 mesi. Vediamo di comprendere il perché, partendo proprio dalla pregevole analisi della sentenza in commento. La Cassazione afferma che non c'è “un danno da mancata conversione del rapporto e quindi da perdita del posto di lavoro”. Il danno consiste in altro: “Il lavoratore, che abbia reso una prestazione lavorativa a termine in una situazione di ipotizzata illegittimità della clausola di apposizione del termine al contratto di lavoro o, più in generale, di abuso del ricorso a tale fattispecie contrattuale, essenzialmente in ipotesi di proroga, rinnovo o ripetuta reiterazione contra legem, subisce gli effetti pregiudizievoli che, come danno patrimoniale, possono variamente configurarsi.
Si può soprattutto ipotizzare una perdita di chance nel senso che, se la pubblica amministrazione avesse operato legittimamente emanando un bando di concorso per il posto, il lavoratore, che si duole dell'illegittimo ricorso al contratto a termine, avrebbe potuto parteciparvi e risultarne vincitore. Le energie lavorative del dipendente sarebbero state liberate verso altri impieghi possibili ed in ipotesi verso un impiego alternativo a tempo indeterminato. Il lavoratore che subisce l'illegittima apposizione del termine o, più in particolare, l'abuso della successione di contratti a termine rimane confinato in una situazione di precarizzazione e perde la chance di conseguire, con percorso alternativo, l'assunzione mediante concorso nel pubblico impiego o la costituzione di un ordinario rapporto di lavoro privatistico a tempo indeterminato.
L'evenienza ordinaria è la perdita di chance risarcibile come danno patrimoniale nella misura in cui l'illegittimo (soprattutto se prolungato) impiego a termine abbia fatto perdere al lavoratore altre occasioni di lavoro stabile”.
Il danno subito dal lavoratore, dunque, è la perdita di chance. Per comprendere a fondo quanto enunciato dalla Cassazione occorre, però, soffermarsi sull’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, allegato alla direttiva del Consiglio 28 giugno 1999, n. 1999/70/CE (Direttiva del Consiglio relativa all'accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato) e in particolare la sua clausola 5, posta proprio a fissare nell’ordinamento un sistema di prevenzione e sanzione degli abusi nell’impiego di forme di lavoro flessibili.
Come ricordano le Sezioni Unite, “La clausola indica alternativamente le misure idonee a prevenire gli abusi a) prescrizione di ragioni obiettive per il rinnovo; b) durata massima dei contratti a termine; c) numero massimo dei rinnovi”.
Come si nota, la disciplina europea non considera il primo contratto a termine come fonte di illegittimità della costituzione del rapporto di lavoro, a meno che – ovviamente – non si tratti di apposizione illegittima della clausola. Nell’ordinamento privato sostanzialmente questa ipotesi è stata eliminata a regime dal d.lgs 81/2015, che ha trasformato il contratto a termine in contratto acausale: pertanto, il datore di lavoro non deve più esplicitare le ragioni giustificative dell’apposizione del termine. Non così è, invece, nel lavoro pubblico, nel quale, invece, il contratto a termine (ed ogni altra forma flessibile) è rimasto causale e va giustificato dalla necessita di “rispondere ad esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale”, come prevede l’articolo 36, comma 2, del d.lgs 165/2001.
Allora, una prima ipotesi di abuso consiste nel costituire un rapporto di lavoro a termine su fabbisogni continuativi, apponendo il termine pur non essendovi esigenze di carattere né temporaneo, né eccezionale.
In questa evenienza, la perdita di chance del lavoratore è molto evidente. Infatti, è stato indotto a partecipare ad una selezione pubblica per concludere un rapporto di lavoro a termine, quando invece l’esigenza reale dell’amministrazione era continuativa. Sicchè, il lavoratore è stato tratto in inganno ed ha profuso energie e spese, per giungere a stipulare un contratto limitato nel tempo, quando invece avrebbe dovuto essere a tempo indeterminato. Quindi, la chance vera era quella di costituire un rapporto duraturo, ma quella offerta concretamente, abusando della “causa” e simulando situazioni temporanee o eccezionali inesistenti, ha portato ad un contratto a termine, che ha fatto perdere al lavoratore la possibilità di ottenere con quel medesimo datore pubblico un contratto a tempo indeterminato, invece che a tempo determinato. Su questo aspetto, il punto 13 della sentenza in commento appare chiaro ed incontrovertibile.
Ma, la clausola 5 dell’accordo quadro concentra maggiormente la propria attenzione sull’altro mezzo di abuso dei rapporti a termine: la successione illecita di contratti. E’ per questo motivo che suggerisce di introdurre negli ordinamenti misure di prevenzione volte a imporre ragioni obiettive alla base dei rinnovi, oppure a prevedere una durata massima dei contratti a termine o, ancora, un numero massimo dei rinnovi.
Notiamo che l’accordo quadro insiste molto sul tema dei rinnovi. Il perché è molto semplice: l’abuso della successione illecita di contratti si perpetra appunto mediante ripetuti atti di rinnovo del rapporto di lavoro da parte del datore. Dunque, in questa circostanza, riprendendo quanto affermato dalla Cassazione “Il lavoratore che subisce l'illegittima apposizione del termine o, più in particolare, l'abuso della successione di contratti a termine rimane confinato in una situazione di precarizzazione e perde la chance di conseguire, con percorso alternativo, l'assunzione mediante concorso nel pubblico impiego o la costituzione di un ordinario rapporto di lavoro privatistico a tempo indeterminato.
Insomma, la perdita di chance legata alla successone illecita di contratti è diversa da quella connessa all’illecita apposizione del termine. Con la successione di contratti, il lavoratore resta legato, ma in modo instabile, ad un datore di lavoro; la disponibilità, sia pure precaria, del lavoro scaturente dai rinnovi lo rende, sostanzialmente, “prigioniero” del meccanismo, sì da non cercare lavori alternativi, né partecipando a concorsi nel pubblico impiego, né mirando alla costituzione di rapporti di lavoro stabili nel settore privato.
Per la formazione della fattispecie dannosa nei riguardi del lavoratore, allora, è decisiva la volontà unilaterale del datore di lavoro, che intenzionalmente o anche solo colposamente reiteri il rapporto di lavoro, continuando a rinnovarlo all’indirizzo sempre del medesimo lavoratore.
Come rivela con molta chiarezza la clausola 5 dell’accordo quadro, allora è il rinnovo lo strumento fondamentale della successione illecita di contratti. Torniamo di nuovo al punto 13 della sentenza e rileggiamone un altro passaggio decisivo: il lavoratore subisce effetti pregiudizievoli risarcibili nei casi di:
1)      illegittimità della clausola di apposizione del termine al contratto di lavoro
2)      o, più in generale, di
a)       abuso del ricorso a tale fattispecie contrattuale, essenzialmente in ipotesi di
i)         proroga,
ii)      rinnovo
iii)     o ripetuta reiterazione contra legem.
L’ipotesi di cui al punto 1) è la perdita di chance dovuta alla circostanza che la PA abbia “offerto” un lavoro a tempo determinato, in assenza delle esigenze temporanee o eccezionali.
Il punto 2 si riferisce alla catena illecita di contratti, che si crea prevalentemente:
a)      per abuso del potere datoriale di tenere in vita il rapporto di lavoro;
b)      per violazione di legge nella reiterazione.
Partiamo dall’ipotesi dell’abuso del potere datoriale. I precari che possano vantare un diritto al risarcimento del danno secondo i canoni definiti dalle Sezioni Unite possono essere esclusivamente coloro nei confronti dei quali l’amministrazione abbia adottato gli atti unilaterali di proroga e rinnovo, che abbiano condotto a violare il termine massimo di 36 mesi di durata del rapporto di lavoro (ovviamente, al netto di possibili illegittimità nella causa tanto della proroga, quanto del rinnovo).
E’ attraverso queste decisioni datoriali che innesca il circolo vizioso dal quale il lavoratore non è più capace di uscire, sì da perdere le chance di reperire un lavoro stabile altrimenti.
Allora, simmetricamente, quando non si determina la perdita di chance da cui deriva il danno risarcibile? Quando la PA non agisce in modo unilaterale sul rapporto di lavoro prolungandolo o rinnovandolo oltre la durata massima consentita, ma soddisfi fabbisogni realmente temporanei o eccezionali, per quanto reiterati, attraverso la forma di reclutamento imposta dalla Costituzione e, cioè, mediante il concorso pubblico.
Il concorso recide qualsiasi legame diretto tra datore di lavoro pubblico e lavoratore, perché innesca una procedura di reclutamento aperta, alla quale può partecipare chiunque e in esito alla quale non dà corso né ad una proroga di un contratto già in essere (non vi sarebbe alcun concorso, ovviamente, in questo caso), né ad un rinnovo di un contratto scaduto. Il rinnovo, infatti, presuppone una negoziazione diretta tra le parti del precedente contratto, ad esclusione di qualsiasi altro soggetto. Il concorso, invece, apre a chiunque interessato la possibilità di partecipare alla selezione e, quindi, consente appunto un “concorso”, una competizione tra più soggetti. Il rapporto di lavoro che ne consegue non è una novazione del precedente, ma un rapporto totalmente nuovo ed autonomo dal precedente.
Se, allora, il lavoratore assunto in precedenza partecipa al concorso e lo vince, si tratta di rinnovo illecito? Oppure di precarizzazione? Evidentemente no. Sia perché il rapporto di lavoro, sul piano oggettivo, è sganciato dal precedente; sia perché sul piano soggettivo non c’è stato un atto unilaterale datoriale volto a rinnovare il contratto con quello specifico lavoratore, ma l’avvio di un procedimento pubblico di selezione, ad esito evidentemente incerto, che non dà alcuna garanzia al lavoratore del precedente rapporto di essere riassunto.
Si ha, dunque, in un caso simile “perdita di chance”? La risposta è certamente negativa. Poiché non c’è l’atto datoriale unilaterale di abuso nella reiterazione del rapporto oggettivo e soggettivo, al contrario col concorso si offre al lavoratore precedentemente assunto (così come ad ogni altro interessato) addirittura una chance nuova. E’ il lavoratore a decidere se coglierla o meno, presentandosi al concorso.
Questo conferma come il concorso pubblico intervenga sul meccanismo dei 36 mesi e lo rompa.
Indirettamente, la sentenza delle Sezioni Unite conferma ancora una volta la correttezza del parere del Dipartimento della Funzione Pubblica 19.9.2012, n. 37562: “Relativamente al quesito da ultimo citato, occorre precisare che il superamento di un nuovo concorso pubblico a tempo determinato da parte del soggetto che ha già avuto un rapporto di lavoro a termine con l’amministrazione consente di azzerare la durata del contratto precedente ai fini del computo del limite massimo dei 36 mesi previsto dal d.lgs. 368/2001, nonché la non applicabilità degli intervalli temporali in caso di successione di contratti.
Conseguentemente, l’amministrazione può stipulare un contratto di lavoro a tempo determinato con il soggetto utilmente collocato nella graduatoria del concorso anche laddove l’interessato abbia già avuto contratti a termine con la stessa amministrazione, ancorché di durata complessiva corrispondente ai 36 mesi, e pure nel caso in cui tra i successivi contratti non sia ancora trascorso l’intervallo temporale previsto dalla disciplina normativa. Quanto detto, innanzitutto a garanzia degli articoli 51 e 97 della Costituzione, rispettivamente sul libero accesso ai pubblici impieghi e sul principio del concorso. In particolar modo, dall’articolo 51 della Costituzione si desume il divieto di escludere un candidato, in possesso dei requisiti indicati nel bando, dalla partecipazione al concorso; maggiormente infondato sarebbe il diniego dell’assunzione del vincitore utilmente collocato in graduatoria a seguito del superamento del concorso.
Diverso sarebbe il caso in cui l’Ente intendesse stipulare un nuovo contratto a termine con il medesimo lavoratore utilizzando la graduatoria già impiegata per la sottoscrizione del primo contratto. Si tratta, cioè, del caso in cui il successivo contratto a tempo determinato venisse stipulato sulla base della medesima graduatoria di concorso.
In detta ipotesi, mancando il presupposto del superamento di un nuovo concorso, la riassunzione dovrà necessariamente avvenire nel rispetto degli intervalli di tempo a tal fine previsti dal d.lgs. 368/2001, così come modificati dalla legge 92/2012”.
La perdita di chance risarcibile, allora, resta confinata alle ipotesi:
1.      di improprio utilizzo di proroga e rinnovi;
2.      di una serie di concorsi per assunzioni a termine, “contra legem” come ha indicato la Cassazione, perché non giustificati da esigenze temporanee o eccezionali. Si deve, tuttavia, ricordare che le esigenze temporanee possono anche essere ricorrenti, come per il lavoro stagionale o per la necessità di coprire supplenze in corsi di istruzione o formazione.
L’attenta lettura, allora, delle indicazioni della Cassazione esclude radicalmente che essa ponga un problema di risarcimento di tutti gli 80.000 precari pubblici. Caso per caso, occorrerà stabilire come i contratti siano stati stipulati ed il termine apposto e, in particolare, quale sia la fonte dell’eventuale successione dei contratti. Laddove si tratti di concorsi pubblici, la perdita di chance va radicalmente esclusa, come va esclusa, di conseguenza, la conseguenza del risarcimento dei danni.


1 commento:

  1. Una bella e condivisibile analisi, quale conseguenza allora per un amministrazione che assuma per 36 mesi con una selezione a termine e successivamente indica nuova selezione a termine proseguendo a precarizzare?
    Credo personalmente che se in parte la nuova selezione interrompe quella prosecuzione di contratti formalmente, nella sostanza consente il verificarsi di questi abusi di Stato.
    Siamo di fronte all' elusione della Norma, sport in cui le amministrazioni sembrano eccellere.
    Come giustamente lei evidenzia la causa del contratto che giustificherebbe il ricorso al contratto a termine dovrebbe essere giustificata ed ampiamente motivata ma nella realtà si assiste a semplice indicazioni di vaghe esigenze temporanee, organizzative e produttive che svuotano di contenuto lo stesso limite al ricorso di lavoro temporaneo

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