lunedì 2 maggio 2016

Quella soft law “soft” con le lobby, hard con la PA


La prima applicazione dell’esperimento della soft law, cioè il comunicato congiunto di Anac e Ministero delle infrastrutture, sull’entrata in vigore del d.lgs 50/2016 e le sue conseguenze riguardo ai bandi pubblicati il 19 aprile non è andata benissimo. Infatti, pare che Anac e Ministero faranno marcia indietro e considereranno validi quei bandi.

La soft law, essendo un processo molto spiccio, quasi on demand, avrà sempre la caratteristica dell’instabilità e della rivedibilità a richiesta, specie sulla base del potere “contrattuale” dei soggetti cui è rivolto.
Ne è prova la consultazione aperta in questi giorni dall’Anac sulle prime linee guida che progressivamente sostituiranno la regolamentazione del dpr 207/2010. Lo capisce chiunque che in un processo di consultazione su internet, la voce di un singolo cittadino che proponga una correzione, un’indicazione, una scelta diversa da quanto emerge nei testi delle linee guida, non potrà avere né voce ne chance alcuna, anche se dette proposte si rivelino sagge, corrette ed utili. Le consultazioni si rivolgono apertamente ai “portatori di interesse” (traduzione dell’orribile parola inglese stakeholders). Ma, il confine tra un portatore di interesse generale e, quindi, teso alla difesa dell’interesse pubblico, ed, invece, un portatore di interesse “particolare”, dunque egoistico e non necessariamente coincidente con quello pubblico, è ovviamente labile. E’ chiaro, tuttavia, che saranno proprio i portatori di interessi particolari, quelli per i quali è più evidente il rischio di un conflitto con l’interesse generale, a far sentire con maggiore forza la propria voce nelle consultazioni preliminari alla formazione della soft law. Un’indicazione di un’organizzazione di imprenditori, oppure di un gruppo industriale molto ampio, o di pochi ma fortissimi imprenditori di uno specifico settore (energia, acqua, altri servizi), o, ancora, le richieste di ordini professionali e, comunque, di soggetti organizzati e di fortissima presa elettorale e di consenso, avrà certamente un peso enormemente maggiore rispetto a qualsiasi altra proposta modificativa di semplici cittadini.
La soft law si espone esattamente al problema della rinuncia alla rappresentatività politica denunciato da Barbara Spinelli su Il Fatto Quotidiano di mercoledì 27 aprile, nell’articolo “I veri giustizialisti sono i nostri politici”, ove si legge: “ L'obiettivo che si persegue, in questi Stati e nelle stesse istituzioni europee, è di accentrare i poteri nell'esecutivo e di declassare ogni potere suscettibile di frenare l'estensione dell'autorità centrale. Di qui il depotenziamento più o meno subdolo dei poteri giudiziari, di quelli parlamentari, e al tempo stesso di una serie di organi intermedi: sindacati, partiti, organizzazioni imprenditoriali e professionali, enti locali sovracomunali come le province. Giuseppe de Rita ha descritto molto bene quel che si vuole ottenere attraverso simili esautoramenti con leggi e riforme costituzionali: "I politici, che hanno voluto la disintermediazione, si trovano circondati, premuti, circuiti, qualche volta addirittura ricattati, da gruppetti (da 'quartierini') di un avventuroso lobbismo" (Corriere della Sera, 14.4.16) ”.
La rinuncia all’intermediazione istituzionale, che dovrebbe avvenire nelle sedi istituzionali, legittimate dal popolo sovrano con l’elezione dei candidati suggeriti dai partiti, implica esattamente queste conseguenze: una parte significativa di una legislazione estremamente incidente sull’economia e sulla vita delle imprese e della Nazione stessa (i lavori pubblici, i servizi sono fondamentali per la crescita e lo sviluppo) non sarà redatta alla luce di cognizioni tecniche e mediazioni tra i rappresentanti del popolo nelle sedi istituzionali, cioè Governo e Parlamento, bensì saranno “esternalizzate” ad un’Autorità. Nessun componente di essa risulta essere espressione diretta del popolo sovrano. Per quanto, per altro, possa proclamarsi indipendente dal Governo, lavora a stretto contatto di gomito, ma non ha alcuna relazione col Parlamento. E, come si vede, apre l’intermediazione non ai corpi intermedi istituzionali (enti locali, usl, elementi della PA), ma ai “portatori di interesse”, in una logica che passa dall’intermediazione delle esigenze filtrata dai partiti allo scopo di creare un indirizzo politico che guardi all’interesse collettivo, ad una contrattazione specifica con i potentati.
Il rischio che sta dietro a questo sistema è evidente. Potrebbe anche darsi che il valore estremo delle persone poste a guidare l’Anac lo scongiuri. Tuttavia, come visto, il primo approccio di soft law non è stato un gran che e, comunque, non è detto che sempre l’Autorità potrà disporre delle elevatissime competenze e figure morali che oggi, fortunatamente, la compongono.
Detto in parole più semplici, la soft law rischia di essere soft coi forti e hard o strong coi deboli. Se questo è un rischio insito, del resto, specificamente nei poteri legislativo ed esecutivo, tanto a maggior ragione lo è nei riguardi di un soggetto non sorretto dal consenso del popolo sovrano ed esposto alle pressioni dei “portatori di interesse”.
L’impressione che molti rischi si annidino nell’impostazione della riforma derivante dal d.lgs 50/2016 appare confermata dall’articolo 211, comma 2, nel quale improvvisamente appunto la law da soft si tramuta in strong, heavy e hard, quando oggetto della regolazione sono la PA, ma soprattutto i dipendenti pubblici.
Ecco quanto dispone l’articolo 211, comma 2: “ Qualora l’Autorità, nell’esercizio delle proprie funzioni, accerti violazioni che determinerebbero l’annullabilità d’ufficio di uno dei provvedimenti ricompresi nella procedura ai sensi degli articoli 21-opties e 21-nonies della legge 7 agosto 1990, n. 241, invita mediante atto di raccomandazione la stazione appaltante ad agire in autotutela e a rimuovere altresì gli eventuali effetti degli atti illegittimi, entro un termine non superiore a sessanta giorni. La raccomandazione ha effetto sospensivo sul procedimento di gara in corso per il medesimo termine di sessanta giorni, qualora dal provvedimento possa derivare danno grave. Il mancato adeguamento della stazione appaltante alla raccomandazione vincolante dell’Autorità entro il termine fissato è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria entro il limite minimo di euro 250,00 e il limite massimo di euro 25.000,00, posta a carico del dirigente responsabile. La sanzione incide altresì sul sistema reputazionale delle stazioni appaltanti, di cui all’articolo 36 del presente decreto ”.
Non è chi non veda i tanti, troppi, problemi di coerenza sistematica con l’ordinamento giuridico posti da simile norma, problemi che possono giungere perfino alla sua incostituzionalità.
Come primo elemento critico, non si può fare a meno di osservare che il legislatore abbia creato un ossimoro, una paradossale contraddizione in termini, laddove prevede che l’Anac “invita” le amministrazioni appaltanti ad agire in autotutela, ma questo “invito” è vincolante e perfino corroborato da una sanzione amministrativa che può rivelarsi pesantissima.
In effetti, il legislatore ha coniato l’istituto invero nuovissimo della “raccomandazione vincolante”. Che, tuttavia, analizzandolo nel suo complesso, appare un non senso ed una violazione a tutti i canoni fin qui conosciuti del procedimento, meglio dire anche del giusto procedimento amministrativo.
Guardiamo al presupposto dell’esercizio del potere di emanare la “raccomandazione vincolante”: l’accertamento di violazioni che “determinerebbero” l’annullabilità d’ufficio. Fermiamoci qui, intanto. Come si nota, la legge dispone che l’Anac possa esercitare ex post, su un provvedimento già adottato e nel corso di un procedimento di appalto già avviato, un potere qualificato come “raccomandazione vincolante”, ma che di fatto appare un vero e proprio atto di secondo grado, adottato come fosse in posizione gerarchica sovraordinata. Poiché, tuttavia, l’Anac non è sovraordinata gerarchicamente ad alcun’altra amministrazione, l’espediente è imporre all’amministrazione destinataria e, in particolare, al dirigente di questa, di agire in autotutela.
La fattispecie è ai limiti della logica e della sostenibilità giuridica. E’ largamente opportuno che l’Anac possa svolgere nei confronti delle procedure d’appalto una funzione molto profonda di verifica e controllo. Fatti di cronaca ben noti, come Expo, Mose e Mafia capitale, dimostrano quanto sia necessaria un’attività di controllo sugli appalti.
Ma, i controlli, per avere un senso, debbono essere preventivi, non successivi, specie se, come nel caso dell’articolo 211, comma 2, si tratti, nella sostanza, di controlli di legittimità. Infatti, oggetto del controllo è “ uno dei provvedimenti ricompresi nella procedura ai sensi degli articoli 21-opties e 21-nonies della legge 7 agosto 1990, n. 241”. Per “provvedimenti ricompresi nella procedura” si debbono intendere evidentemente i provvedimenti riguardanti la gara: si tratterà, nella gran parte dei casi, di provvedimento a contrattare, bando o avviso o lettera di invito, disciplinare di gara, ammissioni ed esclusioni. Che si tratti di un vero e proprio controllo di legittimità è dimostrato dai richiami agli articoli 21-opties e 21-nonies della legge sul procedimento amministrativo: il primo, infatti, al comma 1 regola l’annullabilità d’ufficio del provvedimento adottato in violazione di legge o viziato da eccesso di potere o da incompetenza; il secondo regola i termini entro i quali possono essere emanati gli atti di annullamento d’ufficio.
L’obiettivo, dunque, dell’articolo 211, comma 2, del d.lgs 50/2016 è rimuovere dall’ordinamento giuridico un provvedimento affetto dai tre classici vizi di legittimità: violazione di legge, eccesso di potere e incompetenza.
Ma, sempre l’articolo 211, comma 2, rimette all’Anac l’esercizio di un vero e proprio potere di controllo molto strano, perché:
1) non appare un controllo diffuso, ma casuale: non si indicano né casi, né indici, né percentuali di procedimenti sui quali procedere; probabilmente l’Anac si darà una sua regolamentazione per attuare questa norma, ma tutto appare lasciato al caso, senza una sistematicità;
2) si basa su una formula perplessa: non la certezza della sussistenza del vizio di legittimità, bensì la mera potenziale sussistenza di tale vizio; infatti la norma parla di violazioni che “determinerebbero”, cioè, detto in altri termini, potrebbero determinare l’annullamento d’ufficio;
3) l’organo di controllo non adotta il provvedimento di controllo, che consisterebbe, come in tutti i procedimenti di controllo, nel visto negativo o nel diretto annullamento del provvedimento; invece, “invita” con una “raccomandazione” che però è “vincolante” l’amministrazione ad adottare il provvedimento di autotutela;
4) sanziona il dirigente che non accetti la raccomandazione vincolante.
Torniamo al punto 2): l’Anac in sostanza pare legittimata a muoversi nel pretendere (parlare di raccomandazione vincolante è ovviamente solo eufemistico) l’annullamento d’ufficio sulla base di un procedimento sommario inaudita altera parte, fondato su un semplice fumus di illegittimità. Non si prevede alcun contraddittorio con l’amministrazione interessata, utile per comporre la questione, fase, questa, generalmente ammessa, invece, in qualsiasi procedimento di controllo.
Sicchè, l’unico sistema che ha a disposizione l’amministrazione per esporre osservazioni e controdeduzioni nei riguardi della pretesa di annullamento dell’Anac è addossare al dirigente competente la spesa connessa al pagamento della sanzione, che appare automaticamente riconnesso alla mancata attuazione della “raccomandazione vincolante” e presentare ricorso al Tar contro il provvedimento dell’Anac. Con le spese connesse.
Ma, chi ha interesse a presentare il ricorso? L’amministrazione, oppure il dirigente responsabile? E’ chiaro che quest’ultimo agisce quale organo dell’ente, sicchè l’interesse a ricorrere dovrebbe essere dell’ente, per avere conferma della legittimità del proprio operato. Tuttavia, l’applicazione della sanzione personalmente al dirigente fa scaturire un conflitto di interessi tra questo e l’ente, che potrebbe non ritenere di addossarsi una spesa per il ricorso al Tar, che potrebbe essere vista non come funzionale alla tutela della legittimità dell’operato dell’ente stesso, bensì come una sorta di copertura alla responsabilità individuale del dirigente non ottemperante all’imposizione dell’Anac di annullare i provvedimenti segnalati. Ma, allora, il dirigente lasciato solo nella propria responsabilità operativa, avrebbe titolo a presentare come persona fisica ricorso al Tar contro la “raccomandazione vincolante” dell’Anac? Forse, potrebbe solo a patto di dimostrare un interesse dell’ente presso il quale opera a rimuovere dall’ordinamento la “raccomandazione vincolante”. Ma, se la procedura di gara va avanti e l’ente ottiene il fine di affidare l’appalto, che interesse generale vi sarebbe alla rimozione della raccomandazione vincolante inadempiuta, se non quello della conservazione del rating reputazionale dell’amministrazione?
In realtà, il singolo dirigente ha di certo un interesse personale all’annullamento della sanzione amministrativa subìta, presentando a questo punto ricorso al giudice di pace.
Contestualmente, però, qualche operatore economico che potenzialmente intraveda qualche beneficio dall’annullamento d’ufficio del provvedimento imposto dall’Anac potrebbe a sua volta presentare un ricorso al Tar contro l’ente, fondandolo sulle ragioni che hanno indotto l’Anac ad emanare la propria “raccomandazione vincolante” non adempiuta. L’ente appaltante, pertanto, potrebbe comunque trovarsi trascinato in una vertenza davanti al Tar ed essere costretto a scegliere se condividere col proprio dirigente l’interesse a ricorrere, oppure no: ma, in questo caso, se, cioè, l’ente ritenesse addirittura di non costituirsi in giudizio considerando fondato il ricorso basato sulla raccomandazione vincolante dell’Anac, dovrebbe agire nei confronti del proprio dirigente, avviando i procedimenti disciplinari e civili necessari, segnalando alla Corte dei conti possibili danni, per primo quello di immagine. Laddove l’ente decidesse, comunque, di opporsi al ricorso al Tar presentato dall’operatore economico e quest’ultimo trovasse ragione, l’ente dovrebbe agire contro il proprio dirigente per il danno erariale derivante dalle spese di giudizio e le altre incontrate, per essere stato erroneamente indotto a difendere provvedimenti illegittimi.
Ma, per converso, qualsiasi operatore economico potrebbe agire in giudizio contro il provvedimento adottato in autotutela dalla stazione appaltante, per adempiere all’imposizione (velata da “raccomandazione”) dell’Anac, ritenendo lesa la propria posizione giuridica.
Si tratta solo di ipotesi. Ma, quando una norma si presta ad aprire scenari come quelli descritti sopra, soprattutto se essi scenari implichino un’esplosione incontrollata del contenzioso a vari livelli, allora c’è necessariamente da concludere che detta norma porta con sé molti, troppi problemi di connessione con l’ordinamento.
Essa, oltre tutto, sembra anche creare una sorta di responsabilità oggettiva del dirigente per mancato adempimento alla “raccomandazione vincolante”, dalla quale discende in via automatica l’applicazione della sanzione amministrativa.
In più, la previsione, caratterizzata dall’espediente di imporre all’amministrazione di procedere essa all’annullamento d’ufficio, facendo sì che detto provvedimento non sia adottato dall’Anac, solo sul piano della forma non si pone in contrasto. E’ noto che l’ultima riforma apportata all’articolo 21-nonies, della legge 241/1990 da parte della legge 124/2015 ha espunto la precisazione che l’annullamento d’ufficio può essere pronunciato solo dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge.
Tuttavia, la giurisprudenza unanime ha sempre distino l’annullamento d’ufficio in tre fattispecie:
a) l’autoannullamento, che era l’ipotesi generale prevista dalla legge 241/1990;
b) l’annullamento gerarchico, attivabile quando il provvedimento sia emanato da un organo gerarchicamente subordinato ad un altro organo ed il provvedimento stesso non sia qualificabile come definitivo (ma, nel rapporto gerarchico, nella realtà ad agire è pur sempre uno stesso ufficio, sia pur organizzato gerarchicamente, nell’esercizio di un potere univoco);
c) l’annullamento disposto da organo diverso da quello emanante, sulla base di un potere specificamente assegnato da una legge.
Nel caso dell’articolo 211, comma 2, del d.lgs 50/2016 si è pur sempre in presenza della fattispecie formale dell’autoannullamento: infatti, non è l’Anac ad annullare, ma ad imporre all’amministrazione di annullare, la quale procederà necessariamente attraverso autoannullamento appunto del dirigente responsabile, visto che gli atti della procedura di gara sono di natura gestionale e sono da qualificare come definitivi. Tuttavia, nella sostanza, dato che la raccomandazione dell’Anac è “vincolante” ed il suo inadempimento è sanzionato, di fatto è l’Anac a sostituirsi all’amministrazione appaltante nella valutazione della sussistenza dei vizi di legittimità che affliggono il provvedimento, imponendone l’annullamento. L’ente, quando annulla, finisce solo per eseguire una decisione adottata dall’Anac. Un vulnus al sistema di organizzazione dei poteri e delle competenze che giunge fino al porsi in contrasto con l’articolo 98 della Costituzione.
Per altro, visto che la “raccomandazione vincolante” può imporre all’amministrazione appaltante di “ rimuovere altresì gli eventuali effetti degli atti illegittimi”, essa pare poter essere emanata anche successivamente alla conclusione della gara ed alla stipulazione del contratto, fase che, però, secondo quanto prevede lo stesso d.lgs 50/2016 a quel punto inibisce l’esercizio del potere di autotutela.
La realtà è evidente a tutti: il vulnus al sistema delle autonomie, la violazione dei principi di organizzazione degli organi, l’assenza di una fase di contraddittorio tra Anac ed amministrazione, le contraddizioni con le disposizioni della legge 241/1990 e addirittura col codice dei contratti stesso in tema di termini per l’esercizio dell’autotutela, la potenziale esplosione del contenzioso, la configurazione di una responsabilità amministrativa sostanzialmente oggettiva in capo ai dirigenti, sono tracce conclusive della necessità di eliminare in fretta dall’ordinamento giuridico l’articolo 211, comma 2, del d.lgs 50/2016.
I fini della norma appaiono corretti e condivisibili, come chi scrive sostiene da tempo: cioè predisporre strumenti di controllo sull’attività degli appalti, necessari per garantire legittimità e, prima ancora, legalità.
Ma, allora, se di controlli si ha necessità, che la legge disciplini la fattispecie come controlli esterni di legittimità, ma preventivi, prima che gli atti producano effetti, dotando l’Anac del potere di annullamento diretto dopo un’eventuale fase di contraddittorio, in modo che il contenzioso si sposti eventualmente sull’atto di controllo. La sua configurazione preventiva avrebbe il pregio di impedire da subito un vulnus alla legittimità dell’azione amministrativa e di non intervenire dopo, coi rischi di contenzioso enormi visti prima.
Si dirà che l’Anac non è strutturata per poter svolgere controlli diffusi e preventivi. Ma vi è la possibilità di creare strutture territoriali, che possano rispondere funzionalmente all’Anac, incaricate di controlli preventivi e diffusi, sul modello degli aboliti Co.Re.Co.
Sta di fatto che l’articolo 211, comma 2, risponde positivamente all’esigenza di controlli esterni sull’operato delle amministrazioni, ma sbaglia il metodo. Occorre una tutto sommato non grande correzione del tiro, per rimediare ai tanti problemi che l’attuale norma propone e trasformarla in una previsione utile, che non sia solo una norma “manifesto” della heavy law esclusivamente nei confronti della PA.

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