venerdì 29 luglio 2016

Province: il fantastico mondo irreale della Consulta

La sentenza 205/2016 è il benvenuto che dà la Corte costituzionale nella riforma delle province che non c’è. Quella che dovrebbe ripartire funzioni, dotazioni organiche e risorse finanziari delle province tra i vari enti subentranti, ma che non ha svolto questo compito, perché impedita a ciò dall’assurda legge 190/2014.
Benvenuti, dunque, nel mondo irreale che la Consulta costruisce, pur di non vedere le macroscopiche illegittimità costituzionali dell’articolo 1, comma 418 e seguenti, della legge 190/2014 e fare salva una delle peggiori riforme mai prodotte dall’ordinamento, preludio in piccolo dell’ancor peggiore riforma della Costituzione prossima ventura.

Vale, dunque, la pena di commentare i passaggi fondamentali di una decisione oggettivamente stupefacente per il modo con cui ricostruisce la vicenda e soprattutto la conclusione non tanto giuridica, quanto operativa, tratta, del tutto contraria (purtroppo) alla realtà dei fatti.
In un primo decisivo passaggio, la sentenza ricostruisce in sintesi la riforma operata dal Parlamento, su input del Governo, motivando il rigetto dell’istanza proposta dalla regione Veneto di dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’articolo 1, comma 418, della legge 190/2014, la norma che ha strozzato finanziariamente le province, imponendo loro un prelievo forzoso dai bilanci di 1 miliardo nel 2015, 2 miliardi nel 2016 e 3 miliardi (a regime), nel 2017: “La riduzione della spesa corrente disposta dal comma 418 si inserisce, come già sottolineato, nel complesso disegno di riforma delle province e delle città metropolitane, avviato con la citata legge n. 56 del 2014, «in attesa della riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione e delle relative norme di attuazione» (comma 51). Al contempo essa è diretta a perseguire il più generale obiettivo di miglioramento dell’efficienza della spesa pubblica, come risulta confermato dall’ultimo periodo del comma 418, ove è previsto che l’ammontare della riduzione per ciascun ente è determinato «tenendo conto anche della differenza tra spesa storica e fabbisogni standard» . La legge n. 56 del 2014 ha inciso sull’assetto delle province e delle città metropolitane sotto il profilo organizzativo e sotto quello funzionale: con riferimento in particolare alle prime, riformandone gli organi politici e prevedendo la gratuità dei relativi incarichi (comma 84); individuando le loro funzioni fondamentali (comma 85) e stabilendo che le altre funzioni debbano essere riallocate dallo Stato e dalle regioni in base all’art. 118 Cost. (comma 89), con conseguente passaggio delle risorse finanziarie e umane connesse alle funzioni trasferite (commi 92, 96, lettera a, e 97, lettera b). Entrambe le innovazioni sono destinate, fra l’altro, a produrre una rilevante diminuzione della spesa provinciale”.
Abbiamo enfatizzato in grassetto le affermazioni fondamentali di questo stralcio della sentenza, che già di per sé rivelano il clamoroso errore di prospettiva commesso dalla Consulta.
La legge 190/2014 si inserisce, è vero, nel processo di riforma delle province, ma non ha affatto la funzione di collegarsi e coordinarsi con le previsioni della legge 56/2014. Esattamente al contrario, la legge 190/2014 blocca il percorso avviato dalla legge Delrio, impedendo proprio il “conseguente passaggio delle risorse finanziarie e umane connesse alle funzioni trasferite”, di cui parla la Consulta.
E’ inspiegabilmente sfuggito ai giudici della Corte che la legge 190/2014, imponendo l’insostenibile prelievo forzoso di risorse alle province, non ha consentito di costituire appunto quell’insieme di risorse (specie di carattere finanziario), che sarebbero state necessarie per traslare dalle province agli enti destinatari l’esercizio delle funzioni non fondamentali.
Tanto è vero che il fallimentare processo di trasferimento dei dipendenti provinciali in soprannumero attivato proprio dalla legge 190/2014 (non dalla legge 56/2014) è andato in totale rotta di collisione con l’iniziale previsione. L’articolo 1, commi 92 e 96, della legge 56/2014 avevano previsto un trasferimento di “blocchi” di funzioni e competenze comprensivi di patrimonio, personale e risorse finanziarie dall’ente provincia all’ente destinatario, in modo da conservare intatta la dotazione necessaria per gestirle. L’esproprio dei 3 miliardi a regime dalla capacità di spesa delle province, invece, ha prodotto un incontrollato esodo del personale. I circa 20.000 dipendenti provinciali dichiarati in soprannumero non sono transitati dalle province ad altri enti restando, tuttavia, a svolgere le funzioni provinciali traslate ad altri enti, ma assolutamente alla rinfusa: alcuni verso i tribunali, la gran parte verso i comuni, ma in modo del tutto isolato e disconnesso dall’esercizio delle funzioni provinciali. Infatti, nella gran parte dei casi i comuni non sono subentrati alle province nell’esercizio delle funzioni non fondamentali. Sicchè si è determinata una scissione assoluta tra risorse umane e finanziarie, ed esercizio delle risorse, che solo la Consulta non ha visto. Infatti, la sentenza prosegue affermando che “La legge n. 56 del 2014 ha previsto una “regìa” unitaria di tale complessa operazione di riallocazione delle funzioni, sia dettandone direttamente un’analitica disciplina (si veda, ad esempio, il comma 96), sia prevedendo successivi atti statali diretti a stabilire i criteri di individuazione delle risorse da trasferire (comma 92) e ad adeguare la legislazione sulla finanza degli enti territoriali, nel rispetto del criterio secondo il quale «le risorse finanziarie, già spettanti alle province ai sensi dell’articolo 119 della Costituzione, dedotte quelle necessarie alle funzioni fondamentali e fatto salvo quanto previsto dai commi da 5 a 11, sono attribuite ai soggetti che subentrano nelle funzioni trasferite, in relazione ai rapporti attivi e passivi oggetto della successione, compresi i rapporti di lavoro e le altre spese di gestione» (comma 97, lettera b)”. Ma, nulla di tutto questo è realmente avvenuto.
La cosa singolare, tuttavia, è che la Consulta da un lato mostra di non aver percepito la rottura fortissima imposta dalla legge 190/2014 all’iter della riforma immaginato dalla legge Delrio, ma, dall’altro, apertamente coglie l’aspetto deteriore di detta legge, quello che, appunto, ha determinato la svolta che ha inceppato il meccanismo. Infatti, la sentenza continua affermando he “procedendo a rilento l’attuazione di tale disegno riformatore, il legislatore ha impresso ad essa una «spinta acceleratoria» (sentenza n. 159 del 2016), tramite l’art. 1, comma 421, della legge n. 190 del 2014, in base al quale «[l]a dotazione organica delle città metropolitane e delle province delle regioni a statuto ordinario è stabilita, a decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge, in misura pari alla spesa del personale di ruolo alla data di entrata in vigore della legge 7 aprile 2014, n. 56, ridotta rispettivamente, tenuto conto delle funzioni attribuite ai predetti enti dalla medesima legge 7 aprile 2014, n. 56, in misura pari al 30 e al 50 per cento […]». Con la citata sentenza n. 159 del 2016 questa Corte ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale proposte da diverse regioni su questa disposizione”.
La Consulta, dunque, sa bene che la legge 190/2014 non ha avuto per nulla l’intento di attuare le previsioni della legge Delrio, ma di imporre in modo improprio una “accelerazione” alla riforma, sia strozzando le province col prelievo forzoso ricordato prima, sia attraverso l’ulteriore imposizione “in vitro” della riduzione forzata delle dotazioni organiche, completamente sconnessa dal passaggio delle funzioni dalle province ad altri enti. Passaggio che, infatti, si è verificato moltissimi mesi dopo l’entrata in vigore della legge 190/2014 e per effetto del d.l. 78/2015, convertito in legge 125/2015, che ha avuto lo scopo di accollare alle regioni i costi della riforma. Infatti, con la legge di conversione lo Stato ha indotto le regioni a riordinare le funzioni non fondamentali delle province, sotto la minaccia che se non avessero provveduto le regioni stesse entro il mese di ottobre, vi avrebbe provveduto lo Stato, accollando alle regioni tutte le relative spese.
Sotto questa spada di Damocle molte regioni si sono finalmente degnate di approvare le leggi regionali di riordino, dovendo, però, reperire da se stesse le risorse mancanti alla gestione delle funzioni: il prelievo forzoso imposto dall’articolo 1, comma 418, della legge 190/2014 ha, infatti, comportato un “buco” da 3 miliardi a regime, che le regioni hanno dovuto coprire. Il fatto è che, concretamente, poi, ciascuna regione ha reperito le risorse in base alle proprie disponibilità di bilancio e alla propria volontà politica e non in base al computo della spesa delle funzioni. Col risultato che in molte regioni i finanziamenti per l’esercizio delle funzioni non fondamentali delle province risulta largamente sottodimensionato.
Ma, anche questi aspetti di fatto sono totalmente sfuggiti alla Consulta, che, infatti, poco oltre si produce nella statuizione più infondata e sorprendente della sentenza: “più precisamente, dunque, disponendo il comma 418 che le risorse affluiscano «ad apposito capitolo di entrata del bilancio dello Stato», si deve ritenere – e in questi termini la disposizione va correttamente interpretata – che tale allocazione sia destinata, per quel che riguarda le risorse degli enti di area vasta connesse al riordino delle funzioni non fondamentali, a una successiva riassegnazione agli enti subentranti nell’esercizio delle stesse funzioni non fondamentali (art. 1, comma 97, lettera b, della legge n. 56 del 2014). La previsione del versamento al bilancio statale di risorse frutto della riduzione della spesa da parte degli enti di area vasta va dunque inquadrata nel percorso della complessiva riforma in itinere. E, così intesa, essa si risolve in uno specifico passaggio della vicenda straordinaria di trasferimento delle risorse da detti enti ai nuovi soggetti ad essi subentranti nelle funzioni riallocate, vicenda la cui gestione deve necessariamente essere affidata allo Stato (sentenze n. 159 del 2016 e n. 50 del 2015). I commi 418, 419 e 451, dunque, non violano l’art. 119, primo, secondo e terzo comma, Cost. nei termini lamentati dalla ricorrente, perché le disposizioni in essi contenute vanno intese nel senso che il versamento delle risorse ad apposito capitolo del bilancio statale (così come l’eventuale recupero delle somme a valere sui tributi di cui al comma 419) è specificamente destinato al finanziamento delle funzioni provinciali non fondamentali e che tale misura si inserisce sistematicamente nel contesto del processo di riordino di tali funzioni e del passaggio delle relative risorse agli enti subentranti”.
Abbiamo letto bene: secondo la Consulta l’articolo 1, comma 418, della legge 190/2014 non è una norma incostituzionale perché il prelievo forzoso da esso imposto alle province avrebbe un particolare “vincolo di destinazione”.
Ricordiamo, allora, brevemente cosa si deve intendere per “prelievo forzoso”. La gran parte dei media, ma anche dei commentatori, continua ad affermare che alle province sarebbero stati imposti “tagli” alla spesa. Non è così.
Lo Stato non poteva tagliare nulla, perché già dal 2012 erano stati totalmente azzerati i trasferimenti erariali alle province, attraverso il fondo sperimentale di sviluppo.
La legge 56/2014 prevedeva, come detto, una rideterminazione delle funzioni provinciali che comportasse il passaggio in un unico momento di funzioni, patrimonio, contratti, personale e risorse finanziarie dalle province all’ente di destinazione. Il che avrebbe comportato che il volume complessivo della spesa delle province, nel 2014 di circa 10 miliardi, non si sarebbe ridotto.
Questa semplice evidenza, però, contrastava con la “narrazione” della riforma più volte prodotta dal Governo, secondo il quale grazie alla riforma delle province sarebbe appunto stata tagliata la spesa e ridotte le tasse.
Nulla di tutto ciò corrisponde al vero. La spesa delle province si è ridotta a circa 9 miliardi per durissima e meritevole azione di contenimento delle province stesse. Ma, a regime 3 di questi miliardi (oltre ad un altro miliardo e mezzo imposto dalla combinazione dei d.l. 95/2012 e 66/2014) invece di essere spesi dalle province per finalizzarli all’esercizio delle funzioni, sono destinati al bilancio dello Stato. Senza che nessuna tassa provinciale sia stata minimamente ridotta! Infatti, laddove le province non versassero allo Stato quanto da esso imposto, scatterebbe appunto il prelievo forzoso, assicurato dalle entrate derivanti dalla tassa sulla responsabilità civile auto.
Dunque, le province, pur dovendo continuare a gestire servizi per un volume di spesa del valore di circa 9 miliardi, ne devono dirottare a regime 4 circa allo Stato. Ecco perché già nel 2015 il 70% degli enti ha sforato il patto di stabilità e nel 2017 tutte sono destinate al dissesto, tanto che già da due anni si consente loro di non approvare un bilancio triennale, per evitare di evidenziare gli squilibri finanziari indotti dalla legge 190/2014.
Ora, se davvero i miliardi che lo Stato ha requisito alle province fossero vincolati al finanziamento delle funzioni non fondamentali traslate ad altri enti, non vi sarebbero problemi gestionali di sorta. Le regioni potrebbero vantare un diritto di credito nei confronti dello Stato e pretendere quelle risorse, per finanziare appunto le funzioni che hanno riordinato, in parte facendole proprie, in parte confermandole in capo alle province, in parte minima assegnandole ai comuni.
Il fatto è, però, che la legge 190/2014 e nessun’altra legge prevedono il vincolo di destinazione immaginato, letteralmente immaginato, dalla Corte costituzionale.
Per averne la prova, oltre a leggere i testi delle norme, basti semplicemente pensare al riordino di una funzione non fondamentale: le politiche attive per il lavoro. Proprio perché lo Stato incamera i soldi espropriati alle province senza alcun vincolo di ridestinarli alle funzioni non fondamentali, esattamente con il d.l. 78/2015, il d.lgs 150/2015 e l’accordo raggiunto nella Conferenza Stato-regioni del 30 luglio 2015, si è stabilito che le regioni stipulassero col Ministero del lavoro convenzioni finalizzate a disciplinare l’esercizio della funzione del mercato del lavoro, prevedendo che si garantisse la copertura del solo costo del personale (non della spesa connessa all’esercizio delle funzioni), in modo che lo Stato la finanziasse per i soli anni 2015 e 2016 nella misura dei 2/3; le regioni debbono partecipare alla spesa per 1/3.
E’ assolutamente chiaro che se fosse rispondente alla realtà quanto sostiene la Consulta, non vi sarebbe stato alcun bisogno di questi accordi, delle connesse convenzioni e della compartecipazione delle regioni alla spesa: lo Stato avrebbe potuto (e dovuto) girare alle regioni l’intero finanziamento legato alla funzione del lavoro e, per altro, a regime e non solo per gli anni 2015-2016.
Anche questo elemento di fatto, perfettamente conosciuto e, comunque, conoscibile leggendo la cronaca quotidiana, è totalmente venuto a mancare alla cognizione della Consulta, che, quindi, ha prodotto una sentenza letteralmente di fantasia, smentita da fatti, norme e strumenti di attuazione delle riforme.
Sembra, quindi, ironica la chiosa della sentenza, ove si afferma che “questa Corte ha già precisato sul punto che nel «processo riorganizzativo generale delle Province che potrebbe condurre alla soppressione di queste ultime per effetto della riforma costituzionale attualmente in itinere […] l’esercizio delle funzioni a suo tempo conferite – così come obiettivamente configurato dalla legislazione vigente – deve essere correttamente attuato, indipendentemente dal soggetto che ne è temporalmente titolare e comporta, soprattutto in un momento di transizione caratterizzato da plurime criticità, che il suo svolgimento non sia negativamente influenzato dalla complessità di tale processo di passaggio tra diversi modelli di gestione» (sentenza n. 10 del 2016)”.
Oppure, potrebbe trattarsi di una chiave di lettura della sentenza 205/2016 meno a tinte fosche. Sulla base, infatti, di questo passaggio, la sentenza, pur rigettando la questione di legittimità costituzionale (invero evidentissima) dell’articolo 1, comma 418, della legge 190/2014, potrebbe considerarsi come “sentenza interpretativa di rigetto” di tipo additivo. Cioè, la sentenza della Consulta, perché possa considerarsi logica ed utile al sistema ordinamentale, dovrebbe essere considerare capace di integrare l’ordinamento di ciò di cui è carente: il vincolo di destinazione delle risorse espropriate alle province all’intero finanziamento delle funzioni non fondamentali riordinate.
Sulla base di questa chiave di lettura, le regioni dovrebbero pretendere dallo Stato l’immediata refusione delle spese che sono state indotte a sostenere con risorse proprie per effetto della legge 125/2015. Forse, quindi, il capitolo finale di questa sciagurata riforma non è stato ancora scritto.


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