domenica 5 febbraio 2017

Polizze sulla vita o sulla carriera?


I confini della vicenda della polizza vita stipulata dall’ex segretario particolare del sindaco di Roma suo beneficio (e a sua insaputa) non sono ancora chiari.
Un comunicato della Procura della Repubblica di Roma, titolare di un’inchiesta su Virginia Raggi evidentemente a spettro molto ampio, lascia trasparire che non vi sono risvolti penali quanto meno legati alla probabilità che dietro la stipulazione della polizza vi sia il reato di corruzione.
Ottimo. Vicenda chiusa, dunque? Non diremmo.
Non si deve dimenticare che, piaccia o non piaccia, in Italia nel 2012 con la legge 190 “anticorruzione” è stato introdotto un mastodontico impianto normativo finalizzato a perseguire non il reato di corruzione, bensì la prevenzione di ogni comportamento dei dipendenti pubblici (la norma sfiora soltanto le responsabilità degli organi politici…) che possa “inquinare” l’azione amministrativa, corrompendola nel senso di sviarla dal fine necessario di perseguire l’interesse pubblico, per condurla verso fini anche o esclusivamente privati.
Dunque, l’esclusione di una fattispecie dall’inquadramento di reato non consente di trascurare l’obbligo di valutare se i fatti possano comunque dare corso a conflitti di interessi o, comunque, comportamenti “corruttivi” di tipo amministrativo e non penale, rientranti nel complesso appunto della normativa anticorruzione.
Questa indagine va effettuata prescindendo del tutto dalle motivazioni di ordine psicologico che, nel caso di specie, possano aver indotto Salvatore Romeo a beneficiare della polizza il sindaco di Roma, come la stima nei confronti della persona.
Andiamo a guardare, in proposito, il dpr 62/2013, quello che inguaia indirettamente il sindaco di Roma per l’incarico assegnato a Renato Marra, fratello di Raffaele, in violazione dell’obbligo di astensione imposto da quella norma, che è il codice di comportamento dei dipendenti pubblici.
L’articolo 7, comma 1, del codice dispone: “Il dipendente si astiene dal partecipare all’adozione di decisioni o ad attività che possano coinvolgere interessi propri, ovvero di suoi parenti, affini entro il secondo grado, del coniuge o di conviventi, oppure di persone con le quali abbia rapporti di frequentazione abituale, ovvero, di soggetti od organizzazioni con cui egli o il coniuge abbia causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o debito significativi, ovvero di soggetti od organizzazioni di cui sia tutore, curatore, procuratore o agente, ovvero di enti, associazioni anche non riconosciute, comitati, società o stabilimenti di cui sia amministratore o gerente o dirigente. Il dipendente si astiene in ogni altro caso in cui esistano gravi ragioni di convenienza. Sull’astensione decide il responsabile dell’ufficio di appartenenza”.
La norma, come detto, si riferisce al comportamento dei soli dipendenti pubblici: un vizio genetico immenso della disciplina anticorruzione, molto severa – giustamente – nel perseguire azioni poco commendevoli dell’apparato, ma inaccettabilmente lacunosa nel non estendere i propri canoni agli organi politici che più ancora dei dipendenti dispongono di poteri decisionali ed operativi esposti allo sviamento dall’interesse pubblico.
Immaginiamo che la norma si applichi, invece, agli organi di governo e, dunque, anche ad un sindaco. Ebbene, tale norma impedirebbe in maniera molto chiara a qualsiasi sindaco di elargire a piene mani incarichi in staff o dirigenziali, che per altro comportano spessissimo la “promozione” senza concorsi in qualifiche non possedute dai destinatari o quanto meno la crescita di tre/quattro volte del loro trattamento economico, ad “amici” e “persone di fiducia”. Infatti, la frequentazione abituale e le ragioni di convenienza dovrebbero essere da argine alla creazione di “cerchi magici”, nei quali i beneficiati ottengono cariche rilevantissime esclusivamente per i rapporti privilegiati sempre più personali che partitici, cagione sostanzialmente esclusiva della loro scelta.
Invertiamo, adesso, il ragionamento. Immaginiamo che il dipendente comunale Tizio, un valente funzionario non avente qualifica dirigenziale, ma “attivista” politico, per questo “in vista” nel suo movimento e ben conosciuto da un candidato sindaco nel comune ove lavora, punti ad ottenere un riconoscimento concreto per l’attivismo che da anni manifesta e conferma.
Questo dipendente potrebbe essere portato a ritenere che, data la presenza di una serie di norme per le quali ai sindaci è data la possibilità di distribuire incarichi “fiduciari” a chi meglio ritengano, senza concorso e con stipendi parametrati a quelli dei dirigenti, aspirare a simili incarichi dimostrandosi anche disposti a rinunciare a parte dell’incremento (molto significativo) del proprio trattamento economico possa essere un argomento tale da convincere ulteriormente della propria “fedeltà”. Immaginiamo anche che questo tipo di ragionamento, oltre a potersi sviluppare con la banale e pedestre restituzione di parte dello stipendio, si esplichi in forme finanziariamente più sofisticate, come strumenti di investimento, quali polizze vita con riscatto.
Ovviamente, non possiamo sapere se il caso delle polizze stipulate da Salvatore Romeo, dipendente comunale tra i tanti, ma attivista di M5S chiamato nello staff del sindaco di Roma con stipendio quasi quadruplicato, derivi da ragionamenti simili a quelli che abbiamo esposto poco sopra, né lo affermiamo, perché non abbiamo né modo, né intenzione di farlo.
Tuttavia, appare piuttosto chiaro che le regole che consentono ai sindaci e, in generale, a tutti gli organi politici di costruire “staff” mediante incarichi “fiduciari” lautamente pagati, senza alcun concorso e persino a persone con la sola terza media (è il caso dell’articolo 90, comma 3-bis, del d.lgs 267/2000, quello che consente appunto di parametrare gli stipendi dei collaboratori dei sindaci a quelli dei dirigenti, anche se i componenti dello staff non abbiano i requisiti nemmeno per pensare di partecipare ad un concorso pubblico per dirigente), apra spazi enormi a comportamenti certamente non in linea con l’esigenza di garantire l’interesse pubblico. Questi spazi permettono con ogni evidenza di trattare gli incarichi fiduciari come affari molto privati e molto poco pubblici, con costi per i cittadini.
Qualcuno, a questo punto, può obiettare che un sindaco ha il diritto di circondarsi di persone di propria fiducia, non potendo ovviamente conoscere personalmente l’apparato comunale.
Non è il caso di rispondere che qualsiasi sindaco deve avere piena fiducia nell’apparato amministrativo, perché è una carica pubblica e sarebbe impensabile che proprio un esponente pubblico di tale natura possa nutrire dubbi sulla fedeltà “tecnica” dell’apparato amministrativo, che ai sensi dell’articolo 98 della Costituzione è obbligato a curare l’interesse della Nazione.
Ammettiamo che il sindaco abbia comunque diritto ad un proprio staff, per farsi guidare e consigliare anche politicamente. Ammettiamo che a questo scopo non serva la giunta comunale (che, invece, avrebbe esattamente tale funzione). Diamo, dunque, per scontato che al sindaco serva un consulente legale, uno tecnico, uno politico (al di là di soggetti come porta voce o capo ufficio stampa che non possono non essere legati con un rapporto di fiducia, o del segretario “particolare”, che deve poter garantire estrema riservatezza su dossier in corso di evoluzione).
Bene, ammettiamo, quindi, questo diritto. Siccome, però, l’apparato amministrativo è formato da dipendenti pubblici scelti per concorso e non dal sindaco e costa miliardi di euro ai cittadini, alla necessaria “fiducia” che un sindaco richiede ad un proprio staff, non può corrispondere simmetrica “sfiducia” nell’apparato amministrativo di ruolo, che costa e deve essere messo in condizione di lavorare.
Quindi, che i sindaci e qualsiasi altro organo si circondino di cerchi magici con persone di loro estrema fiducia: ma, per piacere, anche allo scopo di evitare i pericoli corruttivi aperti da norme mal congegnate, che si vieti che il pagamento degli staff gravi sulle casse pubbliche: i consulenti vari del sindaco e degli altri organi politici, li paghino il sindaco stesso e gli altri organi politici, oppure i partiti o movimenti dei quali fanno parte. E tali componenti degli staff non firmino una sola carta, una sola decisione, ma facciano pure le valutazioni di merito e le relazioni sull’azione dell’apparato amministrativo al sindaco e a chi ritengano.
In questo modo, finalmente, si farebbe chiarezza e soprattutto si eviterebbe di lasciar pensare a chiunque che stipendi e cariche pubbliche possano essere strumenti per compensare la stima e la fiducia reciproca e non per retribuire funzioni pubbliche nell’esclusivo interesse della Nazione.
Soprattutto, si riuscirebbe meglio a capire che la pubblica amministrazione è al servizio dei cittadini e degli organi politici elettivi, ma non dei partiti. La costituzione di un ufficio pubblico non può e non deve essere equivalente all’occupazione di “attivisti” ed esponenti dotati di tessera o, comunque, selezionati in base ad una dichiarata militanza.
I partiti svolgano la loro importante funzione di formazione di indirizzi politici e selezione del personale da candidare alle cariche pubbliche, ma restando sempre fuori dalla soglia di ingresso nelle istituzioni.

1 commento:

  1. Se dovessimo essere molto pignoli, anche l'invito a un convegno può vedersi come motivo di corruzione, la scrittura dell'introduzione sia pure gratuita di un libro, l'intervista a un giornale invece che a un altro ecc. ecc. Comportamenti adottati dal 99,9% delle persone che contano in Italia. Perchè sotto un piano puramente logico, se altrimenti interpretate le norme manterranno in vita la vera corruzione e colpiranno solo chi sbaglia in buona fede. Però, se si perde di vista la ragionevolezza delle norme e delle interpretazioni, di un funzionario, di un Magistrato, di un'Autorità, dovremmo leggere il nome solo negli atti ufficiali. La stampa sta facendo le pulci alla Raggi, ma non ad altre centinaia di migliaia di politici e Autorità varie; basta cambiare obiettivo e le scoperte e le considerazioni, tra un dire e non dire, supporre e sospettare, saranno uguali.

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