domenica 26 febbraio 2017

Reintegra dei dipendenti pubblici licenziati: non chiamatelo conferma dell’articolo 18


La riforma Madia disporrà la tutela della reintegra per i dipendenti pubblici licenziati illegittimamente.
Lo schema di decreto legislativo attuativo dell’articolo 17 della legge 124/2015 aggiunge alla fine dell’articolo 63, comma 2, del d.lgs 165/2001 le seguenti disposizioni: “Il giudice, con la sentenza con la quale annulla o dichiara nullo il licenziamento, condanna l’amministrazione alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative. Il datore di lavoro è condannato, altresì, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali”.

Secondo le prime indicazioni della stampa generalista, la norma sarebbe la “conferma” dell’applicazione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori al lavoro pubblico, così come sempre sostenuto dal Ministro Madia e di recente affermato dalla Cassazione.
Occorre precisare che la presunta “conferma” non sarebbe riferita al testo dell’articolo 18 riformato, in modo farraginoso e confuso dalla legge 92/2012 (legge “Fornero”), bensì al testo originario della legge 300/1970.
Questa è, infatti, la conclusione cui è giunta la Cassazione, sezione lavoro, con la sentenza 9 giugno 2016, n. 11868. Una decisione, per la verità, discutibile e da considerare non corretta, che tuttavia ha dato fiato alle teorie dottrinali, secondo le quali, appunto, le modifiche all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non sarebbero applicabili al lavoro pubblico.
In ogni caso, l’indicazione dei media secondo la quale la riforma Madia sarebbe una “conferma” che al lavoro pubblico si applica l’articolo 18 nel testo originario è un evidentissimo travisamento dei datti. La norma prevista dallo schema di riforma del lavoro pubblico non è affatto una conferma dell’articolo 18. Per due ragioni.
La prima è facilmente rilevabile dal confronto tra il testo originario dell’articolo 18 e quello visto sopra, previsto dalla riforma:
Articolo 18, testo originario
Nuovo testo dell’art. 63, comma 2, d.lgs 165/2001
Ferma restando l'esperibilità delle procedure previste dall'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, il giudice, con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento ai sensi dell'articolo 2 della legge predetta o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa, ordina al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro. Il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno subito per il licenziamento di cui sia stata accertata la inefficacia o l'invalidità a norma del comma precedente. In ogni caso, la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità di retribuzione, determinata secondo i criteri di cui all'articolo 2121 del codice civile. Il datore di lavoro che non ottempera alla sentenza di cui al comma precedente è tenuto inoltre a corrispondere al lavoratore le retribuzioni dovutegli in virtù del rapporto di lavoro dalla data della sentenza stessa fino a quella della reintegrazione. Se il lavoratore entro trenta giorni dal ricevimento dell'invito del datore di lavoro non abbia ripreso servizio, il rapporto si intende risolto. La sentenza pronunciata nel giudizio di cui al primo comma è provvisoriamente esecutiva. Nell'ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all'articolo 22, su istanza congiunta del lavoratore e del sindacato cui questi aderisce o conferisca mandato, il giudice, in ogni stato e grado del giudizio di merito, può disporre con ordinanza, quando ritenga irrilevanti o insufficienti gli elementi di prova forniti dal datore di lavoro, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro. L'ordinanza di cui al comma precedente può essere impugnata con reclamo immediato al giudice medesimo che l'ha pronunciata. Si applicano le disposizioni dell'articolo 178, terzo, quarto, quinto e sesto comma del codice di procedura civile. L'ordinanza può essere revocata con la sentenza che decide la causa. Nell'ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all'articolo 22, il datore di lavoro che non ottempera alla sentenza di cui al primo comma ovvero all'ordinanza di cui al quarto comma, non impugnata o confermata dal giudice che l'ha pronunciata, e' tenuto anche, per ogni giorno di ritardo, al pagamento a favore del Fondo adeguamento pensioni di una somma pari all'importo della retribuzione dovuta al lavoratore.
Il giudice, con la sentenza con la quale annulla o dichiara nullo il licenziamento, condanna l’amministrazione alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative. Il datore di lavoro è condannato, altresì, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali

Non è chi non veda le rilevanti differenze tra i due testi. Abbiamo evidenziato in grassetto nel testo originario dell’articolo 18 il passaggio più simile a quello che la riforma Madia intende introdurre nell’articolo 63, comma 2, del d.lgs 165/2001. Salta immediatamente all’occhio il sistema molto differente di determinazione del risarcimento, rispetto all’indennità risarcitoria. Al di là della reintegra, insomma, le due norme non hanno niente che le renda identiche, ma sono solo simili.
La seconda motivazione è data dalla circostanza che quella della riforma Madia non è una norma di interpretazone, tanto meno di interpretazione autentica. Lo sarebbe stato se il legislatore avesse formulato una disposizione dal contenuto come “ai lavoratori alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche si applica l’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, nel testo antecedente alla riforma disposta dall’articolo 1, comma 42, della legge 28 giugno 2012, n. 92”. Invece, come si nota, non è così.
La previsione contenuta nella riforma Madia è assolutamente:
1)      nuova: non trattandosi di norma di interpretazione con efficacia retroattiva, è tipica espressione del potere del Legislatore di innovare l’ordinamento giuridico, mediante espressione di volontà libera nei fini, attuativa di un indirizzo politico;
2)      diversa da quella della normativa, sia vigente (l’articolo 18 nel testo risultante dalla riforma Fornero), sia previgente (l’articolo 18 nel testo originario, ante riforma Fornero).
Di fatto, la previsione della riforma Madia, lungi dall’essere una “conferma” dell’articolo 18 risulta, all’opposto, essere una clamorosa (ma corretta) smentita proprio alle non condivisibili conclusioni della Corte di cassazione. La quale, appunto, per considerare ancora applicabile ai dipendenti pubblici la tutela della reintegrazione nel posto di lavoro ha dovuto arrampicarsi sugli specchi della teoria secondo la quale al lavoro pubblico non si sarebbe estesa né la riforma dell’articolo 18 operata con la legge Fornero, né la riforma complessiva delle tutele dei lavoratori, disposta col d.lgs 23/2015. Introducendo un concetto paradossale: quello secondo il quale il principio della successione delle leggi nel tempo non si applicherebbe per via interpretativa, sicchè una norma, sia pure modificata nel suo testo da una successiva, continuerebbe ad applicarsi, e per una sola specifica categoria di destinatari (nel caso di specie, i dipendenti pubblici) nel testo antecedente alla riforma stessa.
Come osservato prima, invece la riforma Madia introduce una vera e propria specifica tutela, la reintegra, con una norma ad hoc. Confermando, così, la teoria di chi ha sostenuto che il Legislatore era ovviamente libero di riservare ai dipendenti pubblici una disciplina della tutela dal licenziamento illegittimo particolare, ma che allo scopo avrebbe dovuto introdurre una specifica deroga alle disposizioni contenute nelle leggi riguardanti la disciplina del lavoro privato, che altrimenti si estendono automaticamente al lavoro pubblico.
Una delle pecche più clamorose della dottrina e della giurisprudenza della Cassazione secondo le quali l’articolo 18 continuava ad applicarsi al lavoro pubblico nel testo ante riforma Fornero, consiste proprio nell’ignorare quanto dispone il testo unico sul lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, in particolare:
1), nell’articolo 2, comma 2, ai sensi del quale “I rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel presente decreto”; ma, nessuna “diversa disposizione” è stata fin qui contenuta nel d.lgs 165/2001, a proposito di tutela del licenziamento;
2) al contrario, l’articolo 51, comma 2, del d.lgs 165/2001 ha proprio inteso, senza alcun’ombra di dubbio, estendere automaticamente al lavoro pubblico la disciplina della tutela dei lavoratori attraverso un indiscutibile rinvio dinamico: “La legge 20 maggio 1970, n.300, e successive modificazioni ed integrazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti”.
Pertanto, per assicurare ai dipendenti pubblici la tutela della reintegra, non restava che seguire la strada dell’introduzione di una deroga espressa alla disciplina del lavoro privato, prevedendo la specifica tutela che, adesso, il decreto attuativo della riforma Madia indica.
Il che comprova la validità dell’assunto iniziale: la riforma Madia non conferma affatto l’applicazione dell’articolo 18 al lavoro pubblico, ma, al contrario, introduce una regolazione speciale.
Per altro, lo schema di riforma, nell’attuale tesato, contiene un errore clamoroso: non abolisce, come sarebbe assolutamente necessario per evitare ulteriori incertezze interpretative, l’articolo 51, comma 2, che, come visto sopra, prevede l’automatica estensione al lavoro pubblico delle regole riguardanti il lavoro privato contenute nello Statuto dei lavoratori.
Infine, non si può non evidenziare come la scelta del legislatore di apprestare ai lavoratori pubblici la tutela della reintegrazione, in presenza, invece, di una disciplina del lavoro privato completamente diversa ed opposta, si presta a concreti rischi di illegittimità costituzionale, per manifesta disparità di trattamento nelle tutele del bene primario del lavoro.

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