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sabato 23 agosto 2014

#province La demagogia eterna di Rizzo e il flop preannunciato della riforma Delrio

Che fine ha fatto l’abolizione delle province? Se lo chiede sul Corriere del 23 agosto 2014 l’ineffabile Sergio Rizzo, che torna a scrivere dopo aver taciuto stranamente per mesi su un argomento da egli trattato nel sul libro “La Casta”, sicchè, per lui, abolire le province è un ukaze da osservare a prescindere.

Con estrema velocità e prontezza di riflessi, Rizzo, il fustigatore delle province (a rimorchio di un articolo de Il Fatto Quotidiano del giorno prima) si accorge di uno scoop sensazionale: “la famosa legge 56 non ha affatto abolito le Province”.

Dopo esserci riavuti dalla clamorosa scoperta, osserviamo che quanto predicemmo nei ripetuti e troppi interventi sull’argomento, pian piano comincia ad avverarsi.

La riforma delle province attuata attraverso la legge 56/2014, conosciuta come legge Delrio, è uno dei pateracchi peggiori mai visti nell’ordinamento italiano.

Una legge scritta malissimo e sin da subito colpita da pentimenti: per esempio, si era introdotto, Dio solo sa perché, l’esercizio provvisorio obbligatorio per le province, poi, visto che era totalmente privo di qualsiasi senso, subito eliminato dalla legge 114/2014, di conversione del d.l. 90/2014, sulla riforma della pubblica amministrazione.

Naturalmente, poiché la legge 56/2014, non certo agli occhi di Rizzo, che mostra sempre più di non avere i mezzi per capire i contenuti della normativa sugli assetti istituzionali (comunque, è un giornalista, non è un esperto della materia; la cosa grave è che ci sono giuristi che difendono una riforma indifendibile…), è un disastro su tutta la linea, risulta difficile da tradurre in pratica. Rizzo, dunque, si accorge dunque che “mancano i decreti attuativi per cui neanche le modifiche previste da quella legge sono mai diventare operative: dovevano essere pronti per luglio, ma non se ne avrà notizia, pare, prima di settembre”.

Nella realtà, non è che manchino decreti “attuativi”. Mancano totalmente le basi perché la legge 56/2014 possa essere attuabile, ma, soprattutto, utile.

Il cuore di questi decreti attuativi che mancano consiste nell’individuazione delle funzioni oggi gestite dalle province, che dovrebbero passare ai comuni, oppure alle regioni. Scoprire quali siano non è opera banale: alcune funzioni, infatti, sono di matrice statale, altre regionale.

Il tentativo di rilevare le funzioni statali risale a ben due anni fa, alla spending review all’amatriciana del governo Monti, che tramite il proprio ministro per la Funzione Pubblica Patroni Griffi si scagliò all’assalto delle province, con risultati fallimentari, se non ridicoli: norme incostituzionali, decreti decaduti, norme attuative mai emanate. Per farsi due risate, è bene leggere i commi 5 e 6 dell’articolo 17 della legge di Monti:

6. Fermo restando quanto disposto dal comma 10 del presente articolo, e fatte salve le funzioni di indirizzo e di coordinamento di cui all'articolo 23, comma 14, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito nella legge 22 dicembre 2011, n. 214, nel rispetto del principio di sussidiarietà di cui all'articolo 118, comma primo, della Costituzione, e in attuazione delle disposizioni di cui al comma 18 del citato articolo 23, come convertito, con modificazioni, dalla citata legge n. 214 del 2011, sono trasferite ai comuni le funzioni amministrative conferite alle province con legge dello Stato fino alla data di entrata in vigore del presente decreto e rientranti nelle materie di competenza legislativa esclusiva dello Stato ai sensi dell'articolo 117, comma secondo, della Costituzione.

  1. Le funzioni amministrative di cui al comma 6 sono individuate con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dell'interno di concerto con il Ministro per la pubblica amministrazione e con il Ministro dell'economia e delle finanze, da adottare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, previa intesa con la Conferenza Stato-Città ed autonomie locali”.


Del Dpcm non si è mai avuta traccia. La realtà è che gli azzeccagarbugli chiamati a riformare le province non hanno mai saputo, e ancora non sanno, quali siano le funzioni provinciali. Basti vedere gli atti della Conferenza Stato regioni, per capire che presso i ministeri non si ha la più pallida idea del complesso delle attività amministrative gestite dalle province e si va a tentoni. Tanto che in due anni non è venuta ancora fuori la ricognizione delle funzioni da trasferire.

Attenzione: non si tratta di un mero esercizio statistico o di virtuosismo amministrativo. Le funzioni richiedono risorse finanziare, strumentali, patrimoniali ed il personale per gestirle. Gli incantatori di serpenti che spacciano che grazie all’abolizione delle province si risparmierebbero i circa 10 miliardi da esse gestiti, affermano un falso clamorosi ed imperdonabile. Quei 10 miliardi non servono alla sussistenza delle province, bensì sono esattamente la spesa destinata alle funzioni che svolgono.

Ergo, spostando le funzioni da un ente all’altro, la spesa non diminuisce, ma resta la stessa. Anzi, se si decide di attribuire le funzioni provinciali agli 8100 comuni e alle 390 unioni di comuni, la qualità della spesa ovviamente è destinata a peggiorare, perché risulterebbe polverizzata, passando da soli 107 centri di spesa a quasi 8.500. Tutto il contrario della “semplificazione” e “riduzione dei centri decisionali”, che sempre i fautori della deleteria riforma Delrio hanno sottolineato esservi.

Ora, spostare le funzioni, significa attribuire agli enti subentranti le risorse necessarie per svolgerle. E’ questo il nodo che impedisce di adottare i decreti attuativi: comuni e regioni non hanno la minima intenzione di accollarsi funzioni senza adeguata copertura finanziaria, patrimoniale e personale trasferito. Ma, d’altra parte, la legge Delrio ha lasciato alle province alcune funzioni fondamentali. Quale sarebbe, allora, l’algoritmo di calcolo per assicurare adeguate risorse alle province per la gestione delle loro residue funzioni e, contemporaneamente a comuni e regioni i trasferimenti necessari? Ovviamente, non esiste. Perché i geni che hanno lavorato alla riforma si sono ostinati nel non affrontare come prioritario esattamente questo problema, quello delle funzioni, quali fossero, quanto sarebbero costate.

Si è voluto dare fiato alle fanfare della demagogia a basso costo dei Rizzo e del M5S che sulle province ha intrapreso la più inutile delle campagne populistiche, consegnando al ministro Delrio prima e al premier Renzi poi un facilissimo sistema, far credere di aver abolito le province, per ottenere senza alcuno sforzo un consenso mediatico degno di miglior destinazione.

Rizzo, come vaticinato, comincia ad incassare i dividendi della sua campagna. Fin qui è da anni che scrive e predica che le province debbono essere abolite. Ora, può iniziare a svoltare: con l’articolo del 23 agosto può scrivere della mancata attuazione della legge Delrio e ne avrà per mesi ancora. Poi, visto che la riforma è un obbrobrio, potrà avviare nuovi filoni di popolari inchieste sulle inefficienze delle città metropolitane (che saranno serbatoi finanziari e di voti dei capoluoghi, abbandonando totalmente le periferie), nonché sulle conseguenze dannosissime della legge.

Infatti, nel suo articolo Rizzo comincia ad affilare le armi, citando Massimo Bordignon, coordinatore degli esperti chiamati da Cottarelli per elaborare idee sulla spending review in tema di analisi dei costi della politica locale (cosa c’entri, poi, la spesa per servizi con i costi della politica è tutto da scoprire). Rizzo evidenzia che nel loro rapporto a Cottarelli gli esperti hanno scritto: “prevedere che una volta abolite le Province sul piano costituzionale e deciso quali funzioni e risorse ritornano nell’alveo statale, tutte le funzioni e le risorse residue passino alle Regioni, lasciando poi a queste decidere come delegare funzioni e risorse. Questo andrebbe anche nella direzione di semplificare e ridurre il numero di decisori locali e la sovrapposizione di funzioni fra livelli di governo”.

Insomma, per accorgersi che riformare le province allo scopo di ridurre “i decisori” e semplificare il quadro ordinamentale richiede necessariamente la scelta radicale di trasferire tutte le funzioni alle regioni, occorreva passassero due anni, si realizzasse una riforma scellerata che va nel senso diametralmente opposto, che Cottarelli per conto suo analizzasse le ricette di una revisione della spesa un po’ credibile e che incaricasse un gruppo di esperti, i quali esitassero un rapporto contenente questa conclusione. Sarebbe bastato, forse, leggere quanto chi scrive ebbe a pubblicare su La Voce info il 13 luglio 2012: “Se le regioni inglobano le province”.

Infine, alcune annotazioni. E’ opportuno fare presente che abolire le province in Costituzione non significa affatto eliminare l’ente. Non risulta, infatti, che (a caso) Inps, comunità montane, autorità portuali, Aci, o altre innumerevoli amministrazioni siano previste dalla Costituzione, eppure esistono, operano, svolgono funzioni e gestiscono risorse. La cancellazione della parola “province” dalla Costituzione è solo facciata per chi si contenta di poco ed accetta le manipolazioni propagandistiche. Le province possono essere eliminate solo con la distribuzione di tutte le loro funzioni e risorse ad altri enti e, lo ripetiamo, tale redistribuzione avrebbe un che di minimamente razionale solo se avesse come destinatarie le regioni.

In secondo luogo, è totalmente da rigettare l’idea propugnata da Rizzo, quando afferma “Saremmo infatti ingenerosi se non ammettessimo che eliminando il livello elettivo provinciale è stato raggiunto un risultato importante. Perfino epocale, per come vanno le cose in Italia”. E’ un’affermazione apodittica totalmente fuori luogo. Qual è il beneficio dell’eliminazione del livello elettivo provinciale? La Corte dei conti lo ha chiarito: se si tratta di costi della politica, per effetto delle leggi Tremonti del 2011, 35 milioni, cioè lo 0,0043% della spesa pubblica totale italiana. A fronte di questo risultato prossimo allo zero, perfettamente conseguibile prevedendo la gratuità di organi elettivi, si rinuncia ad un pezzo di democrazia (e sì: la democrazia vive di elezioni a suffragio universale e non di elezioni tra esponenti di partiti) e si deturpa l’ordinamento locale, condannato ad una confusione inestricabile.

Ancora, non si ripeta che la riforma delle province possa portare ad un risparmio di circa 2 miliardi, come affermato da Andrea Giuricin in un suo pregiato studio per l’Istituto Bruno Leoni e, molto più modestamente, da chi scrive in un proprio lavoro su La Voce Info. L’analisi del Giuricin risale al 2010; quella di chi scrive al 2011. A quell’epoca le province avevano un volume di spesa compreso tra i 14 e i 13 miliardi. Oggi, supera di poco i 10. I 2 miliardi di risparmi sono già stati conseguiti con gli interessi.

Ma, queste notizie, da chi semina solo il vento della propaganda e prende il tema delle province come spunto utile solo per vendere libri e comparire nelle trasmissioni, ovviamente non saranno mai diffuse.

3 commenti:

  1. EX CONSIGLIERI PROVINCIALI, FUORI DAI CDA DELLE SOCIETA’ PARTECIPATE
    Consiglieri Provinciali uscenti con incarichi nelle Partecipate.
    “Come si sa, in base all’art.141 comma5 del Dl 267/2000, i Consiglieri Provinciali decaduti a seguito dello scioglimento dei Consigli Provinciali, decadono anche da eventuali incarichi loro attribuiti (cda Società Partecipate, Aeroporti e quant’altro) restando in carica solo fino alla nomina del successore.
    Purtroppo, per la normativa poco chiara, molti Consiglieri, continuano a svolgere il loro mandato nelle partecipate, trascurando il fatto di essere decaduti e creando anche delle disparità con i Consiglieri Provinciali appena usciti.
    Sarebbe perciò opportuno che una circolare interpretativa sancisse l'immediata cessazione dalla carica, onde evitare che ruoli professionali continuino ad essere svolti da politici decaduti dal mandato pubblico.”

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