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mercoledì 15 ottobre 2014

#Genova #alluvione Le regole sugli #appalti di una #politica sorda la causa vera di tutto

Toni sempre populistici e da fustigatore a prescindere della pubblica amministrazione, ma Sergio Rizzo, sul Corriere del 15 ottobre, in merito ai fatti di Genova, scrive una cosa, purtroppo, sacrosanta: “E dopo il Tar c'è sempre il Consiglio di Stato e poi magari di nuovo il Tar e chissà, forse anche la Corte costituzionale. Ma si può scrivere un bando cosi? I soldi ci sono, ma forse no... E non è tutto qui. Perché a questo contenzioso amministrativo potrebbero in futuro sommarsi anche nuovi ricorsi per la nuova gara. Generando un micidiale cortocircuito giudiziario. In un Paese normale, penserete, di fronte a un'opera cosi urgente, quando c'è di mezzo l'incolumità pubblica, un'amministrazione se ne potrebbe anche infischiare dei giudizi del Tar. Poi si tratterà magari di risarcire il ricorrente che ha vinto, come succede in altri Paesi. Soluzione perfetta, se non fosse per il seguente particolare. In base alle norme vigenti un amministratore responsabile di una simile scelta, nel caso in cui la giustizia decida a favore di chi ha presentato il ricorso, rischia di essere chiamato dalla Corte dei conti a rispondere di danno erariale, con il proprio patrimonio”.

La denuncia è sicuramente corretta. I termini del discorso un po’ meno, perché lasciano credere che il problema siano il Tar, il Consiglio di Stato o la Corte costituzionale. E, ovviamente, giornali e tutta la politica nel suo complesso accreditano la tesi che casi come l’alluvione ripetuta di Genova siano cagionati solo dai Tar, dalla “burocrazia”, dalle “bombe d’acqua”. Mai che governi e parlamenti o giornali, troppo presi a cercare consensi e strusci coi primi, più che la verità dei fatti, indichino la vera responsabilità prima: che sta nei governi e nei parlamenti e, in particolare, nelle leggi assurde che essi sfornano a getto continuo.

Se i Tar sono subissati di ricorsi, non è per colpa del destino cinico e baro, né li autoproducono. La causa è da ricercare in norme che tutto hanno come scopo, tranne quello di evitare quanto più possibile il ricorso al Tar.

Il micidiale “codice dei contratti”, col suo ancor più letale regolamento di attuazione, sono un brodo di coltura perfetto per indurre ogni appaltatore che non risulti vincitore della gara a fare ricorso, per mille e mille motivi, moltissimi dei quali, per altro, nulla hanno a che vedere col merito (qualità del progetto), ma solo con garbugli da azzeccare. Come la composizione della commissione, se uomo, se donna, se esperto e quanto esperto, se dipendente pubblico, se terzo, se non terzo; come le comunicazioni da rivolgere alle aziende nonostante le mille forme di pubblicità; come la conservazione dei plichi, se in cassaforte, se in un cassetto, se al primo piano, se al piano terra; la produzione della cauzione provvisoria, se autenticata dal notaio, se originale; la risposta alle domande, se pubblicata prima, se pubblicata dopo e dove; la pubblicità legale, se sui quotidiani, se sulla Gazzetta Ufficiale. E potremmo continuare.

Il codice dei contratti, una selva intricatissima di norme dal sapore misto del più becero leguleismo, da un lato, e delle deroghe più viete per i grandi appalti lucrosi, dall’altro, è la norma perfetta per un Paese che non sa in che direzione andare. È la complicazione all’ennesima potenza di regole chiare e poche delle direttive europee, in nome di una presunta volontà di controllare meglio la legalità. Per poi, come dimostra la storia, sfociare in casi come Mose o Expo.

Praticamente, non c’è appalto per il quale non sia astrattamente possibile presentare ricorsi al Tar, date le regole assurde degli affidamenti. Ovviamente, le probabilità salgono col crescere del valore della commessa. Le aziende immancabilmente presentano il ricorso quando esista un buon rapporto costi/benefici tra oneri da sostenere per la causa e possibile modifica in sede giudiziaria degli esiti della gara.

Questa situazione vale trasversalmente per ogni tipo di lavoro, servizio o fornitura. L’eventuale indispensabilità o urgenza, dovuta ad evidenti ragioni di sicurezza per il territorio e la vita stessa delle persone non contano assolutamente nulla. I ricorsi partono allo stesso modo per la fornitura delle penne, il servizio mensa o lavori di messa in sicurezza di torrenti resi killer dall’incosciente opera dell’uomo.

In molti, effettivamente, si chiedono perché la gestione commissariale dell’appalto non abbia deciso comunque di far partire i lavori, una volta assestatasi la vertenza dopo la revisione del Tar Lazio delle decisioni giudiziali,.

La spiegazione è stata sintetizzata da Sergio Rizzo. L’Italia è il Pese che ha eliminato i controlli preventivi di legittimità sui provvedimenti amministrativi, ma è piena di magistrature e soggetti che intervengono a cercare responsabilità di ogni genere quando i fiumi sono esondati.

Dunque, se per un verso potrebbe essere considerato atto di buon senso far partire comunque lavori urgenti, almeno una volta assestata la revisione della prima decisione pretoria, per altro verso è vero: qualora dovessero partire lavori che, poi, in via definitiva il Tar dovesse considerare illegittimamente affidati, potrebbero scattare risarcimenti di danno per il mancato guadagno del ricorrente vittorioso e maggiori costi per il nuovo allestimento del cantiere, dovuto al subentro.

Il che, tradotto, significa possibilità di creare appunto “danno erariale”, cioè assumersi la responsabilità di una spesa non dovuta. E scatterebbe, allora, la Corte dei conti a pretendere dall’amministrazione e dai singoli suoi responsabili, il risarcimento del danno.

D’altra parte, come si vede, la prudenza per evitare il danno erariale, può portare alle conseguenze nefaste che si sono verificate, cui consegue la responsabilità penale per disastro colposo, in quanto incombe sempre e comunque la magistratura penale. Ma, del resto, anche facendo partire i lavori mentre non è del tutto definita la questione al Tar sulla correttezza dell’assegnazione della gara, l’ipotesi di reato di abuso d’ufficio incomberebbe in ogni caso.

Insomma, l’insieme delle regole per l’affidamento degli appalti che ingigantiscono il contenzioso amministrativo e la tenaglia della responsabilità erariale (propria solo della PA) e di quella penale che stritola i decisori, creano una mistura letale, la cui conseguenza è l’immobilismo, nella migliore delle ipotesi.

I rimedi? Sono sotto gli occhi di tutti. Fare del codice dei contratti e del suo regolamento e dei miliardi di pareri in merito dell’ex Avcp, e del Durc e dell’AvcPass (ancora lo hanno provato in pochi, aspettiamo per vederne le conseguenze nefaste…), un bel falò, alla Calderoli. E riscrivere tutto, da zero, puntando alla semplicità ed essenzialità delle direttive europee.

Ma, ci rendiamo conto che l’Anac ha messo in consultazione pubblica un “bando tipo” per forniture o servizi da 75, dicasi, 75 pagine? Ci rendiamo conto che è causa di esclusione dalla partecipazione agli appalti il mancato versamento del contributo che imprese (in gran parte) e PA debbono versare all’Anac stessa, un dazio medievale per mantenere un’authority che, come si nota, regola con bassissima efficacia la materia degli appalti, a causa della farraginosità della normativa?

Non si capisce che con leggi così cavillose, bandi lunghissimi, l’infinità di regole vince la forma e si dimentica la sostanza? Che, nel caso di specie, era ed è l’urgentissimo bisogno di dare sicurezza ad una città martoriata.

Cosa impedisce, in effetti, di prevedere, almeno per appalti così urgenti o categorie che non possono aspettare gli esiti di ricorsi o sospensive (servizi sociali, mense scolastiche, ecc…), se non per tutti, un semplice diritto al risarcimento del danno?

Seguendo le sciagurate e vacue indicazioni di Cottarelli, ci si è innamorati dell’idea di diminuire il numero delle stazioni appaltanti, come fosse questo il rimedio. A parità di regole assurde, la riduzione delle stazioni appaltanti può, forse, migliorare la specializzazione del lavoro, ma non eliminare le fonti di contenzioso, né la Corte dei conti, né la responsabilità penale.

Un rimedio, ulteriore rispetto al disperato bisogno di semplificazione degli appalti, è, allora, non quello di puntare sulla quantità delle stazioni appaltanti, ma sulla standardizzazione dei prezzi.

Visto che si suppone che al livello centrale o regionale esistono super-specializzazioni in grado di redigere capitolati tecnici di qualità, facciamole, intanto, lavorare per produrre listini inderogabili di prezzi di lavori, forniture e servizi. In questo modo non sarebbero nemmeno più utili gare al ribasso e si potrebbe puntare esclusivamente sulla qualità dei progetti, da far redigere addirittura direttamente dagli operatori economici, così da vietare drasticamente la possibilità di presentare riserve e richieste di varianti su progetti da loro stessi redatti ed aggiudicati sulla base di una gara sui progetti stessi. Nel caso di ricorsi, il ricorrente non potrebbe vantare lesione di diritti sul piano economico: il prezzo resterebbe, comunque, sempre quello. E anche l’amministrazione non avrebbe incertezze finanziarie.

Inoltre, buona cosa sarebbe prevedere che nel caso di ricorso con possibile annullamento della gara, nelle more comunque l’aggiudicatario sub judice inizia comunque i lavori e il subentrante a seguito del positivo esito del proprio ricorso non può vantare diritti al risarcimento per il lucro cessante e può solo subentrare nel cantiere già in opera, vantare il pagamento solo per gli stati d’avanzamento residui, senza revisione prezzi e contrattuale, con anche l’onere di mantenere le maestranze già operanti o di dimostrare con dovizia di motivazioni le ragioni per utilizzarne altre.

Regole troppo dirigiste? Forse. Ma, va meglio la situazione attuale? E non è assurdo dirigismo pretendere la determinazione dei costi del personale delle aziende, in assenza di qualsiasi norma che disponga minimi salariali?

Con simili regole, le responsabilità erariali e penali potrebbero scattare solo quando effettivamente vi siano disegni dolosi o colpe gravi ed evidenti e non per inerzie indotte da leggi e sistemi di controlli semplicemente assurdi ed inefficaci sia a reprimere, sia a prevenire.

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