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sabato 18 ottobre 2014

#leggedistabilità #tagli #regioni #comuni commedia degli equivoci

Il disegno di legge di stabilità sta scatenando diverse valutazioni. Molte, purtroppo e per l’ennesima volta, dono davvero così miopi da ritenere che essa sia “coraggiosa” ed in grado di dare una “scossa” all’economia. Solo perché prevede un’espansione della spesa in deficit per circa un terzo, 11,5 miliardi, che non si sa come e quando verranno mai coperti e recuperati.

Se vi sottolineano che si prevede una crescita del Pil dello 0,6% nel 2015, dovreste ricordare che la previsione lo scorso anno per il 2015 era dello 0,5%, dunque l’effetto della manovra sarebbe solo di un +0,1%; ma, soprattutto, dovreste ricordare che il Pil dal 2007 è sprofondato del 9% circa, sicchè comunque saremmo sotto zero. E dovreste ricordare che da almeno 3 anni nessun Governo ha formulato previsioni corrette sull’entità della crescita, questa sconosciuta.

Nella realtà, la manovra economica è una colossale commedia degli equivoci, nella quale niente è come sembra o come si presenta nelle slide.

Un esempio non direttamente pertinente agli enti locali: la cosiddetta “mai vista” riduzione delle tasse. Di essa fa parte, per 10 miliardi, il rinnovo dell’elargizione degli 80 euro, che tanti consensi elettorali ha portato e che, dunque, non può non essere confermata.

Ma, come ha certificato Eurostat, non si tratta per nulla di una riduzione di tasse. Infatti, la si denomina genericamente “bonus Irpef”, mentre il ministro Padoan escogita nei media (vedasi la puntata di Otto e mezzo di venerdì 17 ottobre) una serie di perifrasi, non sapendo bene come fare a venderla per riduzione di tasse, non essendolo.

E’ vera e propria spesa pubblica, come detto sopra, un’elargizione. Una riduzione di tasse e, segnatamente dell’Irpef, si avrebbe solo agendo sulle aliquote, abbassandole, o su detrazioni o deduzioni, aumentandole.

Ora, non solo i 10 miliardi non sono una riduzione di tasse, ma anche nel 2015 non sortiranno alcun effetto sul rilancio dei consumi, esattamente come avvenuto nel 2014. Il perché è semplice. I circa 10 milioni di beneficiari non diverranno certamente ricchi, grazie agli 80 euro, i quali, vista la crisi di domanda, finiranno per incrementare la propensione al risparmio o per essere destinati al pagamento di crediti insoluti, con benefici nulli sull’economia.

Una simile spesa potrebbe, allora, avere concreti effetti sui consumi se destinata non a chi lavora (per altro, meno della metà dei lavoratori), bensì a chi è rimasto senza lavoro e lo sta cercando.

A questo proposito, i media stanno esaltando la scelta della legge di stabilità di destinare “ben” 1,5 miliardi agli ammortizzatori sociali, misura che abbinata all’approvazione del Jobs Act dovrebbe cambiare la faccia del sistema del mercato del lavoro.

Peccato che nessuno, tranne Ricolfi sulla Stampa, faccia 4 semplicissimi calcoli. Ponendo l’Aspi a circa 900 euro al mese in media, significa che, se percepita per 12 mesi in media il disoccupato percepisce 10.800 euro l’anno. Dividiamo, ora, 1,5 miliardi per un ammortizzatore sociale medio di 10.800 euro: otteniamo 138.888. Dunque, in media, a beneficiare dell’investimento in ammortizzatori sociali, saranno tra i 135 e i 145 mila disoccupati, su 3,2 milioni, cioè, assumendo 140.000 come media, il 4,8%.

Ma, se i 10 milioni destinati allo spurio “bonus Irpef” fossero, invece, dirottati verso gli ammortizzatori sociali, potenziali fruitori sarebbero 925 mila persone circa. E, poiché queste persone sono disoccupate e, tendenzialmente, prive di reddito, per loro un simile sostegno al reddito non comporterebbe alcun innalzamento di propensione al risparmio, della quale sono del tutto privi, ma solo vera crescita di consumi per bisogni primari.

La commedia degli equivoci appare ancora più grottesca andando a guardare cosa accade nel sistema degli enti locali. Per il 2015, il disegno di legge di stabilità prevede tagli di:

  1. a) 4 miliardi alle regioni;

  2. b) 1,2 miliardi ai comuni;

  3. c) 1 miliardo alle province, che passano a 2 nel 2016 e a 3 nel 2017.


Qui gli equivoci sfiorano la pochade. Presidenti di regioni e sindaci stanno protestando ferocemente contro i tagli previsti, affermando che essi sono insostenibili e che andranno a penalizzare i servizi o ad incrementare le tasse.

Ora, la cosa è vera nei fatti, inaccettabile sul piano tecnico e morale. E’ vera nei fatti, semplicemente perché regioni e comuni hanno sempre, ad ogni manovra economica che ha previsto tagli nei loro confronti, incrementato in modo simmetrico la pressione fiscale. Sempre. Secondo le rilevazioni Istat dei conti consuntivi dei comuni, entrate tributarie del 50%: in 9 anni passano da 22 miliardi a 33 miliardi. E’ la testimonianza lampante del fenomeno dei tagli ai comuni, cui è stato, però, collegata la possibilità di incrementare le aliquote dei tributi, il che non ha mai permesso alla pressione fiscale complessiva di diminuire ma, al contrario, ne ha determinato la crescita.

Niente, dunque, lascia pensare che comuni e regioni reagiranno ai tagli previsti apportando simmetrici tagli alle proprie spese: come la storia insegna, aumenteranno corrispondentemente le entrate.

Sul piano tecnico e giuridico, ovviamente, questo è inaccettabile, perché prosegue la corsa all’incremento della pressione fiscale e anche il beneficio degli 80 euro, o quello di chi azzardi a chiedere il pagamento del Tfr in busta paga, verrebbe di fatto azzerato; ma, degli incrementi delle imposte e delle tasse subiscono le conseguenze non solo i beneficiari degli 80 euro, ma anche quelli che non li percepiranno.

Le regioni e i comuni, per garantire l’effetto di riduzione della spesa senza incrementare l’entrata, dunque, avrebbero il dovere di ridurre la spesa, senza incidere sulle tasse. Ma, è certo che non lo faranno. O, se lo faranno, è certo che ridurranno i servizi, ma non si sogneranno nemmeno di ridurre spese per gemellaggi, delegazioni all’estero, consulenze, incarichi dirigenziali a contratto, staff agli organi di governo, contributi a sagre e giochi circensi, tutto il sistema di spesa utile solo al mantenimento del consenso elettorale.

Gli equivoci non finiscono qui. Se in termini assoluti i tagli visti sopra possono destare, in effetti, una certa impressione, in termini relativi, rapportati, cioè, alla spesa totale di regioni ed enti locali, hanno tutta un’altra luce:

  1. a) per le regioni, 4 miliardi si deve rapportare a un totale delle spese regionali ammontante a circa 120 miliardi, secondo il Siope; si tratta dunque, di un taglio del 3,33%;

  2. b) per i comuni il taglio di 1,2 miliardi si applica su una spesa totale di 86 miliardi (fonte Siope), cioè un taglio dell’1,40% circa.

  3. c) per le province nel 2017, il taglio definitivo assestato di 3 miliardi sarà da rapportare alla spesa di oggi di circa 9,5 miliardi e si avrà l’incidenza mostruosa del 31% circa.


Ora, 4 miliardi diviso per una media del tutto becera di 20 regioni, significa un taglio medio di 200 milioni. Il taglio riguardante i comuni, 1,2, diviso sempre bovinamente per gli 8.100 comuni esistenti significa una media di tagli per ciascun comune di poco più di 148 mila euro. Per le province, il taglio finale di 3 miliardi, significherà 30 milioni ad ente.

Chiunque capisce la sproporzione inaccettabile della distribuzione dei tagli e si rende perfettamente conto di quanto ingiustificate siano le lagnanze di regioni e comuni.

Ma, la commedia degli equivoci vuole che presidenti delle regioni e dei comuni alzino la voce contro il Governo, così che il premier a sua volta mostri il volto duro e decisionista, molto utile alla propaganda, ingiungendo soprattutto alle regioni di iniziare “a pagare loro” visto che “le famiglie hanno già pagato”. Il ragionamento non appare di per sé molto stringente. Ma, si conferma del tutto un’operazione sofistica di sola propaganda solo considerando una cosa: il Governo, invece di “tuonare” contro i presidenti di regione ed i sindaci “cattivi” che minacciano l’incremento delle tasse, potrebbe fare una cosa semplice semplice, ma mai adottata da nessuno. Potrebbe, cioè, eliminare le addizionali Irpef che da anni comuni e regioni utilizzano ai massimi livelli, rivedere Imu-Tar-Tasi, ridurre realmente l’Irap (e non per finta, come nella legge che si sta per approvare) e, comunque, abbassare tutte le aliquote delle imposte regionali e comunali, così da non permettere davvero a regioni e comuni di agire sulla pressione fiscale.

Ma, come si nota, niente di tutto questo è previsto. In realtà, l’azione è un’immensa partita di giro, come sempre, nell’ambito della quale lo Stato riduce le proprie spese di un nonnulla e scarica sulla periferia il ruolo di gabelliere.

E in pochi notano quanto assurdo sia, in tutto questo frangente, l’intervento sulle province. Oltre a chi scrive, se n’è accorto Massimo Bordignon in La Voce.info, nel suo articolo “La manovrona”, ove scrive: “Gli interventi su enti locali e regioni sembrano altamente casuali; per esempio, si taglia a man bassa sulle province senza avere ancora deciso a chi andranno le funzioni precedentemente svolte da queste”. E non si capisce che i tagli alle province incideranno sui bilanci di regioni e comuni, se commetteranno l’azzardo di acquisire le loro funzioni, dal momento che, a differenza di quanto prevede l’articolo 119, comma 2, della Costituzione, e la stessa (per quanto inutile) legge Delrio, acquisirebbero tali funzioni ma senza disporre delle risorse finanziarie per farvi fronte.

Insomma, mentre la recita e le slide riempiono i palcoscenici, la dura realtà commette sempre l’errore di ostinarsi ad essere diversa dalla fantasia.

 

 

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