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sabato 24 ottobre 2015

Casi San Remo ed Inps. La chimera dei poteri del datore privato e della “performance”

I casi di San Remo e dei premi gonfiati ai dirigenti dell’Inps non possono non trovare spazio di riflessione.

La prima reazione, da cittadini prima ancora che da operatori, è quella dell’indignazione e della rabbia, per comportamenti immorali, prima che illeciti sul piano penale.

Ma, la reazione a caldo serve a poco. Il problema è razionalizzare e riflettere, per reperire un rimedio a questa deriva inarrestabile, che non ha poi molto di diverso dallo spaccato terribile emerso a Roma con Mafia Capitale.

Un primo tipo di reazione è quella che ha manifestato, tra gli altri, Raffaele Cantone, presidente dell’Anac, inviando ai giornali la seguente dichiarazione: “L'inchiesta sulle false assunzioni, insieme a quella sull'Anas e sull'assenteismo al comune di Sanremo, mi sembrano una storia già nota, uno spaccato inquietante dello stato della Pubblica amministrazione. Tutto questo pone la necessità di intervenire da parte della P.a. per stabilire chi non è degno di ricoprire certe cariche, cosi come prevede la Costituzione. La Pubblica amministrazione non può nascondersi dietro il principio di dover aspettare l'esito dei processi penali. Ed è forse questo il meccanismo per prevenire: dimostrare che chi sbaglia paga davvero perdendo il posto”.

Parole sante, che nessuno potrebbe non condividere. Ma, passata la piena soddisfazione di vedere dal Presidente dell’Anac pronunciare frasi così forti a giuste, occorre chiedersi se questo primo tipo di reazione, che chiede l’effettività del potere di licenziare chi sbaglia, sia utile davvero.

A questo scopo, basterebbe verificare se nell’ordinamento quanto chiede Cantone sia già contemplato. Proviamoci. Ma, prima, occorre uno sforzo di memoria. Ricordate il 2009? E il nome Renato Brunetta? Dice qualcosa?

Dovremmo rispondere di sì. E prendere in esame la novellazione apportata dal d.lgs 150/2009 al d.lgs 165/2001, arricchito di una serie di disposizioni esattamente mirate proprio all’intervento deciso e spietato nei confronti di fenomeni come quelli di San Remo.

E allora, andiamo a leggere l’articolo 55-quater del d.lgs 165/2001, rubricato, guarda un po’, “licenziamento disciplinare:

1. Ferma la disciplina in tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo e salve ulteriori ipotesi previste dal contratto collettivo, si applica comunque la sanzione disciplinare del licenziamento nei seguenti casi:

  1. a) falsa attestazione della presenza in servizio, mediante l'alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente, ovvero giustificazione dell'assenza dal servizio mediante una certificazione medica falsa o che attesta falsamente uno stato di malattia;

  2. b) assenza priva di valida giustificazione per un numero di giorni, anche non continuativi, superiore a tre nell'arco di un biennio o comunque per più di sette giorni nel corso degli ultimi dieci anni ovvero mancata ripresa del servizio, in caso di assenza ingiustificata, entro il termine fissato dall'amministrazione;

  3. c) ingiustificato rifiuto del trasferimento disposto dall'amministrazione per motivate esigenze di servizio;

  4. d) falsità documentali o dichiarative commesse ai fini o in occasione dell'instaurazione del rapporto di lavoro ovvero di progressioni di carriera;

  5. e) reiterazione nell'ambiente di lavoro di gravi condotte aggressive o moleste o minacciose o ingiuriose o comunque lesive dell'onore e della dignità personale altrui;

  6. f) condanna penale definitiva, in relazione alla quale è prevista l'interdizione perpetua dai pubblici uffici ovvero l'estinzione, comunque denominata, del rapporto di lavoro.

  7. Il licenziamento in sede disciplinare è disposto, altresì, nel caso di prestazione lavorativa, riferibile ad un arco temporale non inferiore al biennio, per la quale l'amministrazione di appartenenza formula, ai sensi delle disposizioni legislative e contrattuali concernenti la valutazione del personale delle amministrazioni pubbliche, una valutazione di insufficiente rendimento e questo è dovuto alla reiterata violazione degli obblighi concernenti la prestazione stessa, stabiliti da norme legislative o regolamentari, dal contratto collettivo o individuale, da atti e provvedimenti dell'amministrazione di appartenenza o dai codici di comportamento di cui all'articolo 54.

  8. Nei casi di cui al comma 1, lettere a), d), e) ed f), il licenziamento è senza preavviso”.


Ma c’è anche una specifica disciplina del rapporto tra procedimento penale e disciplinare:

Art. 55-ter. Rapporti fra procedimento disciplinare e procedimento penale

(articolo introdotto dall'art. 69 del d.lgs. n. 150 del 2009)

  1. Il procedimento disciplinare, che abbia ad oggetto, in tutto o in parte, fatti in relazione ai quali procede l'autorità giudiziaria, è proseguito e concluso anche in pendenza del procedimento penale. Per le infrazioni di minore gravità, di cui all'articolo 55-bis, comma 1, primo periodo, non è ammessa la sospensione del procedimento. Per le infrazioni di maggiore gravità, di cui all'articolo 55-bis, comma 1, secondo periodo, l'ufficio competente, nei casi di particolare complessità dell'accertamento del fatto addebitato al dipendente e quando all'esito dell'istruttoria non dispone di elementi sufficienti a motivare l'irrogazione della sanzione, può sospendere il procedimento disciplinare fino al termine di quello penale, salva la possibilità di adottare la sospensione o altri strumenti cautelari nei confronti del dipendente.

  2. Se il procedimento disciplinare, non sospeso, si conclude con l'irrogazione di una sanzione e, successivamente, il procedimento penale viene definito con una sentenza irrevocabile di assoluzione che riconosce che il fatto addebitato al dipendente non sussiste o non costituisce illecito penale o che il dipendente medesimo non lo ha commesso, l'autorità competente, ad istanza di parte da proporsi entro il termine di decadenza di sei mesi dall'irrevocabilità della pronuncia penale, riapre il procedimento disciplinare per modificarne o confermarne l'atto conclusivo in relazione all'esito del giudizio penale.

  3. Se il procedimento disciplinare si conclude con l'archiviazione ed il processo penale con una sentenza irrevocabile di condanna, l'autorità competente riapre il procedimento disciplinare per adeguare le determinazioni conclusive all'esito del giudizio penale. Il procedimento disciplinare è riaperto, altresì, se dalla sentenza irrevocabile di condanna risulta che il fatto addebitabile al dipendente in sede disciplinare comporta la sanzione del licenziamento, mentre ne è stata applicata una diversa.

  4. Nei casi di cui ai commi 1, 2 e 3 il procedimento disciplinare è, rispettivamente, ripreso o riaperto entro sessanta giorni dalla comunicazione della sentenza all'amministrazione di appartenenza del lavoratore ovvero dalla presentazione dell'istanza di riapertura ed è concluso entro centottanta giorni dalla ripresa o dalla riapertura. La ripresa o la riapertura avvengono mediante il rinnovo della contestazione dell'addebito da parte dell'autorità disciplinare competente ed il procedimento prosegue secondo quanto previsto nell'articolo 55-bis. Ai fini delle determinazioni conclusive, l'autorità procedente, nel procedimento disciplinare ripreso o riaperto, applica le disposizioni dell'articolo 653, commi 1 ed 1-bis, del codice di procedura penale”.


Come si dimostra, esistono norme chiarissime che rispondono totalmente alle sollecitazioni di Cantone. E’ perfettamente possibile per le amministrazioni licenziare senza preavviso (potremmo dire “in tronco”) esattamente per l’assenteismo e le timbrature false, così come è altrettanto ammesso licenziare senza attendere gli esiti del procedimento penale.

La reazione proposta dal presidente dell’Anac, dunque, si rivela piuttosto fine a se stessa o solo intesa ad acquisire facili consensi nell’opinione pubblica, senza produrre nulla di nuovo e diverso, che possa aiutare alla prevenzione di simili fatti.

Una seconda tipologia di reazione è: individuare i dirigenti, che non possono non essersi accorti di quanto avveniva ed agire nei loro confronti, in quanto il pesce puzza dalla testa.

Anche in questo caso si tratta un’idea che merita solo convinta e totale condivisione, ineccepibile in ogni suo risvolto.

Detto questo, anche questa seconda reazione risulta del tutto sterile se non accompagnata da una riflessione propositiva.

Qui si impone di uscire definitivamente dall’equivoco del modello di dirigenza che si vuole.

Non conoscendo adeguatamente i fatti di San Remo (comune, comunque, noto da sempre per l’estrema difficoltà ad amministrarlo, dovuto ad una serie di cause storiche), non è possibile pronunciare né giudizi, né valutazioni in merito.

Sta di fatto che proprio la riforma Brunetta, in linea anche con le riforme degli ultimi 20 anni, ha inciso nella disciplina della dirigenza puntando alla valorizzazione del dirigente visto come privato datore di lavoro.

Una scelta corretta, che vorrebbe il dirigente astrarsi abbastanza dalla gestione corrente, per interessarsi in grandissima parte del funzionamento del meccanismo. Ma è proprio qui che si determina il cortocircuito che, nei casi patologici, rivela l’inefficacia delle norme esistenti.

Il dirigente non può materialmente essere l’arcigno datore di lavoro, che osserva costantemente dall’alto se e quando qualcuno timbra o si assenta dal posto di lavoro, non perché ciò non sia possibile e doveroso, ma perché questa funzione di controllo e di organizzazione risulta vanificata e ridotta ai minimi termini da una serie di fattori. Primo tra tutti quello per cui, soprattutto negli enti locali, il dirigente è chiamato ad una serie costante di adempimenti correnti non così diffusa ed ampia in altre amministrazioni: adotta una quantità enorme di atti, cura la conclusione di altrettanti procedimenti adottando i provvedimenti finali, è chiamato a relazionarsi costantemente con gli organi di governo per la traduzione in gestione degli indirizzi.

L’attività materiale, anche banale se si vuole, di controllo sulla regolarità delle timbrature diventa impossibile, specie se, come a San Remo, le sedi operative sono decine e soprattutto laddove esistano uffici con uno solo o pochissimi dipendenti: in questi casi, l’isolamento finisce per favorire un’interpretazione delle obbligazioni connesse al lavoro pericolosamente “personale”, fino a far timbrare in vestaglia o mutande.

Non secondariamente, è inutile tenere la maschera: vi sono ancora moltissime amministrazioni locali, nelle quali tanti, troppi dipendenti accedono al “protettorato” di determinati partiti o esponenti politici locali, così da sentirsi “intoccabili” nelle loro posizioni, comprendendo in esse anche il presunto diritto di andare a far sport in orario di lavoro. Questi stessi protettori o vertici politici sono quelli, poi, che influenzano in modo spesso decisivo i sindaci nell’attribuzione degli incarichi dirigenziali esattamente a soggetti, a loro volta di “stretta osservanza”, che possono rivelarsi conniventi col “sistema”.

E’ di evidenza palpabile che il dirigente datore di lavoro deve essere messo nelle condizioni di svolgere davvero questo ruolo, senza alcun tema di ingerenza della politica e del “sistema” eventualmente esistente (ed essendo quasi 200 i soggetti coinvolti a San Remo, non si può fare a meno di pensare che un sistema esista).

Questo dirigente, allora, non dovrebbe ricavare il proprio incarico dalla politica; dovrebbe poter dedicare maggiore tempo e risorse alla vigilanza dell’operato dei propri dipendenti ed alla predisposizione di misure di prevenzione del rischio, come la chiusura di uffici con 1, 2 o 3 dipendenti, accorpandoli in altre sedi, senza che il politico di turno intervenga per mettere in discussione simili misure. E, soprattutto, il dirigente dovrebbe essere messo in condizione di adottare misure di prevenzione del rischio connesse al rischio, senza passare sotto le forche caudine di miriadi di adempimenti parcellizzati e puntiformi, come quelli imposti dal Moloch della normativa anticorruzione. Il risultato della legge 190/2012 e dei suoi aggregati (legge sulla trasparenza (d.lgs 33/2013), piano nazionale anticorruzione, piano locale anticorruzione, codice di comportamento (dpr 62/2013), si rivelano per lo più un obbligo di produrre immani documenti ed atti, la cui efficacia si dimostra, poi, estremamente discutibile.

Alla data del 24 ottobre campeggia sulla homepage del comune di San Remo un avviso per assumere un dirigente a contratto; l’esatto opposto di quello che occorre in un’amministrazione pubblica sana, nella quale la dirigenza risulti davvero indipendente dalla politica e soggetta alle leggi dell’efficienza e del buon andamento, prima ancora che alla legalità. Ma, d’altra parte, la stessa riforma-Madia, la legge 124/2015, delinea una dipendenza totale della dirigenza dalla politica, tale da vanificare qualsiasi prevenzione del rischio di mala amministrazione e da rendere la perifrasi del “dirigente privato datore di lavoro” un pio desiderio, se non un vero e proprio inganno.

Sempre sul sito del Comune è ben presente e molto popolato il link “Amministrazione trasparente” che, per esempio, nel mese di marzo 2015 rivela un tasso di assenza dei dipendenti del 17,76%; c’è naturalmente un piano triennale per la prevenzione della corruzione di 72 pagine con ampio spazio al whistelblower, il dipendente che dovrebbe informare di “storture” a sua conoscenza”; esiste ovviamente un codice di comportamento nel quale si stabilisce che “Il dipendente non abbandona il proprio posto di lavoro anche per periodi brevi, fatte salve ragioni imprescindibili, qualora il proprio allontanamento provochi l’assenza completa di custodia di uffici o aree in quel momento accessibili da parte degli utenti. Il dipendente è comunque tenuto ad informare i propri responsabili della necessità di abbandono temporaneo del posto di lavoro” e che “E’ a carico del responsabile diretto la verifica dell’osservanza delle regole in materia di utilizzo dei permessi di astensione dal lavoro nonché del corretto utilizzo del sistema informatico di certificazione delle presenza (badge di timbratura)”.

E’ evidente che di questa profusione di regole quella che ha, probabilmente, funzionato è solo quella della denuncia da parte di qualche dipendente, utile per scoperchiare il sistema ed avviare l’inchiesta sfociata nei provvedimenti giudiziari di cui parlano le cronache. Altrettanto evidente è che senza l’intervento della magistratura, il sistema, così come concepito, non è in grado, almeno non ovunque, di autoregolamentarsi e ridurre davvero il rischio, perché i poteri operativi del “dirigente privato datore di lavoro” sono debolissimi e resi ancor più deboli da una pervasività della politica molto forte. Questo, ovviamente, al netto del comportamento spregevole del singolo dipendente assenteista,

Una terza reazione è rilanciare l’idea della valutazione della performance come strumento di controllo e valorizzazione.

Quanto accaduto all’Inps, se sarà dimostrato, dimostra come anche questa visione risulti tra il velleitario ed il demagogico. In primo luogo, perché manca del tutto, ancora, uno strumento di valutazione della resa di servizi e di individuazione dei prodotti.

In secondo luogo, perché, come dimostra il caso Inps, anche laddove esista una monumentale strumentazione formale della valutazione come appunto accade presso l’Istituto, la forma riesce talmente a prevalere sulla sostanza, che basta alterare un po’ il dato caricato nel sistema informatico, ed improvvisamente tutto diviene efficiente e produttivo.

A proposito della valutazione, appare il caso di ritornare su un tasto più volte battuto da parte di chi scrive: l’esempio del Tribunale di Torino. Anni addietro gli uffici del tribunale torinese vennero citati da tutta la stampa come esempio di grandi capacità di programmazione della performance e di estrema efficienza. L’obiettivo tanto magnificato era, però, il recupero dell’arretrato. Cosa sacrosanta, per carità. Ma, è ammissibile ritenere uno straordinario progetto di efficienza l’andare da sottozero a zero? E’ meritevole di premio?

E, soprattutto, la pubblica amministrazione agisce per la sua stessa ragione di essere, a beneficio (escludendo ovviamente i casi patologici) dei cittadini e delle imprese. Dunque, per quale ragione occorrerebbe “premiare” chi adempie al suo dovere? Ma, se un comune termina un’opera pubblica entro la scadenza prevista, oppure se fornisce alle scuole banchi e cattedre prima dell’inizio dell’anno scolastico, o se organizza la fila agli sportelli in modo che non si perdano più di 10 minuti e, ancora, se paghi nei termini fissati dalle direttive europee o concluda i procedimenti entro le scadenze previste, sta dando “valore aggiunto”, oppure sta semplicemente compiendo il proprio dovere?

Dietro alla performance vi è l’altra illusione di poter davvero pensare che la macchina pubblica sia in tutto assimilabile all’organizzazione privata. E’, invece, un corpo diverso, peculiare, nel quale si agisce per dovere civico.

Se un dipendente timbra e prende davvero servizio, se è cortese col pubblico, se svolge le pratiche con competenza e puntualità, se un dirigente progetta sistemi organizzativi efficienti e produce atti capaci di tradurre in termini concreti gli indirizzi politici, stanno semplicemente compiendo il loro dovere. Non si capisce, a ben vedere, la ratio. Dovrebbero essere il senso civico appunto, la missione, la comprensione del ruolo di civil servant il vero premio.

Invece, le sovrastrutture ideologiche di una mala intesa e mal concepita “aziendalizzazione” finiranno, domani, per far percepire che sia magari sufficiente a percepire il premio una timbratura accompagnata dalla mera presenza fisica in servizio.

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