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sabato 17 ottobre 2015

Spiccioli per i dipendenti pubblici. Qualcuno resta davvero sorpreso?

E’ sempre troppo autoreferenziale ed antipatico citare se stessi, è vero e ce ne scusiamo. Solo che è il modo di governare proprio di questi anni che induce chi intende commentare norme, sentenze ed ordinamento, senza volere fare propaganda, ad intraprendere il ruolo di aruspice. E’, dunque, in parte corretto anche rendere conto degli esiti delle predizioni e dei vaticini che si dispensano a piene mani.

Oggettivamente, si ammette che si tratta di un gioco nel quale “piace vincere facile”. Perché predire le decisioni del Governo e del Parlamento in merito a determinati problemi risulta assolutamente semplice e scontato.

Allora, entriamo nel merito. Il disegno di legge di stabilità 2016 stanzia per i rinnovi contrattuali della PA 300, anzi, 200 milioni. Cifra che divisa per tutti i 3,2 milioni di dipendenti assicura un incremento procapite mensile medio di 5,21 euro lordi. Per carità, utili certamente ad accumulare i 3000 euro che si potranno spendere in contanti, specie se vi aggiungeremo i 13 euro risparmiati sulla bolletta elettrica e i 220 euro medi (annui) derivanti dall’eliminazione di Imu-Tasi sulle prime case.

Tuttavia, i sindacati insorgono, stupiti dall’esiguità della mancia, sentendosi defraudati e traditi dal Governo, specie dopo la sentenza della Corte costituzionale 178/2015, che ha considerato (non retroattivamente) incostituzionale il blocco della contrattazione imposto dal d.l. 78/2010, che ancora dura.

Ma, è da chiedersi, seriamente i sindacati pensavano che sarebbero partite delle trattative fondate su uno stanziamento credibile, per attivare la nuova stagione contrattuale, visto che nel corso degli ultimi 9 anni la spesa del personale pubblico è l’unica voce che si realmente ridotta?

Non era fin troppo semplice attendersi dal Governo un’attuazione di semplice facciata della decisione della Consulta, esattamente come avvenuto per l’altra sentenza sul blocco dell’indicizzazione delle pensioni?

Era semplicissimo. Infatti, chi scrive ebbe gioco facile a predirlo su La Settimana degli Enti Locali n. 23/2015. Pare utile riprodurre qui il contenuto dell’articolo, risalente allo scorso giugno 2015:

Blocco della contrattazione? Incostituzionalità a futura memoria

 

Dunque, il blocco della contrattazione è incostituzionale, ma solo per il futuro. La sentenza annunciata dal comunicato stampa dello scorso 18 giugno dalla Consulta somiglia un po’ allo slogan canzonatorio che spesso si vede nei bar ed esercizi commerciali: “oggi non si fa credito. Domani sì”.

Non c’erano troppi dubbi sulla circostanza che la Consulta non avrebbe riconosciuto l’incostituzionalità piena e vera, che è solo quella retroattiva, del blocco della contrattazione.

Sconcerta solo il modo col quale i giudici costituzionali siano giunti alla decisione, mediante una sorta di sentenza “geneticamente modificata”, che dichiara l’incostituzionalità a futura memoria.

La Consulta poteva senz’altro riconoscere la legittimità costituzionale delle decisioni di politica economica dello Stato datore di lavoro di non presentarsi al tavolo della contrattazione, per contenere i costi di una voce che incide per il 20% del totale della spesa pubblica.

Invece, si è adottata una decisione in punto di diritto molto dubbia: l’incostituzionalità non retroattiva.

Non è la prima volta, si dirà. Ma solo di recente la Consulta ha sperimentato questo nuovo genere di sentenze senza che nessuno spieghi come sia possibile che una norma incostituzionale, come tale, dunque, priva della possibilità stessa di radicarsi nell’ordinamento sin dalla sua genesi, possa pur tuttavia conservare efficacia fino alla pubblicazione della sentenza.

Un controsenso giuridico, molto utile per sentenze che si connotino fortemente sul piano politico, come è questa riguardante il blocco della contrattazione pubblica.

Troppo duro sarebbe stato il colpo nei confronti dei sindacati e di una parte molto consistente del blocco sociale che assicura consenso e voti al partito di maggioranza, se la questione di legittimità costituzionale fosse stata respinta. Troppo clamoroso sarebbe stato lo scontro col Governo, se fosse stata accolta, al di là del balletto delle cifre sui costi, caratterizzato dall’inconcepibile onere di 35 miliardi stimato in modo da instillare terrorismo mediatico dall’Avvocatura dello Stato, come se la contrattazione, nei 6 anni di blocco, avesse potuto assicurare ai dipendenti incrementi annui lordi di circa 6 miliardi l’anno, 2000 euro pro capite l’anno.

Dunque, la “salomonica” decisione dell’incostituzionalità sì, ma “dopo”, con calma. Arzigogolo giuridico di un ordinamento giuridico sempre più in crisi, nel quale le geometrie e le connessioni si trasformano sempre più dal mosaico perfetto, alla pittura informale alla Pollock.

Che si tratti di un arzigogolo lo dimostra la prova inconfutabile che anche se per effetto della sentenza si ponesse l’obbligo a contrattare in capo allo Stato, nessun simmetrico obbligo di prevedere aumenti stipendiali potrebbe determinarsi.

Proprio le esigenze di finanza pubblica potrebbero ben fondare direttive generali di governo, tali da non stanziare nemmeno un euro per la tornata di contrattazione. La forma, allora, sarebbe rispettata: il contratto si fa o si tenta di fare. La sostanza, il blocco degli stipendi, resterebbe. E legittimamente, perché un datore di lavoro può avere tutto il diritto di compiere scelte finanziarie sul costo del lavoro.

Sarebbe stato più corretto, allora, non pronunciare un’incostituzionalità che sa di beffa o di garbuglio da dottor sottile. Di bizantinismi l’ordinamento, soprattutto in questa fase, davvero non dovrebbe sapere cosa farsene.

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