Pagine

sabato 30 gennaio 2016

Riforma delle province bocciata dalla Consulta

 

La sentenza 10/2016, anche se riferita a leggi regionali del Piemonte è un vero e proprio atto di accusa contro il metodo dei tagli indiscriminati del Governo






 

La riforma delle province, ma soprattutto il prelievo forzoso indiscriminato imposto ai loro bilanci dalla scriteriata legge 190/2014 è incostituzionale.

La sentenza della Corte costituzionale 29 gennaio 2016, n. 10, anche se riferita ad una serie di norme della regione Piemonte[1] è un vero e proprio atto d’accusa contro la riforma delle province sciaguratamente disposta da Governo e Parlamento.

Tutte le considerazioni svolte dalla Consulta, infatti, si possono (e devono) ribaltare simmetricamente in particolare sulla legge 190/2014, che ha cagionato al sistema delle province guasti devastanti e irrimediabili. Ma, soprattutto, ha infierito sui cittadini, privati dei servizi pubblici efficienti, cui hanno diritto.

Chi scrive, ha avuto moltissime altre occasioni per rilevare come la dissennata riforma delle province secondo l’idea di chi l’ha pensata ed attuata ha “colpito” questi enti e la loro compagine politica, allo scopo di dimostrare che si possono ridurre “i costi della politica” e la spesa pubblica, così da diminuire le tasse, mentre invece si sono solo conculcati i diritti dei cittadini. Il diritto all’elettorato attivo, per esempio, visto che i rappresentanti politici delle province sono ora frutto di un’elezione di secondo grado sottratta al popolo ed assegnata ai sindaci ed ai consiglieri comunali. Ma, soprattutto, il diritto ad ottenere i molteplici servizi dei quali le province sono state rese competenti negli anni: programmazione, manutenzione delle strade, delle scuole, politiche attive del lavoro, attività di formazione, servizi didattici e di aiuto agli allievi affetti da disabilità sensoriali, figli riconosciuti da un solo genitore e decine e decine di altri ancora; solo superficialità e sostanziale ignoranza dell’assetto delle competenze delle amministrazioni pubbliche può far affermare che le province non servono a nulla, perché non “fanno nulla di utile”.

La dimostrazione è data proprio dalla sentenza della Consulta 10/2016, assolutamente tranciante sul tema. Essa ha considerato fondate tutte le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalle province piemontesi ricorrenti contro le leggi regionali, fonti di tagli indiscriminati e immotivati dei finanziamenti loro destinati e cioè:

  1. violazione degli artt. 117 e 119 Cost. per lesione dell’autonomia finanziaria, ridondante sul principio di buon andamento di cui all’art. 97 Cost., in quanto lesiva del principio di programmazione e di proporzionalità tra risorse assegnate e funzioni esercitate;

  2. violazione del principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. per l’entità della riduzione in assenza di misure riorganizzative o riallocative di funzioni;

  3. violazione del principio di uguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, secondo comma, Cost. per il pregiudizio alla fruizione dei diritti sociali causato dal mancato finanziamento dei servizi.


Si tratta di tre questioni rilevantissime, poste a rivelare la profondità della ferita e dell’offesa all’ordinamento costituzionale causate da leggi regionali accanitesi in manovre finanziarie penalizzanti per le province. Ma, la terza è quella decisiva, che mette in evidenza come la regione Piemonte, certo, ma soprattutto Governo e Parlamento nei riguardi di tutte le province italiane, con la riduzione forzosa del volume di spesa delle province del 33% (percentuale che se fosse stata applicata alla spesa dello Stato saremmo fuori da tempo dai problemi di finanza pubblica), non abbia colpito solo gli “enti”, bensì i cittadini. Infatti, sono stati pregiudicati i servizi, senza una benchè minima idea lontanamente funzionale sul come redistribuire le competenze e finanziare i servizi.

In quanto alla lesione dell’autonomia finanziaria derivante dalla scriteriata normativa regionale piemontese, la Consulta non fa giri di parole: “Come si evince dalla progressione storica degli stanziamenti precedentemente illustrata, rispetto all’importo “consolidato” di 60 milioni relativo all’esercizio 2010 (e rimasto sostanzialmente invariato nel 2011), si sono avute riduzioni del 33,33% nell’esercizio 2012, del 64,89% nell’esercizio 2013, dell’82% nell’esercizio 2014 (percentuale poi rideterminata al 65,62% a seguito del censurato assestamento di bilancio). Il citato quadro finanziario, in quanto non accompagnato da adeguate misure di riorganizzazione o di riallocazione delle funzioni, risulta decisivo per ritenere fondati i richiamati profili di censura”.

La sovrapponibilità di queste considerazioni alla legge 190/2014 è totale.

Come rilevato prima, questa legge ha imposto un prelievo forzoso di 3 miliardi a partire dal 2017 nei confronti di un comparto la cui spesa, per effetto delle manovre finanziarie attivate già dal 2011, quando l’onda lunga della crociata populistica contro le province si era particolarmente rafforzata, si era assestata nel 2013 a 10 miliardi, contro i 12 del 2011. Dunque, in pochissimo tempo, il volume di spesa complessivo (tra corrente e in conto capitale) per le province passa da 12 miliardi a 7 miliardi: un taglio complessivo del 41,67%! Al quale, aggiungere, al livello territoriale, anche i tagli decisi da ciascuna regione. Il Piemonte, infatti, non è stato affatto la sola regione a falcidiare i trasferimenti alle province per le funzioni ad esse conferite con le norme regionali di attuazione della legge 59/1997 e del d.lgs 112/1998: anche la regione Veneto, per esempio, si è particolarmente segnalata sotto questo aspetto.

Risulta innegabile che, come per il Piemonte, la legge 190/2014 non abbia previsto “adeguate misure di riorganizzazione o di riallocazione delle funzioni”. Pochi elementi da ricordare per dimostrarlo:

  1. la legge 56/2014 aveva stabilito che le funzioni non fondamentali sarebbero passate dalle province ai nuovi enti di destinazione, insieme con tutte le dotazioni di personale, strumentali e finanziarie; la legge 190/2014 ha reso impossibile questa sorta di trasferimento di ramo d’azienda, imponendo il prelievo forzoso di 3 miliardi, che ha fatto saltare per aria le finanze delle province, tanto che 69 delle 107 non hanno rispettato il patto di stabilità nel 2015, 3 sono in dissesto e 1,2 sono i miliardi di deficit generato;

  2. la legge 190/2014 non è stata in grado di ridisegnare l’assetto dei dipendenti provinciali; pur in un quadro generale nel quale i comuni, come i tribunali e gli ispettorati del lavoro (per fermarsi a queste amministrazioni) evidenziano estesissime e drammatiche carenze di organico, la legge non è stata in grado di individuare le carenze prima ed attivare le mobilità poi. Tanto che ancora a febbraio il processo è ancora in corso. Né, comunque, il personale provinciale sarà riallocato in coerenza con l’esercizio delle funzioni provinciali. Per altro, dei 5300 addetti ai servizi per il lavoro (scesi verticalmente dai 7500 censiti ancora nel 2009) si sa che resteranno addetti a questi servizi, ma non si sa presso quale ente;

  3. talmente i prelievi forzosi sono stati irragionevoli e dannosi, che il Governo e il Parlamento sono dovuti intervenire con toppe rivelatrici del buco, come l’autorizzazione alle province ad approvare bilanci di previsione solo annuali (nell’impossibilità di ottenere un equilibrio finanziario nel triennio), oppure nell’affannosa ricerca di ridurre l’impatto del prelievo forzoso con la rinegoziazione dei mutui, oppure col processo di vendita dei beni immobili all’Invimit (che si concluderà tra anni, se tutto andrà bene), oppure con la previsione di vere e proprie “elemosine” di Stato per sostenere in minima parte servizi che le province non sono più in grado di erogare: si pensi alle poche decine di euro destinate appunto ai disabili sensoriali da aiutare nello studio scolastico.


Cosa succede con tagli così indiscriminati e nell’assenza di un disegno di riordino che abbia un minimo di approfondimento, studio, tempo di attuazione e credibilità? Ce lo ricorda ancora la sentenza 10/2016, con un passaggio che, nuovamente, anche se riferito alle leggi della regione Piemonte appare riferito alla legge 190/2014: “Quanto alle questioni sollevate in riferimento agli artt. 117, 119 e 97 Cost., l’entità della riduzione delle risorse necessarie per le funzioni conferite alle Province piemontesi si riverbera sull’autonomia di queste ultime, entrando in contrasto con detti parametri costituzionali, nella misura in cui non consente di finanziare adeguatamente le funzioni stesse. La lesione dell’autonomia finanziaria si riflette inevitabilmente sul buon andamento dell’azione amministrativa in quanto la diminuzione delle risorse in così elevata percentuale, «in assenza di correlate misure che ne possano giustificare il dimensionamento attraverso il recupero di efficienza o una riallocazione di parte delle funzioni a suo tempo conferite» (sentenza n. 188 del 2015), costituisce una menomazione della autonomia stessa, che comporta contestualmente un grave pregiudizio all’assolvimento delle funzioni attribuite in attuazione della legge n. 59 del 1997, e delle altre disposizioni statali e regionali in tema di decentramento amministrativo”.

Qui la Consulta inizia ad affrontare il vero tema. L’accanimento contro le province, da sbandierare con le interviste sui giornali o le comparsate nei talk show, ha realmente apportato pregiudizio allo svolgimento delle funzioni pubbliche. Ma, questo pregiudizio non colpisce i presidenti delle province o i consiglieri o gli organi o, comunque, l’organizzazione di detti enti (certo, messi comunque duramente alle strette, dovendo affrontare senza risorse una riforma convulsa e fallimentare), bensì direttamente i cittadini.

Governo e Parlamento avevano raccontato ai cittadini che grazie alla riforma delle province avrebbero pagato meno tasse e ricevuto servizi migliori.

Nulla di tutto questo. I 3 miliardi famosi, come affermato prima, non sono un “taglio” alla spesa pubblica delle province, bensì un prelievo forzoso, l’obbligo, cioè imposto alle province di “girare” allo stato gran parte del gettito dell’imposizione fiscale provinciale, che è rimasta esattamente come prima. Dunque, per i cittadini non si è manifestata alcuna riduzione di imposte, mentre i 3 miliardi (2 nel 2016) sono raccolti dalle province, ma spesi dallo Stato.

In tutto questo, i servizi non sono affatto migliorati, ma sono stati letteralmente devastati e conculcati: scuole senza riscaldamento, strade colabrodo, valutazioni di impatto ambientale infattibili per mancanza di mezzi e di tecnici, corsi di formazione professionale che chiudono, trasporto dei disabili che riduce le corse, niente arredi per le scuole, allievi disabili sensoriali senza più un aiuto allo studio e al reinserimento sociale.

E, infatti, precisa la Consulta “In assenza di adeguate fonti di finanziamento a cui attingere per soddisfare i bisogni della collettività di riferimento in un quadro organico e complessivo, è arduo rispondere alla primaria e fondamentale esigenza di preordinare, organizzare e qualificare la gestione dei servizi a rilevanza sociale da rendere alle popolazioni interessate. In detto contesto, la quantificazione delle risorse in modo funzionale e proporzionato alla realizzazione degli obiettivi previsti dalla legislazione vigente diventa fondamentale canone e presupposto del buon andamento dell’amministrazione, cui lo stesso legislatore si deve attenere puntualmente”.

Se un dato emerge con chiarezza assoluta dal pastrocchio della riforma delle province è proprio questo: la legge 190/2014 ha manifestamente violato il canone e presupposto del buon andamento dell’amministrazione per aver quantificato le risorse delle province in modo disfunzionale e mal proporzionato agli obiettivi posti dalla legislazione.

Tanto da aver indotto il Parlamento ad adottare una disposizione, il d.l. 78/2015, convertito nella legge 125/2015, che ha scaricato dallo Stato, (che “intasca” i 3 miliardi sottratti alle province determinando il medesimo vulnus creato dalla regione Piemonte agli enti del proprio territorio) alle regioni l’onere della spesa da sostenere per lo svolgimento delle funzioni provinciali.

Troppo tardi il Legislatore si è accorto che le province qualcosa facevano e fanno, che, dunque, la narrazione superficiale, becera e populista di troppi articoli ed inchieste era ingannevole, falsa ed infondata, ma non ha inteso fare ammenda. Ha messo le regioni sotto ricatto, imponendo loro di accollarsi la spesa necessaria per l’erogazione dei servizi. Alcune regioni hanno provveduto, altre no, altre ancora hanno riassunto le funzioni provinciali o le hanno mantenuto alle province, ma finanziandole solo parzialmente. Il che riapre una partita che, regione per regione, potrebbe portare ad un contenzioso costituzionale incontrollabile, per quanto dall’esito scontato, almeno stando alle pronunce 188/2015 e 10/2016 della Consulta.

Nel frattempo, restano i cittadini a subire, e subiranno a lungo, gli effetti deleteri di una riforma pasticciata e improvvida. La Consulta è chiara: “la forte riduzione delle risorse destinate a funzioni esercitate con carattere di continuità ed in settori di notevole rilevanza sociale risulta manifestamente irragionevole proprio per l’assenza di proporzionate misure che ne possano in qualche modo giustificare il dimensionamento”.

Un simile modo di legiferare, di riformare, di incidere negativamente sulle prestazioni sociali mina il patto tra cittadini e Stato. Tanto che la sentenza 10/2016 chiosa: “L’art. 3 Cost. è stato ulteriormente violato sotto il principio dell’eguaglianza sostanziale a causa dell’evidente pregiudizio al godimento dei diritti conseguente al mancato finanziamento dei relativi servizi. Tale profilo di garanzia presenta un carattere fondante nella tavola dei valori costituzionali e non può essere sospeso nel corso del lungo periodo di transizione che accompagna la riforma delle autonomie territoriali”.

La devastante riforma delle province, in qualche modo anticipata, in Piemonte (ma non solo) da improvvide leggi regionali, dunque ha dato vita ad un periodo di transizione, di vero e proprio vuoto, che lede il principio fondamentale di eguaglianza dei cittadini, pregiudicandone il diritto di cittadinanza e di accesso ai servizi.

Che la Consulta parli al legislatore piemontese, ma si rivolga in particolare al Governo e al Parlamento, infine, lo dimostra l’ultimo passaggio: “Questa Corte non ignora il processo riorganizzativo generale delle Province che potrebbe condurre alla soppressione di queste ultime per effetto della riforma costituzionale attualmente in itinere. Tuttavia l’esercizio delle funzioni a suo tempo conferite – così come obiettivamente configurato dalla legislazione vigente – deve essere correttamente attuato, indipendentemente dal soggetto che ne è temporalmente titolare e comporta, soprattutto in un momento di transizione caratterizzato da plurime criticità, che il suo svolgimento non sia negativamente influenzato dalla complessità di tale processo di passaggio tra diversi modelli di gestione”.

Un vero e proprio, clamoroso, atto di accusa contro la riforma nel suo complesso, realizzata come se incidendo sulle province in vista della loro abolizione, i servizi da queste erogati potessero sparire nel nulla senza conseguenze.

La riforma avrebbe dovuto, prima ancora di agire sugli enti, salvaguardare i servizi da rendere ai cittadini appunto “indipendentemente dal soggetto che ne è temporaneamente titolare”.

Questo è il vulnus, l’imperdonabile errore di chi ha varato la riforma e di chi la sostiene anche in dottrina. Non si tratta di difendere l’ente provincia, non è questo quello che importa. Sebbene l’articolo 5 della Costituzione vincoli lo Stato a mantenere in essere le province, che ha “riconosciuto” in quanto a sé preesistenti, nulla vieta che l’assetto ordinamentale rinunci all’ente intermedio (esistente in tutti i Paesi occidentali avanzati, comunque) sia modificato. Nulla, invece, consente che ciò sia perpetrato attraverso norme sommarie, frettolose, mal scritte, mal pensate, male attuate, che lungi dal rivedere l’assetto, abbiano ignorato le complessità del passaggio da un sistema ad un altro, ed abbiano di fatto negato l’erogazione dei servizi. Questi dovevano essere al centro dell’attenzione, non gli enti province e nemmeno il personale coinvolto. La riforma doveva partire dall’idea di dove, come e quando riassegnare i servizi e, solo dopo, partire con le necessarie rilevazioni contabili e finanziarie. La ricollocazione del personale sarebbe venuta da sé, senza le assurde disfunzioni dell’intero 2015, culminate nel ridicolo malfunzionamento della piattaforma per la mobilità del dicembre sempre del 2015.

I cittadini non avrebbero nemmeno dovuto accorgersi se un determinato servizio invece che essere reso da un ente chiamato provincia, fosse stato erogato da un ente diverso. Invece, sono stati subissati di proclami populisti e vuoti, mentre venivano privati di servizi e diritti, continuando, però, a pagare le stesse tasse di prima. Questo, comunque, non è solo incostituzionale. E’ semplicemente intollerabile, manifestamente erroneo, ingiustificabile in un assetto civile.

 

 

 

 

[1] La sentenza dichiara l’illegittimità costituzionale:

  • dell’art. 1, comma 1, della legge della Regione Piemonte 5 febbraio 2014, n. 1 (Legge finanziaria per l’anno 2014), in combinato disposto con l’Allegato A della medesima legge regionale, relativamente all’unità previsionale di base UPB DB05011, capitolo 149827, nella parte in cui non consente di attribuire adeguate risorse per l’esercizio delle funzioni conferite dalla legge della Regione Piemonte 20 novembre 1998, n. 34 (Riordino delle funzioni e dei compiti amministrativi della Regione e degli Enti locali) e dalle altre leggi regionali che ad essa si richiamano;

  • degli artt. 2, commi 1 e 2, e 3 della legge della Regione Piemonte 5 febbraio 2014, n. 2 (Bilancio di previsione per l’anno finanziario 2014 e bilancio pluriennale per gli anni finanziari 2014-2016), in combinato disposto con l’Allegato A della medesima legge regionale, relativamente all’unità previsionale di base UPB DB05011, capitolo 149827, nella parte in cui non consentono di attribuire adeguate risorse per l’esercizio delle funzioni conferite dalla legge reg. Piemonte n. 34 del 1998 e dalle altre leggi regionali che ad essa si richiamano;

  • dell’art. 1 della legge della Regione Piemonte 1° dicembre 2014, n. 19 (Assestamento al bilancio di previsione per l’anno finanziario 2014 e disposizioni finanziarie), in combinato disposto con l’Allegato A della medesima legge regionale, relativamente all’unità previsionale di base UPB DB05011, capitolo 149827, nella parte in cui non consente di attribuire adeguate risorse per l’esercizio delle funzioni conferite dalla legge reg. Piemonte n. 34 del 1998 e dalle altre leggi regionali che ad essa si richiamano.

Nessun commento:

Posta un commento