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sabato 26 marzo 2016

Addio al patto di stabilità a competenza mista. Ma non basta al rilancio dell’autonomia

Il Governo ha approvato nei giorni scorsi il disegno di legge per la modifica delle regole di finanza pubblica, da seguire a regime dal 2017 in poi, così da stabilizzare quanto già previsto dalla legge 208/2015 per l’anno 2016.
L’intenzione è di abbandonare una volta e per sempre la micidiale “competenza mista” che caratterizzava il patto di stabilità, nonché i suoi numerosi ed articolati saldi, passati prima da 8 a 4 e, con la riforma, finalmente azzerati.

Dunque, nel rispetto di banalissime regole finanziarie, la regola nuova sarà il semplicissimo pareggio di bilancio per la sola parte di competenza e non di cassa, in modo che entrate finali e spese finali siano in pareggio, sia in fase di previsione, sia in fase di rendiconto.
Ci sono voluti 10 anni per rendersi conto che il patto di stabilità a competenza mista era una regola al limite della follia e dagli effetti devastanti per l’economia. Infatti, per un verso ha contribuito al rallentamento dei pagamenti di 8100 enti locali nei confronti delle imprese, dal momento che la cassa entrava nel gioco dei pareggi mischiata alla competenza; per altro verso, ha bloccato gli investimenti, dal momento che anche le previsioni di spesa in conto capitale incidevano negativamente sui saldi.
Occorre dare atto al premier di aver, in questo caso, dimostrato coerenza. Sin da quando era presidente della provincia e poi sindaco a Firenze chiamava le regole che ingabbiavano i comuni “patto di stupidità”, impegnandosi a modificarlo radicalmente. Bene, benissimo, dunque, che si vada realmente verso questa riforma.
Tuttavia, non appare il caso di farsi prendere dall’entusiasmo, come hanno fatto in coro praticamente tutti i quotidiani del 26 marzo scorso, imbeccati in particolare dall’Anci.
In primo luogo, occorre essere consapevoli che la riforma è solo nella sua primissima fase: l’approvazione dell’iniziativa legislativa da parte del Governo. Non si tratta di un decreto, ma di un disegno di legge ordinaria, che per altro richiede la maggioranza qualificata del Parlamento della metà più uno. Si tratta di uno scoglio non da poco, considerando quanto raccogliticcia sia la maggioranza in Senato. I tempi, dunque, non saranno brevi. Il traguardo probabilmente sarà raggiunto, ma occorrerà vedere a che condizioni.
In secondo luogo, la buona notizia dell’abbandono dell’assurdo previgente sistema del patto non può che essere limitata e mitigata dalla concomitante attuazione di un’altra follia finanziario-contabile: l’armonizzazione contabile, meglio nota come competenza finanziaria potenziata.
Il d.lgs 118/2011, contenente la riforma della contabilità armonizzata, è figlio esattamente del medesimo clima che aveva ispirato la riforma del pareggio di bilancio plurisaldo: la terribile crisi del 2011, che portò al Governo Monti, autore proprio delle regole sul pareggio che il Governo intende modificare.
Non c’è, allora, da stupirsi se la riforma della contabilità del 2011, analizzata con l’applicazione concreta, si stia rivelando ogni giorno di più un incredibile carico burocratico di complicazioni davvero inutili. Basti pensare al caos assoluto scatenato dalle regole sugli impegni di spesa riguardanti il fondo delle risorse contrattuali decentrate, oppure l’assurda regola che non consente la conservazione delle prenotazioni degli impegni di spesa per gare finalizzate all’acquisto di beni e servizi, destinate all’avanzo di amministrazione.
La contabilità armonizzata prevede la costituzione di una serie di fondi, il principale quello pluriennale vincolato, posti a finanziare le spese imputate in anni successivi a quello in cui le si assume, come se si trattasse di riserve di pronta cassa. E’ fino troppo facile immaginare che dopo pochi anni questi fondi saranno un’accozzaglia complicatissima di risorse, che non si comprenderà più da cosa siano finanziate e a quali destinazioni rivolte.
Infatti, il principale dei problemi è costituito in questi mesi dall’adempimento burocraticissimo del riaccertamento dei residui, attività che sta prosciugando tempo e pazienza degli operatori.
Il tutto, per “giocare” alla cassa. La Corte dei conti, Sezione Autonomie, con la deliberazione 9/2016, lo ha evidenziato in modo chiaro: la competenza finanziaria potenziata avvicina sempre di più la gestione ad un bilancio di cassa.
Sarebbe, allora, da chiedersi come mai il disegno di legge di riforma del pareggio di bilancio, nell’intento di semplificare le regole, prevede solo il pareggio di parte corrente e non della cassa. Sarebbe, inoltre, da chiedersi che coerenza vi sia, allora, tra l’armonizzazione così come oggi impostata e la riforma a regime del patto di stabilità.
Si tratta di una domanda ovviamente retorica. Non vi è alcuna coerenza tra le due riforme, così come non vi è utilità alcuna nell’iperburocrazia imposta dal d.lgs 118/2011, norma che, solo per fare un altro esempio, ha sostituito la relazione revisionale e programmatica col documento unico di programmazione, senza nemmeno indicare chi sia l’organo competenze ad approvarlo e facendola gonfiare all’inverosimile di allegati e relazioni, come scavare buche e poi riempirle.
L’opera di semplificazione della finanza non può che completarsi col passaggio obbligatorio della rinuncia al progetto fantomatico della competenza potenziata: altrimenti, i vincoli operativi per gli enti locali resteranno quasi inalterati, per quanto con maggiore libertà di attivare la spesa di investimento.
Un’altra conclusione andrebbe tratta, una volta modificato il pareggio di bilancio: si dovrebbero azzerare davvero e per sempre tutte le regole che gestiscono voci di spesa particolari, secondo regole specifiche.
Tali regole sono, purtroppo, figlie della fase di regolazione del patto di stabilità precedente alla micidiale introduzione della competenza mista, quando la legge fissava percentuali di contenimento di ben precise voci di spesa. Come si ricorderà, questo modo di regolare il patto scatenò le ire della Corte costituzionale, dal momento che si trattava di ledere in modo palmare l’autonomia degli enti locali.
Tuttavia, questa eredità è rimasta ed è ben presente. Si pensi, ad esempio, di nuovo al fondo delle risorse contrattuali decentrate, o alle folli regole di contenimento della spesa del personale: un tetto (la media del triennio 2011-2013) per la spesa globale; un tetto, la spesa del 2009, per l’assunzione di personale flessibile; un vincolo, cangiante ogni anno, per le assunzioni: nel corso degli anni contenute entro la spesa dell’anno precedente, in percentuali che sono state prima del 20%, poi del 40%, poi del 60% con possibilità di arrivare al 100% ma solo per l’assunzione dei provinciali in sovrannumero, poi (nel 2016) dell’80% con possibilità di arrivare al 100% per l’assunzione dei provinciali in soprannumero, ma, a regime, del 25% ma non per gli enti che abbiano un rapporto spesa di personale/spesa corrente pari o inferiore al 25% che potranno comunque contare su un turn over del 100%, che tornerà ad essere (forse) del 25% nel 2017 e 2018.
Non si vuole certo un genio per capire quanto sia inutile parlare di “semplificazione”, “managerialità”, “innovazione di prodotto e processo”, in presenza di regole così. Né ci si può stupire che gli enti locali, al di là di atti di leggerezza o mala amministrazione, abbiano avuto tutte le difficoltà riscontrate nell’applicazione delle regole di costituzione e gestione dei fondi contrattuali, o di rispetto delle norme sul turn over.
La riforma, allora, del pareggio di bilancio dovrebbe essere accompagnata da due altre conclusioni ovvie: la prima è la riconduzione della spesa del personale, tutta, entro la spesa corrente globale, in modo che il limite sia dato solo dal fabbisogno e dalla dotazione organica, nonché dal pareggio di bilancio, così che siano gli enti a stabilire priorità di spesa; la seconda è la revisione dell’articolo 4 del d.l. 16/2014, convertito in legge 68/2014, in modo che si consenta alle amministrazioni di chiudere ogni pendenza col passato appunto avvalendosi della maggiore autonomia di bilancio garantita dalla riforma del pareggio, che renderà non più attuali e solo vessatorie i vincoli al rispetto delle regole di finanza pubblica ivi previsto.

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