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sabato 5 marzo 2016

San Remo – Italia: cosa non funziona coi “furbetti del cartellino”


Riguardo al “caso” del comune di San Remo qualcosa non torna. Il comune ligure, dopo aver scoperto che centinaia di dipendenti, con diverse responsabilità e gravità di azione, attestavano falsamente la presenza in ufficio o, per meglio dire, simulavano di essere presenti mentre in realtà qualcuno timbrava al posto loro mentre erano intenti in altre faccende, ha proceduto con le inevitabili sanzioni.
Nonostante la vulgata sia che nella PA non è possibile licenziare velocemente, nel breve arco di 4 mesi il comune ha licenziato 32 dipendenti e ne ha sospesi 51, su un organico di fatto di circa 420 dipendenti ed una dotazione organica teorica di 545 dipendenti.
Insomma, il comune di San Remo si ritrova, in questo momento, con circa il 20% del personale in servizio in meno.
Cosa è, allora, che non torna? Un insieme di aspetti. Partiamo dal primo: le conseguenze organizzative di un’ondata di licenziamenti come quella che sta vivendo il comune. E’ stato lo stesso sindaco di San Remo ad evidenziare indirettamente i paradossi della vicenda: il comune sta facendo doverosamente “pulizia”, ma adesso gli uffici sono sguarniti di quasi il 20% del personale.
Dunque, il sindaco ha chiesto al Governo una deroga alle norme sulle assunzioni per non congelare la macchina comunale, che rischia per altro di perdere milioni di finanziamenti europei.
La richiesta del sindaco non fa una piega, appare doverosa quanto doverosa è stata l’azione sanzionatoria nei confronti dei dipendenti infedeli.
Tuttavia, questa richiesta svela una serie di debolezze croniche del sistema della pubblica amministrazione italiano.
La prima debolezza consiste nell’assenza di flessibilità del sistema normativo. E’ vero che la spesa pubblica complessiva del personale corrisponde a circa il 20% del totale (166 miliardi su 830 circa) e, quindi, è un costo da tenere sotto controllo: così, da anni, per evitare traumatici licenziamenti di migliaia di dipendenti, sono in atto misure di contenimento della spesa, ponendo tetti all’incremento complessivo e vincoli vari al turn-over, per altro modificati di anno in anno.
Si tratta, tuttavia, di regole:
a)                          valide trasversalmente per tutti gli enti: non è mai stata effettuata alcuna valutazione sullo standard organizzativo e del costo del personale (sebbene la finanziaria del 2006 lo indicasse), sicchè i tetti sono operanti sia per gli enti che abbiano quantità di personale e costi molto elevati, sia per quelli con costi e dotazioni organiche ben più ridotti, fortemente penalizzati dal sistema;
b)                          slegate dalla concreta situazione finanziaria dell’ente, in spregio all’autonomia contabile: non si è mai, in effetti, compreso quale sia il fondamento giuridico costituzionale di norme che imbrigliano la capacità di spesa degli enti locali, se questi riescano comunque a garantire il rispetto dei vincoli di finanza pubblica (anch’essi stringenti, cangianti e fin troppo pervasivi).
Tali regole sono prive di qualsiasi flessibilità ed adattamento alla situazione concreta. Sicchè, si assiste al paradosso secondo il quale il comune di San Remo, a tutt’oggi:
1.                            non può assumere nessuno, perché in Liguria non si sono ancora ricollocati tutti i dipendenti in sovrannumero delle province;
2.                            può, dunque, in questa fase, eventualmente acquisire dipendenti in mobilità dalle province o assumere entro i ristretti tetti di spesa, consistenti nella (più che dubbia, nonostante i pareri fin troppo poco condivisibili della Corte dei conti) possibilità di utilizzare i residui assunzionali del triennio 2012-2013 e di assumere dipendenti “infungibili” nell’area dell’assistenza e dell’istruzione.
Laddove si superasse la situazione, con la ricollocazione dei dipendenti soprannumerari delle province, il comune di San Remo, che si trova nel 2016 col 20% quasi di dipendenti in meno, potrebbe, però assumere entro il 25% della spesa del personale cessato nel 2015. Ma, le cessazioni del personale dovute a licenziamenti si sono verificate nel 2016, mentre le sospensioni non sono cessazioni e, quindi, nemmeno possono costituire base per un turn-over. Nel 2017 il Comune potrebbe assumere solo entro il 25% della spesa legata ai licenziamenti.
Insomma, la vicenda di San Remo dimostra che la generalità ed astrattezza della legge, quando il legislatore si sostituisce agli enti nella determinazione di regole organizzative, è nociva. Infatti, si prevedono trattamenti uguali per casi profondamente diversi.
E’ chiaro che le regole di contenimento del turn over e della spesa di personale hanno impatti completamente diversi in enti sovradimensionati, sottodimensionati o che si ritrovino invischiati in vicende straordinarie, che comportino cessazioni di massa di propri dipendenti, al di fuori di ogni preventivabile flusso, come nel caso di San Remo.
La richiesta del sindaco del comune di San Remo, dunque, sotto questi aspetti appare più che fondata.
Però, gli aspetti controversi della questione non finiscono certo qui. Per esempio, connettendo la vicenda di San Remo alla sciagurata riforma delle province, anche in questo caso si coglie come regole generali ed astratte non siano in grado di connettersi con la realtà.
Il Governo, con la legge 190/2014 e tutta la disciplina conseguente, si è ostinato nell’imporre una sovrannumerarietà forzata ai dipendenti delle province, prima ancora di conoscere quali disponibilità vi fossero nelle altre amministrazioni per ricollocarli, lasciando da oltre un anno queste amministrazioni nella sostanziale impossibilità di assumere. Una scelta priva di qualsiasi senso, aggravata dai ritardi (facilmente prevedibili) di avvio della piattaforma informatica di incontro/domanda offerta.
Tale piattaforma, tuttavia, è pensata sempre in termini astratti. I comuni (e le altre amministrazioni), a seguito del d.l. 78/2015 e dell’Accordo Stato regioni sui servizi per il lavoro del 30 luglio 2015 sono stati privati di quasi 11.000 dei 20.000 sovrannumerari potenzialmente da mandare in mobilità; poi, il sistema ha previsto 4.000 pensionamenti anticipati “pre-Fornero”, nel corso dell’estate 3.000 circa soprannumerari si sono ricollocati tra mobilità ai sensi della circolare interministeriale 1/2015 e per effetto del bando del Ministero della giustizia, sicchè solo in circa 2.000 sono rimasti per la ricollocazione. Aveva senso bloccare tutte le assunzioni per 2.000 dipendenti? Non era il caso di sapere prima quanti ne sarebbero stati da ricollocare?
Si tratta di domande retoriche. Se il sistema avesse funzionato a dovere, poiché la ricollocazione per i dipendenti provinciali è sia un’opportunità sia un obbligo, cosa avrebbe vietato, in una gestione davvero flessibile ed organizzata delle risorse pubbliche, al Ministero della Funzione pubblica di destinare d’ufficio molti dipendenti della Provincia di Imperia a coprire i posti vacanti del comune di San Remo? Nulla, ma questo non è avvenuto e non avverrà. Se qualcuno andrà a lavorare al comune di San Remo, ciò avverrà solo nella misura in cui detto comune abbia reso disponibili posti nella piattaforma di incontro domanda/offerta e laddove qualche soprannumerario scelga di trasferirsi in quel comune.
Ulteriore questione. Poniamo che il Governo accolga le legittime richieste del sindaco del comune di San Remo e, dunque, consenta a tale ente di effettuare assunzioni in deroga ai vincoli oggi vigenti: sarebbe una boccata d’ossigeno fondamentale per un ente che, altrimenti, rischia di restare inchiodato.
Tutto bene, allora? Non diremmo. Infatti, il comune di San Remo godrebbe di un allentamento della stretta sulle assunzioni in conseguenza di un sistema interno che per anni ha consentito a centinaia di dipendenti di fingere di essere in servizio, mentre in realtà faceva tutt’altro. Dunque, a fronte di un sistema generalmente poco virtuoso (la cosa non riguarda, ovviamente, la nuova amministrazione e la compagine amministrativa “sana” che si stanno impegnando strenuamente nel sanzionare i colpevoli e riorganizzare la struttura), vi sarebbe un “beneficio”: l’invocata deroga ai vincoli alle assunzioni.
Ma, allora, gli enti virtuosi? Quelli che da sempre hanno avuto la spesa di personale sotto controllo? Quelli che, pur in mancanza di standard, all’evidenza risultano più efficienti e meno costosi, confrontandosi con enti di dimensioni e caratteristiche paragonabili? Perché questi enti, virtuosi, dovrebbero continuare a subire strettoie poco mirate, mentre un comune capace, è vero, finalmente di fare pulizia, ma nel quale per anni ha imperversato un sistema illecito di gestione del personale, dovrebbe godere di deroghe negate ad altri?
Altre questioni ancora si pongono. Non c’è dubbio alcuno che la fuoriuscita traumatica, improvvisa e contemporanea di decine di dipendenti dagli uffici del comune di San Remo cagioni tantissime difficoltà operative e lavorative: proprio in particolare le province che hanno comunque visto andar via molto personale, a parità di competenze e funzioni da gestire, lo sanno molto bene.
Qualcuno, soprattutto nei giorni immediatamente successivi alla scoperta del caso San Remo, tuttavia pose un tema estremamente rilevante, chiedendo come fosse possibile che per anni in comune nessuno si fosse accorto (o, peggio, moltissimi fossero conniventi) delle tantissime assenze ingiustificabili di centinaia di dipendenti, chiedendosi se questo non derivasse da una complessiva inefficienza di un sistema, nel quale i dipendenti pubblici sono così tanti, troppi, che le loro continue assenze non incidono sulla produttività.
In molti, ancora, si sono chiesti quanti altri casi come San Remo fossero sparsi in tutta Italia (ed infatti “furbetti del cartellino” si sono scoperti in molti altri enti: ad Acireale un caso eclatante quasi come quello di San remo), domandandosi, quindi, se davvero i dipendenti pubblici non siano troppi, così tanti da essere sostanzialmente sotto utilizzati o inutilizzati, così da permettersi impunemente di fingere di essere presenti, mentre fanno sport o stanno a casa in panciolle.
Queste questioni sono assolutamente degne di attenzione. In effetti, se è legittima, come detto sopra, la richiesta del sindaco di ottenere “flessibilità” a Renzi (come il premier la chiede all’Europa), altrettanto doverosa dovrebbe essere una richiesta di revisione molto seria del fabbisogno lavorativo presso il comune di San Remo.
Un fatto è certo: il “sistema” perverso delle assenze ha privato per anni quel comune di migliaia di giorni lavorativi, e, tuttavia, in quegli anni nessuno ha lamentato il rischio di “congelamento degli uffici”, cioè quel rischio che, oggi, a seguito dei licenziamenti e delle sospensioni dal servizio il sindaco paventa al Governo, per ottenere le deroghe ai vincoli alle assunzioni.
Non pare oggettivamente possibile che le deroghe, se concesse, vadano a coprire il 100% delle cessazioni dovute ai misfatti legati alle frodi al cartellino. A semplice lume di naso chiunque capisce che in ogni caso l’operato di quei dipendenti “furbetti” non fosse integralmente indispensabile alle attività del comune, altrimenti la cosa sarebbe stata scoperta ben prima o, addirittura, nemmeno si sarebbe manifestata.
La deroga dovrebbe, allora, essere concessa previa una serissima analisi del fabbisogno ed una revisione profonda della dotazione.
Del resto, la riforma-Madia, la legge 124/2015, all’articolo 17, comma 1, prevede esattamente questo, alle lettere:
-                           q): “progressivo superamento della dotazione organica come limite alle assunzioni fermi restando i limiti di spesa anche al fine di facilitare i processi di mobilità”;
-                           g): “introduzione di un sistema informativo nazionale, finalizzato alla formulazione di indirizzi generali e di parametri di riferimento in grado di orientare la programmazione delle assunzioni anche in relazione agli interventi di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”.
L’intento del legislatore è quello di riorganizzare totalmente le amministrazioni, eliminando il vincolo della dotazione organica, così da legare la provvista del personale ai reali fabbisogni lavorativi.
Insomma, il comune di San Remo, in virtù di quanto accaduto, dovrebbe porsi con molto puntiglio la domanda se la dotazione organica di diritto, di oltre 500 dipendenti (per altro, largamente scoperta a prescindere dai licenziamenti) sia davvero quella necessaria per un lavoro efficiente. Ma, nella realtà, questa domanda dovrebbero porsela proprio tutti gli enti, ovviamente dandovi risposta. Solo in questo modo si scatenerebbe un processo virtuoso di redistribuzione delle risorse lavorative, reale e concreto, molto più efficiente del sistema astratto ed inefficace prodotto dalla sciagurata riforma delle province.
Tuttavia, per giungere a questo traguardo, occorrerebbero quegli standard di cui abbiamo parlato prima, di cui, in verità, da anni si parla, senza che siano mai stati elaborati nemmeno in bozza o in ipotesi.
Si torna, così, al punto di partenza. Anzi, in realtà si è ancora più indietro, perché oltre a mancare standard per la determinazione dei fabbisogni, mancano anche strumenti di fissazione di questi fabbisogni, in particolare misuratori della produttività.
Nel corso di questi anni, a partire dal 2009 in particolare per effetto della riforma-Brunetta, si fa un grandissimo parlare di produttività, anzi di performance, orrenda parola straniera che, secondo alcuni, rappresenta qualcosa di più e diverso, ma, alla fine, altro non è se non un latinorum manzoniano, per indicare un concetto semplice: input utilizzati per unità di prodotto.
Già. Ma, quali sono i prodotti della PA, anzi, limitiamoci ad un comune? Come misurare la produttività?
Se qualcuno avesse saputo fornire una risposta, è evidente che tutti i problemi come quelli di San Remo o come quelli del salario accessorio del comune di Roma (ma, nella realtà, di quasi tutti i comuni italiani) sarebbero stati risolti: i contratti decentrati avrebbero parametri certi per definire le risorse necessarie a premiare le performance dei dipendenti, sulla base di criteri e misure certi e definiti.
Cosa fare, allora? La risposta è immediata: prendiamo esempio dal virtuoso privato, che sa bene cosa significhi produttività, tanto che nel privato sono attivi, sia pure per periodi discontinui, sgravi al cosiddetto “salario di produttività”.
Allora, un comune che non sa come misurare la produttività, per esempio, degli agenti di polizia municipale, perché non prende in esame come misura la produttività il comparto delle aziende private di sicurezza?
Proviamo, accedendo a qualche dato presente nel web. Tra questi, un Accordo relativo alla tassazione agevolata sulle componenti accessorie della retribuzione corrisposte in relazione ad incrementi di produttività sottoscritto in Molise il 17 gennaio 2012. Questo accordo, ritiene siano componenti accessorie da considerare incrementi di produttività:
-                           lo straordinario;
-                           le festività lavorate;
-                           il lavoro supplementare (lo straordinario dei dipendenti a part time);
-                           i permessi non goduti l’anno precedente;
-                           le indennità di turno.
Se un qualsiasi comune si azzardasse solo a pensare di legare la produttività a questi elementi, Ispettorato del Mef, Corte dei conti, Aviazione, Onu, Nato ed Esercito interverrebbero con tuoni, fulmini e saette.
I soggetti privati, tuttavia, godono di vera autonomia organizzativa e contrattuale. E pensano di misurare la produttività in quel modo, per quanto ciò comporti una confusione un po’ imperdonabile tra quantità di lavoro (ore che si impiegano a produrre) e risultato del lavoro (prodotto nell’unità di tempo).
Ma, magari abbiamo capito male, anche perché si tratta di un accordo territoriale. In altri territori, forse le cose vanno diversamente. Vediamo, allora, il Contratto Collettivo Integrativo di Lavoro per i dipendenti da Istituti di Vigilanza Privata operanti in Milano e Provincia e Provincia Monza e Brianza del 2010 ed il suo articolo 20, legato al premio di risultato. Tale norma aveva stabilito che per gli anni 2010, 2011 e 2012, per tutto il personale, sarebbe stato erogato un premio annuale lordo “totalmente variabile correlato ai risultati conseguiti dalle aziende e subordinato ad indici attribuibili al personale dipendente”. Ottimo. Ma qual è, allora, il parametro preso in considerazione per misurare la produttività? Basta proseguire nella lettura dell’articolo in questione: “Le parti stesse individuano nella presenza collettiva al lavoro il parametro oggettivo proprio del settore ai fini della determinazione del premio di risultato”. E la presenza al lavoro esclude, ovviamente, il numero di giornate contrattualmente previste per i riposi, i permessi e le ferie ancorché lavorati, ma, in deroga a questo, include convenzionalmente come presenze le assenze dovute ad infortuni, con esclusione di quelli in itinere, per un numero di giorni superiore a 15 portati da un unico certificato, ad astensione obbligatoria per maternità, ricoveri ospedalieri, permessi sindacali, e vari altri permessi retribuiti.
Anche in questo caso, provi un comune a stipulare un accordo decentrato che connetta la produttività alla presenza. “Impensabile!” direbbero i molti esperti aziendalisti, che citerebbero il “privato” come esempio virtuoso. E, invece, come si nota, nel privato non solo è pensabile, ma si fa. E il contratto del 2010 visto prima spiega anche il perché: “Il premio di risultato determinato è emolumento strettamente finalizzato e collegato agli obiettivi di miglioramento della produttività, qualità e competitività aziendali e con caratteristiche di incertezza della corresponsione e dell'ammontare per tutte le sue componenti. La presenza al lavoro, quale parametro ai fini della determinazione del premio di risultato, rispecchia tali obiettivi e caratteristiche, atteso che in un settore che opera anche in regime di appalto la presenza al lavoro è direttamente influente sui risultati economici aziendali, incidendo su produttività, qualità e competitività”.
In fondo, il privato da cui prendere esempio la fa molto più semplice e non si impicca in elementi valutativi astrusi e complessi.
Basta curiosare un po’ in giro sul web e constatare che la produttività del lavoro in moltissimi contratti del privato è legata a valutazioni molto semplici, tra le quali la presenza in servizio spesso è fondamentale: per chi compete nel mercato, poter contare davvero sulla quantità di ore lavoro preventivate per produrre o gestire appalti è assolutamente fondamentale; il resto, assume la veste di elucubrazione.
Nel settore pubblico, da un lato non si riesce nemmeno con facilità a garantire l’effettiva presenza, ma, per altro verso, non si è mai stati capaci di individuare standard e parametri per definire i fabbisogni lavorativi, nemmeno basici e semplici, come quelli visti prima.
Eppure, se si sapesse che in un comune di una certa estensione, con un certo numero di chilometri di strade, un certo quantitativo di residenti ed un certo ulteriore quantitativo di presenze turistiche (parametri che potrebbero essere utili per San Remo) occorrono un certo quantitativo di ore di attività di vigilanza stradale, per infortuni, per sicurezza, per cantieri di lavoro e per attività commerciali, quel comune saprebbe quanti agenti di polizia municipale dovrebbero essere in servizio e quanti presenti ogni giorno, accorgendosi subito della disfunzione legata ad un buco, per quanto “coperto” da un cartellino “taroccato”.
Invece, ci si continua a lambiccare in discussioni sui massimi sistemi, che producono contratti decentrati assurdi, sempre considerati illegittimi da chi li controlla, nonché metodi di valutazione a dir poco cervellotici. Un mega ufficio complicazioni affari che, nel sempre invocato “privato” sono molto, ma tanto, più semplici, incapace nemmeno di vigilare efficacemente perché la performance in fondo quanto meno coincida col minimo: la maggiore presenza in servizio possibile.

2 commenti:

  1. Buna Sera, ho letto con interesse le sue riflessioni, se mi permette il suo narrare è ovviamente legato alla conoscenza di quanto accaduto, non ovviamente dalle carte, ma dai media che come lei avrà notato non si sono limitati, anzi Sanremo è città golosa e come tale è redditizia, detto questo lei descrive una quantità di dipendenti a spasso, in realtà le cose sono andate in modo diverso.
    1°quelli che lei definisce i nuovi amministratori che hanno condiviso la"PULIZIA" in realtà avevano già governato dal 2004 al 2009, Sindaco "BOREA"e evidentemente non si erano accorti di nulla, se da accorgersi vi era qualcosa.
    in realtà a parte qualche caso eclatante, il resto della massa comunale indagata e/o licenziata erano e sono dipendenti,che producevano/producono atti e pratiche senza guardare l'orologio, ma hanno commesso il reato di chiedere al proprio funzionario, di andare prima del servizio a prendere il caffè, e/o spostare la macchina per non pagare il parcheggio, nell'ottica privatistica " tu sei collaborativo, io ti premio " sarà giusto- sarà sbagliato, non spetta a me dirlo, ma di certo quello che dico è quanto accaduto.
    2° Peraltro leggendo con dovizia sia il decreto 165- il decreto 150 ( brunetta) si potrà notare come il dirigente sia nominato Datore di Lavoro, al quale viene dato l'onere della gestione delle risorse Umane, in subordine, stesso ruolo assume il funzionario posizionato,
    il tutto al fine di raggiungere il famigerato obiettivo, dunque più che guardare la presunta libertà data ai dipendenti, importante sarebbe stato fare la valutazione sul risultato.
    3° Il sindaco e la sua giunta già "Rodata" dopo gli anatemi oggi si trova con la macchina inceppata, e chiede personale, al di là della richiesta che come da lei illustrato è praticamente aria fritta, rimane la domanda principe( se i dipendenti assenteisti erano tali , come è possibile che oggi il comune sia paralizzato).
    Il Comune di Sanremo e stata la casa di molti Segretari Comunali i quali oggi ricoprono incarichi di rilievo, possibile che nessuno si sia accorto di nulla?.
    La ringrazio per avermi ospitato nel suo blog
    grazie

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