Il Parere del
Consiglio di stato sulla riforma degli incarichi ai direttori generali degli
enti del sistema sanitario svela che si è costruito un sistema volto solo a
mascherare scelte quasi arbitrarie
In tema di lotta alla corruzione
diversi elementi di attualità di incrociano tra loro a dimostrare, purtroppo,
quanto si sia ancora ben lontani dall’aver afferrato l’entità del problema e
dall’aver impostato concreti ed efficaci sistemi di contrasto.
Si può certamente osservare che
molti passi in avanti sono stati compiuti. In fondo, il caso del comune di Lodi
è caratterizzato dalla positiva nota della rettitudine dimostrata dalla
funzionaria, la quale ha messo a frutto la formazione ricevuta allo scopo di
applicare la disciplina anticorruzione, allo scopo di denunciare e prevenire la
manipolazione del bando di gara.
Dunque, tutto ha funzionato per
il meglio, bene così. Ci si scusa per la pignoleria, ma, ben vedere, fermo
restando il meritorio coraggio e l’ineccepibile etica della funzionaria, non è
esattamente vero che tutto sia andato secondo i canoni dell’anticorruzione.
Vediamo il perché.
L’articolo 6, comma 2, del dpr
62/2013, il “codice etico” della PA, dispone: “Il dipendente si astiene dal prendere decisioni o svolgere attivià
inerenti alle sue mansioni in situazioni di conflitto, anche potenziale, di
interessi con interessi personali, del coniuge, di conviventi, di parenti,
di affini entro il secondo grado. Il conflitto può riguardare interessi di
qualsiasi natura, anche non patrimoniali, come quelli derivanti
dall'intento di voler assecondare pressioni politiche, sindacali o dei
superiori gerarchici”.
Nel caso di Lodi, si è appreso
che il tentativo di manipolazione avrebbe previsto il coinvolgimento
consenziente della funzionaria che, poi, invece ha fatto funzionare i presidi
anticorruzione, per una semplice ragione: chi aveva interesse a formulare un
bando “orientato” a far vincere un certo destinatario aveva pensato di coinvolgere
nella gestione dell’appalto della piscina scoperta anche un operatore economico
che si occupa esattamente della gestione delle piscine, di proprietà della
sorella.
Insomma, l’indicazione – tutta da
dimostrare – data dall’accusa è che i manipolatori avrebbero inteso ottenere collaborazione
nella turbativa d’asta da una funzionaria, che, in quanto sorella di un
possibile concorrente, avrebbe compreso il potenziale vantaggio nel permettere
alla propria parente di entrare nella “cordata” alla quale il bando
appositamente disegnato avrebbe assicurato l’appalto.
Per semplice applicazione della
norma del codice etico sopra riportata, si comprende come la funzionaria non
avrebbe dovuto porre in essere nessuna attività inerente quell’appalto,
esattamente perché vi poteva essere un interesse potenziale di una propria
parente, anche solo a prendere parte alla gara. In realtà, se il sistema avesse
funzionato a dovere, la funzionaria si sarebbe dovuta astenere o qualcuno si
sarebbe dovuto accorgere di questa necessità.
Per merito della funzionaria e
della formazione ricevuta, le maglie della prevenzione, allargatesi a monte, si
sono ristrette a valle e comunque il tentativo di indirizzare illegalmente gli
esiti dell’appalto è stato rintuzzato.
La voluta pignoleria lascia
capire due cose. Una prima: le regole sono troppe e forse non è facile
applicarle tutte con la necessaria consapevolezza. In effetti, il conflitto di
interessi della funzionaria era così potenziale che sicuramente in buona fede
non avrà nemmeno pensato di astenersi; probabilmente, oltre tutto, sul piano
organizzativo dell’ente, nemmeno vi sarebbe stata una pratica e comoda modalità
per sostituire la funzionaria che si sarò impegnata a fondo, come la gran parte
dei dipendenti fa, per mandare avanti la procedura. In secondo luogo, l’efficacia
delle regole dipende sempre e comunque dalla qualità delle persone: la
funzionaria avrebbe probabilmente espresso comunque perplessità a prescindere
dall’esistenza stessa delle norme sull’anticorruzione, considerati gli elevati
valori etici e morali che ha mostrato di possedere e, soprattutto, mettere in
pratica.
La considerazione dell’importanza
fondamentale che hanno le persone, talvolta anche a prescindere dalle regole,
ci porta verso ulteriori fatti di attualità utili per centrare meglio l’oggetto
di questo scritto e che, segnatamente, riguarda proprio l’acquisizione delle
persone chiamate a svolgere funzioni pubbliche.
Consideriamo adesso il caso Lodi
come un’ipotesi astratta e generale di scuola, per verificare come si possano
avviare meccanismi non solo e non tanto corruttivi, quanto, soprattutto, di
mala amministrazione, le cui conseguenze, comunque, si rivelino negative per la
spesa pubblica e la sua efficienza.
Poniamo che nel comune di
Immaginario sia noto a chi deve prendere specifiche decisioni volte ad avviare
contratti di appalto o iniziative economiche o di edilizia particolarmente
lucrose, che tra i componenti dell’apparato amministrativo, nella posizione di
vertice o di tecnico della materia vi sia qualcuno che in effetti abbia un
interesse personale o indiretto ad agevolare scelte che portino benefici di
natura egoistica: distorsione della formazione del consenso elettorale,
controllo di gangli di potere, quando non addirittura l’intento di arricchirsi
illecitamente con risorse pubbliche.
In un sistema perfetto, questo
funzionario non potrebbe mai prendere parte a nessuna attività nella quale il
proprio interesse sia anche solo indirettamente e potenzialmente coinvolto. Ma,
tutto dipende dalla persona. Chi dispone del potere di conferire incarichi
(ovviamente, solo se malintenzionato e non possiamo e dobbiamo generalizzare,
dando invece atto che fa più rumore un albero che cade di una foresta che
cresce: sindaci e politici che svolgono in maniera retta ed inappuntabile la
loro attività ce ne sono tantissimi), può valutare se la persona abbia in sé anticorpi
molto forti a modalità non commendevoli di amministrare, o meno. Questa
valutazione può rivelarsi, evidentemente, decisiva per i fini di chi nomina. L’amministratore
accorto ed attento all’etica nemmeno ci penserebbe ad attribuire incarichi a
chi potrebbe rivelarsi in conflitto di interesse. Chi invece volesse creare una
rete di complicità ad intenti non del tutto interni ai confini della legalità
dell’azione amministrativa, potrebbe distribuire gli incarichi in modo mirato,
esattamente allo scopo di poter contare sulla persona giusta, nel posto giusto.
Il potere di nomina dei vertici
di società, aziende o, anche, di vertici amministrativi in Usl o direzioni di
amministrazioni pubbliche espone moltissimo a rischi della natura che abbiamo
ipotizzato sopra.
Specie per una ragione che
dovrebbe risultare evidentissima: in particolare incarichi di vertice
estremamente ben remunerati e di peso molto forte nella gestione di risorse
pubbliche che abbiano ricadute formidabili sul consenso, il che vale certamente
per i direttori generali delle Usl, nell’idea della “fiduciarietà” che dovrebbe
connotarli, sono esposti geneticamente e per loro stessa natura ad un interesse
“in conflitto”: la conferma della “fiducia” da parte del soggetto che nomina,
connessa alla garanzia di permettere al nominante il raggiungimento di
qualsiasi obiettivo di conferma di consenso e potere, anche a prezzo di azioni
perfino non legittime.
Certo, questo rischio è limitato
alla sola ipotesi di un accordo, anche esclusivamente implicito, tra persone
entrambe con pochi scrupoli: ma, un sistema che realmente intenda prevenire la
corruzione, prima ancora di intendere garantire professionalità e buona
amministrazione, non può non considerare questo rischio specifico, così da
prevenirlo.
In effetti, la normativa
anticorruzione in astratto pare aver atteso a questo compito, perché ha tenuto
in debito conto dei rischi potenziali connessi a quanto ipotizzato sopra;
tenendo ben presente che la potenzialità di detto rischio non poche volte si è
tradotta in fatti reali e concreti.
Infatti, l’acquisizione del
personale è considerata dall’articolo 1, comma 16, lettera a), della legge
190/2012, come area di per sé a maggior rischio di corruzione. E il Piano Nazionale
Anticorruzione del settembre 2013 stigmatizza come rischi specifico la presenza
di “previsioni di requisiti di accesso
“personalizzati” ed insufficienza di meccanismi oggettivi e trasparenti idonei
a verificare il possesso dei requisiti attitudinali e professionali richiesti
in relazione alla posizione da ricoprire allo scopo di reclutare candidati
particolari”.
Insomma, non ci vuol molto a
comprendere che gli incarichi “fiduciari” ben poco si conciliano con una rete
di protezione dai rischi anche solo potenziali di mala amministrazione e,
quindi, di corruzione nell’accezione amministrativa data dalla legge 190/2012,
fino a trascendere nei rischi di commissione di reati contro la PA.
Eppure, nonostante quanto sopra
affermato risulti evidente e manifesto, la riforma Madia pare andare
esattamente nella direzione opposta, con un potenziamento immenso della scelta fiduciaria
da parte della politica dei dirigenti da incaricare. Nonostante il tutto sia “coperto”
da una proceduralizzazione parecchio accentuate volta ad inserire i dirigenti
pubblici in albi o ruoli unici, dai quali attingere.
In molti si erano accorti di
questo: la legge 124/2015 di fatto disegna un sistema che solo in apparenza
crea un sistema oggettivo di assegnazione degli incarichi, affidando a
specifiche commissioni di gestione dei ruoli unici o degli albi il compito di
selezionare quali dirigenti inserire e quali selezionare ai fini dell’assegnazione.
Ma, tutto questo complesso iter finirà per tradursi solo in una montagna che
partorisce il topolino: cioè una “rosa” di candidati, nell’ambito della quale l’organo
di governo potrà incaricare esattamente chi vuole, senza nemmeno particolari e
specifiche motivazioni.
Insomma, tutto un impianto che
fa solo apparire come proceduralizzata ed oggettiva una scelta invece
totalmente ancora nelle mani della politica.
Di questo si è accorto il Consiglio
di Stato, Adunanza della Commissione speciale del 18 aprile 2016, che ha
esaminato lo schema di decreto legislativo per la riforma della dirigenza
sanitaria, in attuazione dell’articolo 11, comma 2, lettera p), della legge
124/2015
Palazzo Spada prende atto che lo
schema configura “la nomina del direttore
generale dell’azienda sanitaria articolata secondo un procedimento bifasico,
che vede in una prima fase la formazione di elenco nazionale di idonei da parte
di una Commissione apposita, all’esito di una selezione che richiede rigorosi
requisiti di ammissione e vede l’assegnazione di un punteggio da 75 a 100, e in
una seconda fase una procedura selettiva
non concorsuale su base regionale, alla quale possono concorrere solo
soggetti iscritti nell’elenco nazionale, a conclusione della quale la
Commissione propone al Presidente della Giunta Regionale una terna di nomi, il tutto secondo criteri
meritocratici e procedure ispirate alla massima trasparenza, pur nella
riaffermata natura fiduciaria e ampiamente
discrezionale della nomina, quale atto di alta amministrazione, da parte
della Regione”.
Si conferma quanto affermato
sopra: un sistema rigoroso e meritocratico volto a selezionare gli “idonei” che
possano far parte dell’elenco nazionale dei direttori generali, ma una
procedura selettiva molto, troppo debole. Per altro, al livello nazionale si
affida ad una Commissione solo il compito di valutare l’idoneità degli
aspiranti ad essere inseriti nel bando. Ma la procedura selettiva vede
protagonista il deus ex machina di
una Commissione regionale il cui flebile prodotto è una terna di nomi, tra i
quali, poi, la regione, secondo il proprio ordinamento, sceglie in modo
fiduciario.
Risponde, questo sistema, alle
esigenze di presidio al pericolo che le nomine siano condizionate da scelte
rivolte a creare una “rete di amicizie”, come impone la disciplina anticorruzione
(e prima ancora la logica)? La risposta è semplicissima: no.
Non c’è, infatti, niente che
garantisca un fitto dialogo e scambio tra presidenti delle regioni e
Commissione regionale finalizzato a far sì che nella terna da selezionare
appaia comunque il candidato “gradito”. Il sistema molto discrezionale di
formazione della terna può creare il rischio di una contrattazione ed
intermediazione fittissima, che lasci comunque in mano alla politica gli assi
da giocare. La partita si gioca solo nell’ambito dell’attività della
Commissione, la cui indipendenza è sulla carta affermata dalla norma. Ma
essendo i componenti della Commissione di nomina politica, è ben difficile
ipotizzare un’indipendenza vera ed assoluta. Quindi, niente assicura che alla
fine la nomina dei direttori generali resti totalmente discrezionale e figlia
di uno spoil system incontrollato,
eventualmente finalizzato a selezionare dirigenti scelti esattamente perché condizionabili
dalla necessità di confermare la fiducia o perché, comunque, noti come disposti
a far parte di “cordate” utili alla formazione di consenso anche oltre i
confini del conflitto di interessi.
Ne vogliamo una prova? La
fornisce sempre il Consiglio di stato, che ci informa dei desiderata della
Conferenza Unificata – Stato regioni, cioè di un consesso politico, in merito
alla riforma: “In sede di Conferenza
unificata Stato-Regioni, con il parere reso sullo schema di decreto legislativo
qui in esame, è stato proposto, infatti, un emendamento all’art. 1, comma 7,
secondo cui il punteggio dovrebbe essere assegnato ai fini dell’inserimento del
candidato nell’elenco nazionale, senza che esso possa incidere, quindi, sulla
valutazione che effettuerà la Commissione regionale”. Cosa chiedono,
dunque, gli organi di governo delle regioni? Va bene attribuire punteggi per
indicare il livello professionale dei direttori generali da inserire nell’elenco
nazionale; tuttavia, questo punteggio non deve essere considerato ai fini della
valutazione cui sarà chiamata la Commissione quando dovrà selezionare la “rosa”
da sottoporre. Insomma, sì alla “meritocrazia”, ma solo a scartamento ridotto,
cioè solo per entrare nell’elenco nazionale. Al momento della selezione, la
meritocrazia può anche attenuarsi!
Il Consiglio di stato, però, non
concorda: “Ritiene questo Consiglio che
la proposta non debba trovare accoglimento, perché l’assegnazione di un
punteggio a livello nazionale, pur non precostituendo un vincolo per il
giudizio idoneativo della Commissione regionale (che può motivatamente
discostarsi dall’ordine preferenziale espresso nell’elenco nazionale), rappresenta
comunque una prima e uniforme garanzia di imparzialità nella valutazione delle
capacità dirigenziali dell’aspirante direttore generale, già a livello nazionale,
e un dato di partenza imprescindibile alla valutazione della Commissione
regionale, limitando arbitri, parzialità e favoritismi, dettati dai “particolarismi”
locali, e spesso annidatisi nel carattere non concorsuale, ma meramente
idoneativo, della selezione e nel carattere fiduciario della nomina”.
Quindi, come si nota, Palazzo
Spada ha perfettamente presenti i rischi sottesi a procedimenti di nomina “fiduciaria”.
Tuttavia, nell’inciso tra parentesi sottolineato sopra, prende atto che le
Commissioni avranno libertà amplissima di formare le “terne” come meglio
credono, senza risultare comunque vincolate all’ordine preferenziale dell’elenco.
E’ evidente che questo darà la stura ai processi di “negoziazione” immaginati
sopra, finalizzati allo scopo di permettere che il candidato “amico” entri
nella terna, in modo che poi i giochi siano fatti.
Del resto, se il procedimento è
volto solo a selezionare gli “idonei”, partendo dal presupposto che tutti
quelli inseriti nell’elenco sono potenzialmente capaci, la scelta finale
risulta totalmente arbitraria. Non lo nega il Consiglio di stato, che fa
riferimento, allo scopo, alla giurisprudenza della Cassazione proprio in tema
di nomine dei direttori generali delle Usl, secondo la quale si tratta di un atto
“di alta amministrazione” non sindacabile dal giudice. Qui il parere del
Consiglio di stato inserisce, tra le molte lodi al disegno di legge, quasi
nascosta, una critica che doveva essere molto più evidente ma che è, comunque,
esiziale: “Proprio l’ampio margine di
discrezionalità, tipico di questo atto di alta amministrazione, e la natura del
procedimento selettivo in questione, che ha – come tutti quelli finalizzati
alla nomina dei dirigenti sanitari – carattere
idoneativo e non concorsuale, consigliano che l’intera procedura sia
presidiata da garanzie che, pur salvaguardando la natura ampiamente discrezionale del conferimento dell’incarico da
parte del Presidente della Regione, scongiurino
il rischio di una sostanziale arbitrarietà di una scelta, non dettata –
quanto meno prevalentemente – da ragioni meritocratiche e resa insindacabile,
in sede di legittimità, dal giudice amministrativo. L’incrementata
procedimentalizzazione della procedura selettiva, che rimane pur sempre
idoneativa, deve quindi essere apprezzata e salvaguardata, soprattutto nella misura
in cui essa, appunto, stabilisce che nella terna di nomi il Presidente della Regione
scelga quello «che presenta requisiti maggiormente coerenti con le
caratteristiche dell’incarico da attribuire». L’intervento legislativo tenta in questo modo di ancorare la
scelta regionale quanto meno ad un
criterio di natura obiettiva e, cioè, la maggior rispondenza del candidato alle
caratteristiche specifiche dell’incarico al quale è chiamato, riducendo il margine di totale e
incontrollata discrezionalità, se non di puro arbitrio, che può condizionarne
negativamente la nomina da parte del vertice politico”.
Insomma, il Consiglio di stato,
sia pure in termini molto melliflui, ammette che vi è un incremento della
procedimentalizzazione dell’incarico, ma che la scelta finale del direttore
generale resta ai confini dell’arbitrarietà; in effetti, la riforma tenta
soltanto di limitare il margine di arbitrarietà, con l’obbligo di motivazione
espressa della scelta. Ma, è perfettamente comprensibile come questo obbligo,
laddove si confermi la natura di atto di “alta amministrazione” non produce
alcun beneficio ai fini della tutela giurisdizionale, avverso nomine che con l’effettiva
valutazione delle competenze tecniche non abbiano concretamente a che fare.
Finchè il sistema resta ancorato
a scelte arbitrarie delle persone, l’esposizione a rischi di un modo di
amministrate segnato dalla “corruzione”, intesa non solo come reato, ma come
permeabilità alla mala amministrazione legata alla confusione tra interessi
pubblici generali ed interessi particolari ed egoistici, rimane troppo alta.
Allo stesso modo, troppo legata ad episodici atti di dignità e professionalità
è la funzionalità del sistema anticorruzione.
Specie perché, poi, i
protagonisti principali del sistema pare non abbiano chiara cognizione delle
vere necessità di presidio. Ne è prova l’intervista rilasciata dal presidente
dell’Anci al Quotidiano Nazionale del 7 maggio 2016, dal titolo “<>
Ricci: dobbiamo essere assicurati ”. Alla domanda “Quali atti firma un sindaco? E .cosa rischia?”, il presidente dell’Anci,
risponde: “E’ responsabile legale
dell'ente, firma sostanzialmente tutto
ed è esposto a procedimenti amministrativi e contabili”.
Siamo del tutto sicuri che la
risposta sia frutto dell’imprescindibile sintesi e che non possa corrispondere
esattamente a quanto il presidente dell’Anci sa perfettamente. I sindaci sono
certamente molto esposti come responsabilità, ma non è per niente corretto
affermare che firmino tutto, né “sostanzialmente”, né giuridicamente. I sindaci
hanno ovviamente la responsabilità enorme di determinare un indirizzo politico,
programmare, controllare, agire. Ma, l’elenco degli atti di loro competenza è
contenuto e tassativo.
E’ certamente vero che l’aspirazione
dei sindaci e dei politici è di tornare davvero a firmare tutto, superando il
principio di separazione. Purtroppo, talvolta, questa aspirazione si traduce,
come pare sia avvenuto a Lecco, in un’ingerenza oltre il lecito in funzioni
amministrative.
Ma, che il presidente Anci
sappia bene come stanno realmente le cose, lo prova la successiva risposta ad
una sollecitazione sul ruolo dei dirigenti: “Buona parte della macchina
amministrativa viene portata avanti dai dirigenti. C'è chi sblocca le pratiche con celerità, ma anche chi non si mostra
molto contento di assumersi responsabilità, anche quando lo stipendio è 2 o 3
volte quello del sindaco. E un'anomalia”. Ricapitoliamo: quindi, buona
parte della macchina amministrativa è gestita dalla dirigenza; il che smentisce
appunto che firmi tutto “sostanzialmente il sindaco”.
Non si capisce bene, però, il
risvolto del pensiero del presidente dell’Anci, quando afferma che vi sono
dirigenti non molto contenti di assumersi responsabilità anche se il loro
stipendio risulti superiore di 2 o 3 volte quello del sindaco.
Nello stesso articolo, il presidente
dell’Anci, afferma che nel suo comune gli spetta un’indennità di funzione di
2.500 euro netti al mese, per 12 mesi, quindi 30.000 euro netti l’anno. Quindi,
un dirigente per guadagnare 3 volte tanto, dovrebbe avere uno stipendio di
7.500 euro netti al mese, 90.000 netti l’anno, qualcosa di simile a 200.000
euro di costo lordo per l’ente. Ma, il presidente dell’Anci sa benissimo che i
contratti collettivi nazionali di lavoro prevedono detti lordi che anche per il
massimo della posizione non arrivano a 90.000 euro l’anno. Certo, i comuni
possono derogare a questi tetti: ma, queste deroghe sono decise anche dalla
politica. Se, quindi, qualche dirigente sia retribuito con cifre come quelle
descritte dal presidente dell’Anci, deve essere chiaro quale sia la provenienza
di tali cifre.
Ma, poi: se un dirigente così
lautamente retribuito non ha molta voglia di assumersi responsabilità, la
domanda è: perché non si agisce nei suoi confronti? L’anomalia segnalata dal
presidente dell’Anci non è (solo) nel rapporto tra indennità di funzione e
stipendi, bensì nel modo malinteso di regolare i rapporti funzionali con la
dirigenza. Non conta la “voglia” di assumersi responsabilità, ma contano i
risultati conseguiti. Esiste un diluvio di norme che impongono il rispetto dei
termini dei procedimenti amministrativi, sanzionando il ritardo. La questione è
non misurare la voglia dei dirigenti di essere puntuali, ma la capacità di
esserlo e di produrre risultato.
Se il tutto viene, invece,
valutato in termini di voglia o di atteggiamento, il pericolo può ancora essere
sempre lo stesso: la politica potrebbe essere portata a considerare degno di
nota il dirigente con “voglia” soprattutto di “coprire” la politica, agendo
come sua longa manus e non solo per garantire efficacia dell’azione
amministrativa.
E’ verissimo il problema che
pone il presidente dell’Anci quando sottolinea l’opportunità di un sistema
assicurativo che metta al riparo i sindaci dalle troppo estese responsabilità
erariali. Ma, anche in questo caso il presidente dell’Anci non può non sapere
che questa “assicurazione” l’ha già fornita proprio la legge Madia, quando all’articolo
11, comma 1, lettera m), prevede il “riordino
delle disposizioni legislative relative alle ipotesi di responsabilità
dirigenziale, amministrativo-contabile e disciplinare dei dirigenti e
ridefinizione del rapporto tra responsabilità dirigenziale e responsabilità
amministrativo-contabile, con particolare riferimento alla esclusiva
imputabilità ai dirigenti della responsabilità per l'attività gestionale, con
limitazione della responsabilità dirigenziale alle ipotesi di cui all'articolo
21 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165”. Si tratta dell’assolutizzazione
della cosiddetta “esimente politica”, posta a scaricare sulla dirigenza ogni
responsabilità erariale e contabile. Meccanismo che funziona tanto più, quanto
più il dirigente abbia “voglia” di fare da parafulmine (dato tutto quello che
guadagna…) ed assumersi responsabilità anche in nome e per conto di chi gli dia
fiducia, incaricandolo.
Questo possibile modo certamente
non virtuoso e certamente non diffuso di regolare i rapporti tra politica e
dirigenza è di certo potenzialmente consentito da una riforma, quella prevista
dalla legge 124/2015, che non riesce in alcun modo a porre garanzie per
superare i problemi nei quali l’amministrazione è attanagliata. Una riforma,
per altro, che in alcuni suoi passaggi rischia, anzi di agevolare un sistema
vizioso di gestione amministrativa, a tutto scapito della lotta alla
corruzione.
Sarebbe necessario prenderne
atto con urgenza, per cambiare subito strada ed obiettivi.
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