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domenica 1 maggio 2016

Il mostro giuridico dell’articolo 1, comma 557, della legge 311/2004



Tra le tante mostruosità di un ordinamento giuridico sempre più vulnerato da norme mal concepite ed interpretazioni di esse troppo volte alla creazione di diritto, piuttosto che al chiarimento applicativo, spicca la fattispecie aberrante del cosiddetto “scavalco di eccedenza”.

Inutile provare a cercare in un qualsiasi database di leggi questo istituto. Esso non esiste, se non nella fervida (troppo fervida) fantasia di alcune sezioni regionali di controllo della Corte dei conti, che l’hanno desunto nell’interpretare la previsione contenuta nell’articolo 1, comma 557, della legge 311/2004. Il testo della norma è il seguente: “I comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti, i consorzi tra enti locali gerenti servizi a rilevanza non industriale, le comunità montane e le unioni di comuni possono servirsi dell'attività lavorativa di dipendenti a tempo pieno di altre amministrazioni locali purché autorizzati dall'amministrazione di provenienza”.
Quale possa essere lo spunto per reperire in questa disposizione normativa la base di regolazione di uno “scavalco” risulta impossibile comprendere. Per una ragione evidentissima e semplicissima: non si tratta affatto di uno scavalco.
La fattispecie dell’incarico a scavalco si manifesta esclusivamente quando un medesimo dipendente espleta la propria attività lavorativa, nell’ambito di un unico rapporto di lavoro, a beneficio di due diverse amministrazioni, ripartendo la prestazione secondo regole organizzative (in particolare quote di orario) oggetto di convenzione tra le parti. Lo scavalco può implicare, in vario modo, incrementi al trattamento economico e rimborsi per le trasferte da una sede all’altra, ma sempre nell’ambito di un rapporto lavorativo unico.
Nell’ordinamento degli enti locali, lo scavalco è regolato in questi termini e con estrema chiarezza dall’articolo 14 del Ccnl 22.1.2004, il cui comma 1 dispone: “Al fine di soddisfare la migliore realizzazione dei servizi istituzionali e di conseguire una economica gestione delle risorse, gli enti locali possono utilizzare, con il consenso dei lavoratori interessati, personale assegnato da altri enti cui si applica il presente CCNL per periodi predeterminati e per una parte del tempo di lavoro d’obbligo mediante convenzione e previo assenso dell’ente di appartenenza. La convenzione definisce, tra l’altro, il tempo di lavoro in assegnazione, nel rispetto del vincolo dell’orario settimanale d’obbligo, la ripartizione degli oneri finanziari e tutti gli altri aspetti utili per regolare il corretto utilizzo del lavoratore. La utilizzazione parziale, che non si configura come rapporto di lavoro a tempo parziale, è possibile anche per la gestione dei servizi in convenzione”.
Come si nota, sono indicati in maniera cristallina presupposti e condizioni:
1)      migliorare e razionalizzare i servizi, puntando ad economie di scala, concentrando, quindi, lo svolgimento di attività lavorative in un unico centro di imputazione, che le realizza a beneficio contemporaneamente di due enti;
2)      conseguire economie di gestione: lo scavalco consente di realizzare le prestazioni lavorative a costi inferiori, perché permette che non siano pagati due stipendi;
3)      occorre il consenso del lavoratore da impiegare a scavalco;
4)      l’impiego può avvenire solo per periodi predeterminati;
5)      la regolazione organizzativa tra gli enti deve necessariamente avvenire per il tramite di una convenzione;
6)      non si tratta di un lavoro a tempo parziale posto in essere parte presso un ente e parte presso un altro ente, ma di una prestazione lavorativa unica, che presso l’ente “capofila” si radica come rapporto di lavoro e si svolge entro il debito orario delle 36 ore, distribuite in parte maggioritaria presso il capofila, in parte minoritaria presso l’ente convenzionato.
L’articolo 14 citato non ha nulla in comune con la previsione dell’articolo 1, comma 557, della legge 311/2004, per le seguenti ragioni:
disciplina dell’articolo 14 Ccnl 22.1.2004
Disciplina dell’articolo 1, comma 557, l. 311/2004
Può riguardare tutti i comuni, di qualsiasi tipo 
Ha come beneficiari esclusivamente i comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti, i consorzi tra enti locali gerenti servizi a rilevanza non industriale, le comunità montane e le unioni di comuni
Richiede, come visto, una convenzione tra gli enti, perché il dipendente coinvolto realizza una prestazione lavorativa unica, ripartita funzionalmente ed organizzativamente tra i due enti convenzionati
Non richiede nessuna convenzione, perché presso l’ente che si avvale del lavoratore non si dà vita ad una prestazione univoca ripartita, bensì ad una prestazione lavorativa indipendente da quella che il lavoratore interessato conduce con l’ente di provenienza
Non richiede autorizzazione da parte dell’ente “capofila”. L’autorizzazione non è necessaria, perché si tratta di un istituto, come chiaramente regolato dall’articolo 53 del d.lgs 165/2001, finalizzato a far sì che un lavoratore pubblico possa espletare incarichi ulteriori e diversi da quelli connessi all’espletamento del proprio lavoro subordinato, solo a condizione che l’ente presso il quale conduce il rapporto di lavoro glielo consenta. L’autorizzazione, quindi, è propria di un rapporto individuale tra il dipendente che chiede l’autorizzazione e l’ente presso il quale intenderebbe prestare la propria attività lavorativa ulteriore e diversa da quella dovuta al proprio datore di lavoro.
Nel caso dell’articolo 14, non v’è un rapporto tra la persona del lavoratore e l’ente che se ne avvale, bensì tra i due enti, i quali lo regolano mediante la convenzione. Non a caso, esattamente al contrario di quanto avviene nel caso in cui sia necessaria l’autorizzazione, l’articolo 14 richiede che vi sia il consenso del lavoratore a prestare attività lavorativa a scavalco.
Richiede l’autorizzazione. Infatti, non si instaura alcun rapporto convenzionale tra i due enti.
Al contrario, si determina una relazione organizzativa esclusivamente tra l’ente di piccole dimensioni e la persona fisica del lavoratore dipendente dall’ente di più grandi dimensioni. Detto dipendente, allora, va ad espletare una prestazione lavorativa ulteriore e diversa da quella da svolgere presso il datore di lavoro, in deroga al principio di esclusività.
Dunque, occorre l’autorizzazione come disciplinata in particolare dall’articolo 53, commi 7 e seguenti, del d.lgs 165/2001 e come in effetti richiede senza equivoco alcuno appunto l’articolo 1, comma 557, della legge 311/2004
Trattandosi di una prestazione lavorativa univoca, solo l’ente capofila si occupa di effettuare i pagamenti, i versamenti contributivi, previdenziali e svolgere la funzione di sostituto di imposta.
L’ente convenzionato deve rimborsare al capofila la parte convenuta del costo e, ovviamente, assicurare gli accorgimenti necessari alla sicurezza del lavoro nella propria sede.
Trattandosi di una prestazione lavorativa completamente indipendente da quella che il lavoratore conduce presso l’ente che lo autorizza, l’intera disciplina economica, contrattuale, previdenziale e di sicurezza è rimessa all’ente di piccole dimensioni, che se ne avvale.
Con specifico riferimento alle ferie, trattandosi di prestazione lavorativa univoca, il lavoratore in ferie non svolge attività lavorativa in nessuno dei due enti e le matura con l’ordinario computo connesso alle ore mensili di lavoro.
Per quanto concerne le ferie, data l’indipendenza del rapporto di lavoro ex articolo 1 comma 557, dal lavoro che il dipendente conduce presso l’ente di provenienza, potrebbe anche ammettersi che il dipendente autorizzato, in ferie presso l’ente di provenienza, svolga attività lavorativa, collocata oltre il debito orario ordinario, presso l’ente che se ne avvale. E che maturi presso questo le ferie connesse al limitato tempo di lavoro.
In quanto all’orario di lavoro, il dipendente completa le proprie 36 prestando attività lavorativa in parte presso il capofila, in parte presso l’altro ente.
In quanto all’orario di lavoro, il dipendente può svolgere solo attività lavorativa entro nel limite delle 12 ore successive alle 36 cui è obbligato dal rapporto di lavoro che conduce presso l’ente di provenienza, per non violare il limite settimanale delle 48 ore.

Queste semplicissime evidenze sono inspiegabilmente ignorate da molte sezioni regionali della Corte dei conti, intente appunto a creare fattispecie nuove di diritto, per la verità, inesistenti, costruendo l’ircocervo dello “scavalco di eccedenza”, il quale consisterebbe nel rapporto convenzionale tra i due enti, per effetto del quale quello di grandi dimensioni concede l’utilizzo del proprio lavoratore appunto per il tempo delle 12 ore settimanali ulteriori alle 36 dovute.
E’una costruzione palesemente erronea, proprio perché, come visto sopra, l’articolo 1, comma 557, della legge 311/2004 non prevede alcuna convenzione, ma parla espressamente di autorizzazione, esattamente per l’unica fondamentale ragione che l’attività lavorativa prestata dal dipendente presso l’ente di piccole dimensioni è assolutamente indipendente, staccata, diversa ed ulteriore da quella oggetto del rapporto di lavoro principale che conduce con l’ente di appartenenza.
Il quale, quindi, non pone in essere alcuno scavalco, né si convenziona. Quest’ultima affermazione merita una precisazione: la norma non richiede alcuna convenzione, proprio perché riconduce il tutto al diverso istituto dell’autorizzazione. Non vieta che l’autorizzazione possa essere contenuta in una convenzione, per quanto l’impiego di tale strumento possa ingenerare equivoci e tendere a creare un impiego spurio e al limite della legittimità dell’articolo 14.
Ancora, il comma 557 non può essere configurato come un distacco parziale. La ragione principale sta nella circostanza che il lavoratore deve e può svolgere la propria attività solo extra orario, mentre nel caso del distacco il lavoratore svolge l’intera prestazione lavorativa a beneficio del distaccatario, sia pure nell’interesse del distaccante. Ed è chiaro che l’ente di provenienza non ha interesse alcuno a distaccare un proprio dipendente extra orario, non concorrendo il comma 557 alla razionalizzazione organizzativa o al risparmio della spesa di personale.
Non si tratta nemmeno di un comando: anche nel caso del comando, infatti, l’attività lavorativa viene posta in essere per intero, e per il debito lavorativo principale delle 36, a beneficio dell’ente presso il quale il lavoratore è comandato. Ma, per altro, nel caso del comando non è, evidentemente, nemmeno immaginabile la “autorizzazione”, visto che non c’è un’iniziativa del dipendente che si accorda con l’ente per farsi comandare e allo scopo chiede l’autorizzazione, ma nel caso del comando è l’ente di appartenenza che ordina di prestare l’attività lavorativa presso l’ente comandatario.
La configurazione del “distacco di eccedenza” proposta dalla giurisprudenza, per considerarsi accettabile, costringe necessariamente a confondere autorizzazione con convenzione e ad ammettere un interesse a condividere tra ente di grandi dimensioni ed ente di piccole dimensioni l’extra orario delle 12 ore: assunti del tutto infondati ed aberranti, alla luce delle argomentazioni esposte prima, frutto non di creazione di diritto, bensì di semplice osservazione delle norme vigenti.
Ma, allora, cos’è l’istituto regolato dall’articolo 1, comma 557? Semplicemente un rapporto di lavoro di natura atipica, col quale un piccolo comune assume un dipendente allo scopo preventivamente autorizzato dall’ente di provenienza, entro il limite delle 12 ore consentite dal massimo lavorabile delle 48, in deroga al vincolo di esclusività imposto dalla legge.
Si deve trattare necessariamente di un rapporto di lavoro subordinato, perché altrimenti non si instaurerebbe il rapporto organico, necessario perché si imputino all’ente le attività svolte dal dipendente utilizzato mendiante il comma 557.
Dunque, trattandosi di lavoro subordinato, occorre regolarlo come tale: occorre un contratto di lavoro individuale.
Data l’atipicità di questo rapporto di lavoro, si fa poca fatica a considerarlo come rientrante tra quelli “flessibili”.
La conseguenza è la sua necessaria assogettazione ai limiti di spesa imposti dall’articolo 9, comma 28, del d.l. 78/2010, convertito in legge 122/2010.
Per paradosso, data la laconicità del comma 557, non si potrebbe escludere che l’ente di piccole dimensioni contragga un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Ma, essendo il tutto soggetto ad autorizzazione, ed immaginando impossibile un’autorizzazione a tempo indeterminato, l’ipotesi astratta non può che essere travolta dalla realtà dei fatti, nella quale gli incarichi di cui al comma 557 sono sempre conferiti a tempo determinato.

Ma, d’altra parte, se si accettasse l’erronea prospettiva dello “scavalco di eccedenza” regolato da convenzione, poiché le convenzioni rientrano a loro volta nei vincoli dell’articolo 9, comma 28, del d.l. 78/2010, in ogni caso detta fantasiosa configurazione non sortirebbe particolari benefici finanziari per l’ente di piccole dimensioni, né maggiori spazi di reclutamento. Tanto è vero che alcune tra le ondivaghe ed oscillanti deliberazioni delle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti sul tema (a dimostrazione di quanto deboli siano le basi della teoria dello “scavalco di eccedenza”) nonostante insistano nel dare ospitalità all’ircocervo giuridico, sempre di più tendono però ad affermare che si tratti di lavoro sostanzialmente flessibile soggetto al citato articolo 9, comma 28. Un mostro giuridico, dunque, poco utile, ma molto, troppo confuso. Nella confusione generale, gli enti possono essere fiduciosi sul fatto che difficilmente potrebbe la procura della Corte dei conti agire in modo fondata contro amministratori e funzionari per un impiego diciamo “ellittico” dell’istituto. Certo, apparirebbe corretto e doveroso eliminare l’ircocervo e regolare in modo chiaro e razionale la fattispecie, evitando i voli pindarici.

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