Tra le tante mostruosità di un
ordinamento giuridico sempre più vulnerato da norme mal concepite ed
interpretazioni di esse troppo volte alla creazione di diritto, piuttosto che
al chiarimento applicativo, spicca la fattispecie aberrante del cosiddetto “scavalco
di eccedenza”.
Inutile provare a cercare in un
qualsiasi database di leggi questo istituto. Esso non esiste, se non nella
fervida (troppo fervida) fantasia di alcune sezioni regionali di controllo
della Corte dei conti, che l’hanno desunto nell’interpretare la previsione
contenuta nell’articolo 1, comma 557, della legge 311/2004. Il testo della
norma è il seguente: “I comuni con
popolazione inferiore ai 5.000 abitanti, i consorzi tra enti locali gerenti
servizi a rilevanza non industriale, le comunità montane e le unioni di comuni
possono servirsi dell'attività lavorativa di dipendenti a tempo pieno di altre
amministrazioni locali purché autorizzati dall'amministrazione di provenienza”.
Quale possa essere lo spunto per
reperire in questa disposizione normativa la base di regolazione di uno “scavalco”
risulta impossibile comprendere. Per una ragione evidentissima e semplicissima:
non si tratta affatto di uno scavalco.
La fattispecie dell’incarico a
scavalco si manifesta esclusivamente quando un medesimo dipendente espleta la
propria attività lavorativa, nell’ambito di un unico rapporto di lavoro, a
beneficio di due diverse amministrazioni, ripartendo la prestazione secondo
regole organizzative (in particolare quote di orario) oggetto di convenzione
tra le parti. Lo scavalco può implicare, in vario modo, incrementi al
trattamento economico e rimborsi per le trasferte da una sede all’altra, ma
sempre nell’ambito di un rapporto lavorativo unico.
Nell’ordinamento degli enti
locali, lo scavalco è regolato in questi termini e con estrema chiarezza dall’articolo
14 del Ccnl 22.1.2004, il cui comma 1 dispone: “Al fine di soddisfare la migliore realizzazione dei servizi
istituzionali e di conseguire una economica gestione delle risorse, gli enti
locali possono utilizzare, con il consenso dei lavoratori interessati,
personale assegnato da altri enti cui si applica il presente CCNL per periodi
predeterminati e per una parte del tempo di lavoro d’obbligo mediante
convenzione e previo assenso dell’ente di appartenenza. La convenzione
definisce, tra l’altro, il tempo di lavoro in assegnazione, nel rispetto del
vincolo dell’orario settimanale d’obbligo, la ripartizione degli oneri
finanziari e tutti gli altri aspetti utili per regolare il corretto utilizzo
del lavoratore. La utilizzazione parziale, che non si configura come rapporto
di lavoro a tempo parziale, è possibile anche per la gestione dei servizi in
convenzione”.
Come si nota, sono indicati in
maniera cristallina presupposti e condizioni:
1) migliorare
e razionalizzare i servizi, puntando ad economie di scala, concentrando,
quindi, lo svolgimento di attività lavorative in un unico centro di imputazione,
che le realizza a beneficio contemporaneamente di due enti;
2) conseguire
economie di gestione: lo scavalco consente di realizzare le prestazioni
lavorative a costi inferiori, perché permette che non siano pagati due
stipendi;
3) occorre
il consenso del lavoratore da impiegare a scavalco;
4) l’impiego
può avvenire solo per periodi predeterminati;
5) la
regolazione organizzativa tra gli enti deve necessariamente avvenire per il
tramite di una convenzione;
6) non
si tratta di un lavoro a tempo parziale posto in essere parte presso un ente e
parte presso un altro ente, ma di una prestazione lavorativa unica, che presso
l’ente “capofila” si radica come rapporto di lavoro e si svolge entro il debito
orario delle 36 ore, distribuite in parte maggioritaria presso il capofila, in
parte minoritaria presso l’ente convenzionato.
L’articolo 14 citato non ha
nulla in comune con la previsione dell’articolo 1, comma 557, della legge
311/2004, per le seguenti ragioni:
disciplina dell’articolo 14 Ccnl 22.1.2004
|
Disciplina dell’articolo 1, comma 557, l. 311/2004
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Può riguardare tutti i comuni, di qualsiasi tipo
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Ha come beneficiari esclusivamente i comuni con
popolazione inferiore ai 5.000 abitanti, i consorzi tra enti locali gerenti
servizi a rilevanza non industriale, le comunità montane e le unioni di
comuni
|
Richiede, come visto, una convenzione tra gli enti, perché
il dipendente coinvolto realizza una prestazione lavorativa unica, ripartita
funzionalmente ed organizzativamente tra i due enti convenzionati
|
Non richiede nessuna convenzione, perché presso l’ente che
si avvale del lavoratore non si dà vita ad una prestazione univoca ripartita,
bensì ad una prestazione lavorativa indipendente da quella che il lavoratore
interessato conduce con l’ente di provenienza
|
Non richiede autorizzazione da parte dell’ente “capofila”.
L’autorizzazione non è necessaria, perché si tratta di un istituto, come
chiaramente regolato dall’articolo 53 del d.lgs 165/2001, finalizzato a far
sì che un lavoratore pubblico possa espletare incarichi ulteriori e diversi
da quelli connessi all’espletamento del proprio lavoro subordinato, solo a
condizione che l’ente presso il quale conduce il rapporto di lavoro glielo
consenta. L’autorizzazione, quindi, è propria di un rapporto individuale tra
il dipendente che chiede l’autorizzazione e l’ente presso il quale
intenderebbe prestare la propria attività lavorativa ulteriore e diversa da
quella dovuta al proprio datore di lavoro.
Nel caso dell’articolo 14, non v’è un rapporto tra la
persona del lavoratore e l’ente che se ne avvale, bensì tra i due enti, i
quali lo regolano mediante la convenzione. Non a caso, esattamente al
contrario di quanto avviene nel caso in cui sia necessaria l’autorizzazione,
l’articolo 14 richiede che vi sia il consenso del lavoratore a prestare
attività lavorativa a scavalco.
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Richiede l’autorizzazione. Infatti, non si instaura alcun
rapporto convenzionale tra i due enti.
Al contrario, si determina una relazione organizzativa
esclusivamente tra l’ente di piccole dimensioni e la persona fisica del
lavoratore dipendente dall’ente di più grandi dimensioni. Detto dipendente,
allora, va ad espletare una prestazione lavorativa ulteriore e diversa da
quella da svolgere presso il datore di lavoro, in deroga al principio di
esclusività.
Dunque, occorre l’autorizzazione come disciplinata in
particolare dall’articolo 53, commi 7 e seguenti, del d.lgs 165/2001 e come
in effetti richiede senza equivoco alcuno appunto l’articolo 1, comma 557,
della legge 311/2004
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Trattandosi di una prestazione lavorativa univoca, solo l’ente
capofila si occupa di effettuare i pagamenti, i versamenti contributivi,
previdenziali e svolgere la funzione di sostituto di imposta.
L’ente convenzionato deve rimborsare al capofila la parte
convenuta del costo e, ovviamente, assicurare gli accorgimenti necessari alla
sicurezza del lavoro nella propria sede.
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Trattandosi di una prestazione lavorativa completamente
indipendente da quella che il lavoratore conduce presso l’ente che lo
autorizza, l’intera disciplina economica, contrattuale, previdenziale e di
sicurezza è rimessa all’ente di piccole dimensioni, che se ne avvale.
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Con specifico riferimento alle ferie, trattandosi di
prestazione lavorativa univoca, il lavoratore in ferie non svolge attività
lavorativa in nessuno dei due enti e le matura con l’ordinario computo
connesso alle ore mensili di lavoro.
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Per quanto concerne le ferie, data l’indipendenza del
rapporto di lavoro ex articolo 1 comma 557, dal lavoro che il dipendente
conduce presso l’ente di provenienza, potrebbe anche ammettersi che il
dipendente autorizzato, in ferie presso l’ente di provenienza, svolga
attività lavorativa, collocata oltre il debito orario ordinario, presso l’ente
che se ne avvale. E che maturi presso questo le ferie connesse al limitato
tempo di lavoro.
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In quanto all’orario di lavoro, il dipendente completa le
proprie 36 prestando attività lavorativa in parte presso il capofila, in
parte presso l’altro ente.
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In quanto all’orario di lavoro, il dipendente può svolgere
solo attività lavorativa entro nel limite delle 12 ore successive alle 36 cui
è obbligato dal rapporto di lavoro che conduce presso l’ente di provenienza,
per non violare il limite settimanale delle 48 ore.
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Queste semplicissime evidenze
sono inspiegabilmente ignorate da molte sezioni regionali della Corte dei
conti, intente appunto a creare fattispecie nuove di diritto, per la verità,
inesistenti, costruendo l’ircocervo dello “scavalco di eccedenza”, il quale
consisterebbe nel rapporto convenzionale tra i due enti, per effetto del quale
quello di grandi dimensioni concede l’utilizzo del proprio lavoratore appunto
per il tempo delle 12 ore settimanali ulteriori alle 36 dovute.
E’una costruzione palesemente
erronea, proprio perché, come visto sopra, l’articolo 1, comma 557, della legge
311/2004 non prevede alcuna convenzione, ma parla espressamente di
autorizzazione, esattamente per l’unica fondamentale ragione che l’attività
lavorativa prestata dal dipendente presso l’ente di piccole dimensioni è
assolutamente indipendente, staccata, diversa ed ulteriore da quella oggetto
del rapporto di lavoro principale che conduce con l’ente di appartenenza.
Il quale, quindi, non pone in
essere alcuno scavalco, né si convenziona. Quest’ultima affermazione merita una
precisazione: la norma non richiede alcuna convenzione, proprio perché riconduce
il tutto al diverso istituto dell’autorizzazione. Non vieta che l’autorizzazione
possa essere contenuta in una convenzione, per quanto l’impiego di tale
strumento possa ingenerare equivoci e tendere a creare un impiego spurio e al
limite della legittimità dell’articolo 14.
Ancora, il comma 557 non può
essere configurato come un distacco parziale. La ragione principale sta nella circostanza
che il lavoratore deve e può svolgere la propria attività solo extra orario,
mentre nel caso del distacco il lavoratore svolge l’intera prestazione lavorativa
a beneficio del distaccatario, sia pure nell’interesse del distaccante. Ed è
chiaro che l’ente di provenienza non ha interesse alcuno a distaccare un
proprio dipendente extra orario, non concorrendo il comma 557 alla
razionalizzazione organizzativa o al risparmio della spesa di personale.
Non si tratta nemmeno di un
comando: anche nel caso del comando, infatti, l’attività lavorativa viene posta
in essere per intero, e per il debito lavorativo principale delle 36, a
beneficio dell’ente presso il quale il lavoratore è comandato. Ma, per altro,
nel caso del comando non è, evidentemente, nemmeno immaginabile la “autorizzazione”,
visto che non c’è un’iniziativa del dipendente che si accorda con l’ente per
farsi comandare e allo scopo chiede l’autorizzazione, ma nel caso del comando è
l’ente di appartenenza che ordina di prestare l’attività lavorativa presso l’ente
comandatario.
La configurazione del “distacco
di eccedenza” proposta dalla giurisprudenza, per considerarsi accettabile,
costringe necessariamente a confondere autorizzazione con convenzione e ad
ammettere un interesse a condividere tra ente di grandi dimensioni ed ente di
piccole dimensioni l’extra orario delle 12 ore: assunti del tutto infondati ed
aberranti, alla luce delle argomentazioni esposte prima, frutto non di
creazione di diritto, bensì di semplice osservazione delle norme vigenti.
Ma, allora, cos’è l’istituto
regolato dall’articolo 1, comma 557? Semplicemente un rapporto di lavoro di
natura atipica, col quale un piccolo comune assume un dipendente allo scopo
preventivamente autorizzato dall’ente di provenienza, entro il limite delle 12
ore consentite dal massimo lavorabile delle 48, in deroga al vincolo di
esclusività imposto dalla legge.
Si deve trattare necessariamente
di un rapporto di lavoro subordinato, perché altrimenti non si instaurerebbe il
rapporto organico, necessario perché si imputino all’ente le attività svolte dal
dipendente utilizzato mendiante il comma 557.
Dunque, trattandosi di lavoro
subordinato, occorre regolarlo come tale: occorre un contratto di lavoro
individuale.
Data l’atipicità di questo
rapporto di lavoro, si fa poca fatica a considerarlo come rientrante tra quelli
“flessibili”.
La conseguenza è la sua
necessaria assogettazione ai limiti di spesa imposti dall’articolo 9, comma 28,
del d.l. 78/2010, convertito in legge 122/2010.
Per paradosso, data la
laconicità del comma 557, non si potrebbe escludere che l’ente di piccole
dimensioni contragga un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Ma, essendo
il tutto soggetto ad autorizzazione, ed immaginando impossibile un’autorizzazione
a tempo indeterminato, l’ipotesi astratta non può che essere travolta dalla
realtà dei fatti, nella quale gli incarichi di cui al comma 557 sono sempre
conferiti a tempo determinato.
Ma, d’altra parte, se si
accettasse l’erronea prospettiva dello “scavalco di eccedenza” regolato da
convenzione, poiché le convenzioni rientrano a loro volta nei vincoli dell’articolo
9, comma 28, del d.l. 78/2010, in ogni caso detta fantasiosa configurazione non
sortirebbe particolari benefici finanziari per l’ente di piccole dimensioni, né
maggiori spazi di reclutamento. Tanto è vero che alcune tra le ondivaghe ed
oscillanti deliberazioni delle sezioni regionali di controllo della Corte dei
conti sul tema (a dimostrazione di quanto deboli siano le basi della teoria
dello “scavalco di eccedenza”) nonostante insistano nel dare ospitalità all’ircocervo
giuridico, sempre di più tendono però ad affermare che si tratti di lavoro
sostanzialmente flessibile soggetto al citato articolo 9, comma 28. Un mostro
giuridico, dunque, poco utile, ma molto, troppo confuso. Nella confusione
generale, gli enti possono essere fiduciosi sul fatto che difficilmente
potrebbe la procura della Corte dei conti agire in modo fondata contro
amministratori e funzionari per un impiego diciamo “ellittico” dell’istituto.
Certo, apparirebbe corretto e doveroso eliminare l’ircocervo e regolare in modo
chiaro e razionale la fattispecie, evitando i voli pindarici.
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