Chiunque abbia appreso che il diritto costituisce un sistema positivo, cioè composto da precetti “posti” in modo da dare certezza e creare “geometrie” precise per disciplinare i rapporti giuridici deve ricredersi.
Come direbbe il presidente dell’Anac, questa è una visione da “puristi” del diritto, convinti, anche per gli studi di diritto romano, che la legge perfetta è quella capace di stabilire un precetto chiaro accompagnato da una sanzione.
Roba vecchia, appunto di un ordinamento passato. La modernità passa attraverso un sistema giuridico di nuova concezione: la soft law, una legge, cioè, magmatica, un diritto più che positivo “fluente”, scorrevole.
Proprio la soft law dell’Anac, le Linee Guida di finalizzate ad attuare il codice dei contratti ne sono un esempio. Non solo per la provenienza della fonte, un’Autorità regolatrice e non un organo legiferante legittimato dal voto degli elettori, ma anche per lo “stile”.
Quest’ultimo non solo si segnala per l’abbandono della costruzione per titoli, capi, articoli e commi e l’utilizzo di un periodare in “prosa” (anche se, progressivamente le Linee Guida abbracciano una redazione per capitoli e punti), ma anche per il contenuto, abbondantemente caratterizzato dalla presenza del periodo ipotetico.
Se ne ha un esempio plastico nelle Linee Guida “Procedure per l’affidamento dei contratti pubblici di importo inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria, indagini di mercato e formazione e gestione degli elenchi di operatori economici”. A proposito dell’idoneità professionale, l’Anac afferma che “potrebbe essere richiesto all’operatore economico di attestare l’iscrizione al Registro della Camera di commercio, industria, agricoltura e artigianato o ad altro Albo, ove previsto, capace di attestare lo svolgimento delle attività nello specifico settore oggetto del contratto”.
Come si nota, si è in presenza di una linea guida che guida poco o, comunque, lascia margini alla formulazione di alcune domande. In che senso “potrebbe essere richiesto”? Nel senso che si apre la possibilità di non chiedere nulla all’operatore economico per attestare la propria idoneità professionale? Oppure, il periodo ipotetico apre non alla possibilità di chiedere, chè la richiesta è comunque obbligatoria, bensì all’eventualità di chiedere proprio l’iscrizione al registro delle imprese.
Da qui, allora un’altra domanda: non sarebbe stato meglio, trattandosi di linee guida col compito appunto di condurre ed orientare l’attività sia delle amministrazioni aggiudicatrici sia degli operatori economici, affermare che le amministrazioni sono tenute a richiedere agli operatori economici la dimostrazione del possesso dei requisiti, utilizzando esemplificativamente la possibilità di richiedere iscrizioni in registri come quello delle imprese?
I problemi che qui si sollevano non sono di lana caprina. E’ certamente molto anglosassone fissare il diritto con frasi ipotetiche, dallo stile sostanzialmente poco invasivo. Ma, è proprio degli anglosassoni percepire una perifrasi ipotetica come un’indicazione chiara e precisa.
In un Paese nel quale norme, invece, talvolta positive e precettive piuttosto chiare si prestano comunque all’interpretazione abrogante o alla lettura del tutto ellittica rispetto al loro significato, ha proprio senso e coerenza dare indicazioni con linee guida che aprono alle più svariate chiavi di lettura?
La domanda è, ovviamente, retorica. La risposta sarebbe affermativa se fosse lasciato davvero alle amministrazioni lo spazio per esercitare una discrezionalità piena ed ampia, senza dover passare, poi, per le forche caudine di controlli che dovrebbero essere collaborativi ma si rivelano regolarmente pervasivi e limitanti proprio degli spazi di autonomia o, comunque, senza esporsi alle mille insidie che interpretazioni troppo aperte lasciano nelle sedi giurisdizionali.
Insomma, un diritto morbido, soft, facilmente aggiornabile e adeguabile alle esigenze in evoluzione può anche essere considerato utile. Ma a condizione che un sistema di linee guida abbia la capacità di fornire indicazioni operative chiare, con una prosa non burocratica, sì, ma tale da non lasciare margini di incertezza.
Non appare certo produttivo passare dalla forse illusoria “certezza del diritto”, alla “ipoteticità del diritto”.
Soprattutto, poi, se questo stile ovattato è seguito in modo incoerente. Si prendano ad esempio le linee guida sul responsabile unico del procedimento. In questo caso, con espressioni tutt’altro che aperte o ipotetiche, l’Anac esclude radicalmente la possibilità che siano incaricati come Rup per forniture o servizi dipendenti che dispongano del diploma di qualsiasi liceo, perché l’autorità, per i contratti sotto la soglia di rilievo comunitario, impone un diploma rilasciato da un istituto tecnico e non fa alcun riferimento alla qualificazione professionale acquisita o acquisibile con l’esperienza lavorativa.
Una scelta in larga misura criticabile sia nel merito, perché appare non sorretta da ragioni tecniche chiare, sia in relazione alla valutazione sull’impatto organizzativo. Pare evidente che non si sia tenuto conto che tale limitazione, tutt’altro che soft, limiterà in modo rilevante il numero dei soggetti incaricabili, innescando il problema della ricerca di personale in possesso del diploma tecnico presso strutture organizzative diverse da quella competente all’esecuzione della fornitura o del servizio, allo scopo di assegnare a dipendenti anche non appartenenti all’unità organizzativa responsabile la funzione di Rup. Con gli immaginabili problemi di carichi di lavoro, compatibilità e di accordare responsabili di servizi diversi.
Sfugge il perché di questa limitazione ai diplomi tecnici. Si pensi ai servizi sociali: non ha oggettivamente senso che essi siano affidati ad un Rup che disponga di un diploma tecnico industriale, invece che un diploma di liceo delle scienze umane.
Le Linee Guida dell’Anac scontano il problema di dare per scontato che tutte le amministrazioni sono di grandi dimensioni e, quindi, capaci di distribuire molto il lavoro tra tanti dipendenti. Allo stesso modo, l’Anac indulge eccessivamente nella presupposizione che le attività concernenti gli appalti siano solo di matrice tecnica. Per altro, le Linee Guida finiscono per invadere fin troppo sia il campo dell’autonomia organizzativa degli enti, sia quello della disciplina del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici, che è riservato alla legge dello stato (o delle regioni) ai sensi dell’articolo 117 della Costituzione.
Al di sopra della soglia comunitaria, sempre per forniture e servizi, l’Anac, sempre deviando dal “diritto morbido” impone il possesso della laurea. In questo caso, però, non si richiede una laurea specifica. Quindi, per ipotesi, un laureato in matematica potrebbe fare il Rup dei servizi sociali. In effetti, il possesso della laurea potrà servire in parte a risolvere l’impasse degli incarichi di Rup nel sotto soglia: infatti, un Rup laureato, se può essere incaricato nel sopra soglia, può esserlo anche nel sotto soglia, sebbene la laurea non sia “tecnica”. Certo, si tratta di un caos che poteva e doveva essere risparmiato.
Nel caso di appalti, a prescindere dal valore, caratterizzati da particolare complessità o dalla necessità di specifiche competenze, però, occorrerà un titolo di studio adeguato alle materie oggetto dell’affidamento.
Non esiste, nel d.lgs 50/2016, una definizione della “particolare complessità” di forniture e servizi. Sarà, allora, nell’autonomia degli enti stabilire, caso per caso, se il contratto sia di particolare complessità e/o se richieda il possesso del titolo di studio nella specifica materia. Ma, anche in questo caso: non sarebbe stato opportuno che la soft law desse un valore aggiunto di chiarezza?
La specifica competenza tecnica potrebbe permettere anche nel sotto soglia di utilizzare diplomi non tecnici, come nel caso esemplificato prima dei servizi sociali attribuiti ad un Rup diplomato in scienze umane, con specifico indirizzo di studio di carattere sociale.
Altro problema che pongono le Linee Guida riguarda l’incompatibilità. Secondo l’Anac il ruolo di Rup è incompatibile con le funzioni di commissario di gara e di presidente della commissione giudicatrice, ai sensi dell’articolo 77, comma 4, del d.lgs 50/2016. Si tratta di un altro problema operativo non di poco conto: la previsione non appare di facile applicazione nei comuni, nei quali dirigenti e responsabili di servizio spesso coincidono col Rup. Ma, ai sensi dell’articolo 107, comma 3, del d.lgs 267/2000, essi debbono necessariamente far parte della commissione di gara (si tratta di quella vera e propria, richiesta per l’offerta economicamente più vantaggiosa).
La recente sentenza del Consiglio di stato, Sez. V, 23 giugno 2016, n. 2812 va in questa direzione, sebbene riferita all’articolo 84, commi 3 e 4, del d.lgs 163/2006, oggi aboliti. Tali norme specificavano con chiarezza che presidente della commissione deve essere un dirigente. Ma, a tale compito, specificamente per gli enti locali, continua ad assolvere il citato articolo 107, comma 3, lettera b), che assegna ai dirigenti la responsabilità delle procedure di gara, dalle quali difficilmente si può eliminare il compito specifico di presiedere la commissione di gara.
Per questa specifica situazione, le Linee Guida si sono mostrate tutt’altro che “soft” ed aperte a soluzioni organizzative interne, dettando dall’alto moduli organizzativi astratti, operabili, però, solo per pochi enti di rilevanti dimensioni.
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