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martedì 12 luglio 2016

Riforma della dirigenza: la realtà stravolta dal sottosegretario Rughetti



Con l’intervista rilasciata dal sottosegretario alle riforme Angelo Rughetti a Il Sole 24 Ore del 12 luglio, dal titolo “Con la riforma Pa dirigenti più capaci e meno "relazionali"” si va ben oltre, ormai, il paradossale ed il dadaismo.

Due elementi emergono:
1)      le affermazioni finali del sottosegretario sono l’esatto contrario degli effetti, del contenuto e del significato della riforma della dirigenza avviata dalla legge 124/2015;
2)      l’intervista ha avuto il semplice scopo di fare da cassa di risonanza, perché nulla è stato obiettato rispetto alle affermazioni del sottosegretario, assolutamente stravolgenti la realtà.
Mentre per il secondo punto non si può che rassegnarsi, è opportuno spostare l’attenzione sul merito delle dichiarazioni del sottosegretario, per fornire quegli elementi di valutazione ed approfondimento purtroppo mancati nell’articolo.
Ecco cosa ha dichiarato il Rughetti: “Che cosa accade oggi? Con uno scritto e orale reclutiamo dirigenti che poi ottengono incarichi a discrezione dei politici. Con la riforma puntiamo sulle competenze, formiamo a risolvere problemi, non a darci pareri giuridici, e introduciamo metodi di selezione su esami obiettivi del curriculum affidati a commissioni di esperti. Così si affievolisce il potere della politica e si punta ad avere una dirigenza meno "relazionale"”.
In pochissime parole, un condensato nel quale non manca nessuno degli ingredienti di 25 anni di riforme della pubblica amministrazione fallimentari, portate avanti sempre dallo stesso trust di pensatori e consulenti, che invece di essere messi alla porta dopo la prima fallimentare idea, continuano ad influenzare i contenuti normativi.
L’insieme sgradevolissimo delle dichiarazioni del sottosegretario deve essere analizzato per disaggregazione.
Partiamo dalla prima affermazione, consistente nella sostanza in una denigrazione del concorso pubblico, ridotto ad “uno scritto e orale”.
Un’affermazione davvero inaccettabile, partendo dall’idea che il Rughetti non può non sapere queste minime notizie in merito al reclutamento della dirigenza:
1.      prima di fare il concorso per essere assunti come dirigenti:
a.       bisogna essersi prima laureati;
b.      è necessario aver vinto in precedenza un altro concorso per accedere ad una qualifica di funzionario, che consenta l’accesso alla dirigenza;
c.       aver operato per almeno 5 anni in questa qualifica;
d.      aver acquisito esperienza lavorativa ed aver, ovviamente, intrapreso anche studi ed approfondimenti;
e.       oppure, in alternativa, è possibile accedere mediante il sistema (non troppo diffuso) del corso-concorso gestito dalla Scuola superiore della Pubblica Amministrazione, un biennio molto duro di vero e proprio praticantato;
f.       oppure, ancora, come nel caso della categoria dei segretari comunali che la riforma Madia intende abolire, si accede al concorso e si progredisce in carriera con successivi lunghissimi percorsi di formazione selettivi e concorsuali;
2.      chi intende puntare sull’accesso alla dirigenza compie un investimento in formazione in spese di partecipazione (tasse concorsuali, trasferte, soggiorni) molto elevato;
3.      chi punta all’accesso alla dirigenza è disposto ad una forte mobilità territoriale anche per migliaia di chilometri (non per tragitti come, per esempio Rieti-Roma);
4.      le prove selettive non consistono affatto in “uno scritto e un orale”; si tratta, generalemente, sempre di almeno tre scritti, nell’ambito dei quali accanto all’approfondimento tecnico generale vi sono sempre anche prove connesse alla soluzione di problemi operativi tecnici ed indicazioni di organizzazione; il cosiddetto “orale”, poi, spazia in un ventaglio di materie molto ampio che contempla, anche quando la professionalità sia tecnica, economica e di altra componente non giuridica, comunque conoscenze fondamentali su procedimento amministrativo, trasparenza, informatizzazione, organizzazione aziendale, reati contro la pubblica amministrazione, misure anticorruzione, conoscenza della disciplina di funzionamento interno dell’ente che indice il concorso; a queste basi si aggiungono, poi, le cognizioni approfondite sulle materie specifiche oggetto della valutazione;
5.      il concorso pubblico è previsto dalla Costituzione, che, sul punto, non è nemmeno stata interessata dalla riforma ancora in attesa di referendum confermativo.
La conoscenza approfondita che sicuramente un sottosegretario deve possedere su questi elementi assolutamente basici evidenziati sopra avrebbe dovuto consigliare di non ridurre l’accesso alla dirigenza ad uno “scritto e orale”, come se tutti i dirigenti fossero stati reclutati pro forma. Basterebbe chiedere alle tante migliaia di funzionari che hanno partecipato negli anni ai concorsi, senza fortuna.
La seconda affermazione è ancora meno fondata: il Rughetti vuol dare l’idea che nell’attuale sistema una volta reclutato il dirigente ottenga un incarico per intercessione e “generosità” del politico.
Le cose non stanno affatto così. Attualmente, non esiste un ruolo unico nazionale della dirigenza. Sicchè, ogni ente dispone di una propria dotazione organica di posti dirigenziali, che viene (quando possibile in base ai moltissimi vincoli alle assunzioni) “popolata” con concorsi, volti ad immettere in servizio i dirigenti necessari a presidiare i vertici organizzativi vacanti. Nell’ambito della dirigenza statale, la contrattazione collettiva pone con estrema evidenza (un po’ più sfocata in contratti di altri comparti, come negli enti locali) il diritto del dirigente ad un incarico, consistente, simmetricamente, nel dovere dell’amministrazione pubblica di affidare la gestione amministrativa delle proprie strutture ai dirigenti appositamente assunti allo scopo.
Quindi, non è per nulla vero che i dirigenti reclutati con lo scritto e l’orale ottengano gli incarichi (il verbo “ottenere” è volutamente utilizzato in senso dispregiativo). Al contrario, maturano un diritto ad essere incaricati, ovviamente condizionato alla valutazione della capacità effettiva di condurlo con profitto e capacità.
La terza affermazione è che grazie alla riforma:
a)      si punta sulle competenze;
b)      formando a risolvere problemi, non a dare pareri giuridici.
In due frasi, la summa delle banalità pseudo aziendalistico manageriali che da anni inquinano le riforme (sempre epocali) della pubblica amministrazione ed incidono in particolare sul rapporto di lavoro pubblico, rendendolo sempre più precario e tendenzialmente asservito alla politica (anzi ai partiti) e meno tecnicamente autonomo e valutabile.
L’affermazione che la riforma punti sulle “competenze” è lo scimmiottamento delle teorie socio-economico-lavoristiche che indicano l’opportunità della formazione, della valorizzazione degli skills e che puntano sull’impiego di quante più parole inglesi possibili, per dare enfasi a concetti semplici. Ma affermare che la riforma punti sulle competenze come se fosse un evento nuovo e, dunque, come se prima ciò non fosse mai avvenuto è come sostenere che sin qui la dirigenza sia un esercito di incompetenti o, comunque, lasciar passare sotto traccia questa idea.
Ma, il Rughetti sa certamente che anche la riforma Madia continua a contemplare l’accesso alla dirigenza mediante corsi-concorsi o concorsi, esattamente come adesso. Dunque, l’investimento speciale e particolare sulle “competenze” francamente non si sa dove reperirlo.
Ancora più degna di un ragionamento da assessore minore di un comune di campagna è quello relativo alla formazione del dirigente a “risolvere problemi” invece di fornire “pareri giuridici”.
Nel mondo parallelo del Rughetti e di tanti, troppi consulenti ed esperti di pubblica amministrazione, le parole “azienda”, “manager”, “stakeholders”, “programmazione”, “relazioni industriali”, configurano una realtà nella quale un ente pubblico agisce appunto come un azienda, ha un proprio budget, dispone di obiettivi di mercato, realizza un fatturato ed utili, seleziona la clientela, lascia al management la fissazione dei processi di sviluppo del prodotto, libertà di investimento, autonomia negoziale e piena responsabilità operativa.
Ma, questo mondo parallelo non esiste. La contrattazione collettiva integrativa, che dovrebbe essere il simbolo della funzione “manageriale” di “sviluppo” delle “risorse umane” potrà anche non essere soggetta a “pareri giuridici”, per essere, invece, retta in modo da “risolvere problemi”. Tuttavia, poi, chi ci mette gli occhi sono i servizi ispettivi del Mef e la Corte dei conti, che fanno le pulci sul rispetto dei cavilli e codicilli di una disciplina normativa ipertrofica e folle, che costringerebbe qualsiasi manager patentato e testato proveniente da qualsiasi multinazionale ed esperto in relazioni industriali a diventare per forza un leguleo obbligato a slalomeggiare tra i mille vincoli imposti dalle leggi che, sia consentito sottolineare, sono frutto dell’azione della politica, non dei dirigenti. Oppure, quando la legge o la contrattazione collettiva lasciano margini, occorre districarsi tra interpretazioni assurdamente restrittive dei citati servizi ispettivi, della magistratura contabile, dell’Aran, della Funzione Pubblica, spesso, per altro, per nulla condivise dai giudici del lavoro, in un cortocircuito istituzionale isterico.
Il Rughetti non può non sapere che questa situazione si estende a tutti gli ambiti dell’agire pubblico (appalti, espropri, commercio, contributi a terzi, sanità, e quant’altro). Né può ignorare che la funzione della dirigenza non è risolvere un problema ma contestualmente violando le leggi. E’ vero che la riforma Madia evidenzia la volontà della politica di fare della dirigenza pubblica uno “scudo” contro la responsabilità erariale, in modo che i dirigenti si addossino sempre le responsabilità gestionali allargando a dismisura l’esimente politica. Ma, guardando sempre alla Costituzione, ancora una volta non toccata sul punto, compito dei dipendenti pubblici e dei dirigenti è rendere servizio alla Nazione, non alla maggioranza o alla persona fisica che ricopre la carica pubblica pro tempore. I dirigenti non hanno il compito di fare da parafulmine e risolvere i problemi a prescindere dalle norme: il primo problema da risolvere, purtroppo, è proprio quello di comprendere le norme ed applicarle correttamente, perché nessun problema può essere efficacemente risolto se non si rispettano le regole fissate. Si chiama “principio di legalità” e un Governo che costituisce l’Anac e le affida così rilevanti compiti operativi si presuppone che lo sappia molto bene.
Infine, le ultime tre affermazioni:
1)      introduciamo metodi di selezione su esami obiettivi del curriculum;
2)      affidati a commissioni di esperti.
3)      così si affievolisce il potere della politica e si punta ad avere una dirigenza meno "relazionale.
In quanto alla prima di questa serie. La selezione sui curriculum non ha lo scopo di reclutare i dirigenti, bensì di attribuire gli incarichi dirigenziali. Per un verso, quanto afferma il sottosegretario è un po’ la ripetizione della teoria secondo la quale nella PA è opportuno introdurre i metodi di recruiting propri del privato, basati molti sulla verifica dei curriculum.
Potrebbe anche essere utile, ma è opportuno ricordare che fin qui se non si è dato rilievo adeguato ai curriculum è per responsabilità degli organi di governo, non per assenza né dell’idea, né dell’indicazione normativa. Gli incarichi dirigenziali, infatti, si assegnano nel rispetto dell’articolo 19, comma 1, del d.lgs 165/2001, ai sensi del quale per attribuirli si deve tenere conto “in relazione alla natura e alle caratteristiche degli obiettivi prefissati ed alla complessità della struttura interessata, delle attitudini e delle capacità professionali del singolo dirigente, dei risultati conseguiti in precedenza nell'amministrazione di appartenenza e della relativa valutazione, delle specifiche competenze organizzative possedute, nonché delle esperienze di direzione eventualmente maturate all'estero, presso il settore privato o presso altre amministrazioni pubbliche, purché attinenti al conferimento dell'incarico”.
La cosa davvero stucchevole è che mentre l’attuale normativa indica di fare riferimento, come ovvio, al curriculum ed in particolare ai risultati conseguiti, la riforma Madia disancora totalmente gli incarichi dai risultati, perché slega totalmente lo svolgimento degli incarichi dall’appartenenza ad un ruolo di una pubblica amministrazione, visto che i dirigenti dipenderanno da una melassa informe, qual è il ruolo unico. Dunque, ogni volta l’assegnazione degli incarichi sarà un’ordalia, realizzata senza tenere nella minima considerazione l’elemento fondamentale: la capacità del dirigente di conseguire i risultati previsti, che, in caso affermativo, dovrebbe essere ovvia base per una riconferma invece, dopo il perido di 4+2 anni massimo possibile presso una PA, impossibile.
La valutazione dei curriculum, è la seconda affermazione, sarà affidata ad una commissione di esperti. E la terza si congiunge a questa, lasciando immaginare che la politica venga estromessa del tutto, perché saranno le commissioni ad indicare il dirigente più adeguato al caso.
Il fatto è che non sarà per nulla così. Le commissioni di “esperti” in primo luogo, anche se denominate come “indipendenti” saranno composte da soggetti incaricati dalla politica: il che crea un irrimediabile cortocircuito, perché è ovviamente impossibile l’indipendenza dalla politica di organi nominati dalla politica (come insegna, ad esempio, l’esperienza fallimentare dell’attività degli organismi “indipendenti” di valutazione e dei revisori dei conti negli enti locali). In ogni caso, le commissioni non avranno l’ultima parola: si limiteranno a produrre rose di candidati, tra le quali sceglieranno, poi, con totale discrezionalità (che significa arbitrio) gli organi di governo.
Sicchè, la riforma della dirigenza esattamente all’opposto di quanto afferma il sottosegretario Rughetti sarà l’incentivo ad una dirigenza solo “relazionale”, perché la capacità di “tesserarsi” e “vendere la propria immagine” sarà fondamentale per avere l’appeal necessario ad essere il “prescelto” nell’ambito delle “rose”.
Infine, una considerazione finale. Nell’ambito della dirigenza ovviamente vi saranno tanti che abbiano fondato la loro carriera anche ed appunto sulle “relazioni”. Non vi è dubbio che tra questi spicchino in particolare i dirigenti “esterni”, quelli incaricati “a contratto”, senza passare per alcun concorso o prova selettiva.
La riforma della dirigenza non incide minimamente si questa dirigenza di per sé “relazionale” e “politicizzata”, ma anzi ne favorisce l’immissione ai vertici organizzativi della PA. A conferma che si tratta di una riforma i cui strumenti, metodi ed intenti sono totalmente all’opposto di quelli indicati dal Rughetti.
Il quale, per altro, sa bene cosa si intenda per dirigenza “relazionale”, avendo ottenuto – indiscutibilmente per meriti e curriculum – diversi incarichi in altrettante pubbliche amministrazioni o associazioni di enti locali o enti e società a partecipazione pubblica un notevole numero di incarichi da dirigente “a contratto”, molto “relazionale”, tanto da aver poi tradotto – legittimamente – tale esperienza in una funzione più spiccatamente politica e di governo.
Allora, basta essere chiari. Se il modello di dirigenza cui punta il Rughetti e la riforma è quello di un insieme di soggetti che debbono risolvere problemi facendo da parafulmine senza impicciarsi troppo delle leggi, per poi avere lo sbocco politico, la strada è chiara ed è stata sostanzialmente tracciata, per esempio, a Milano, dove il direttore generale, esterno, del comune, è stato nominato commissario dell’Expo e poi candidato sindaco.
Ma, sarebbe interessante se questo modello, di totale compressione della dirigenza verso l’appartenenza politica (in contrasto con l’articolo 98 della Costituzione), venisse enunciato e spiegato per quello che è e non propagandato per il suo esatto contrario, facendo passare anche i moltissimi dirigenti che hanno acquisito qualifica ed incarichi per concorsi, nel rispetto assoluto delle direttive della politica, ma in autonomia dai partiti, come soggetti che sono andati avanti solo con la “spintarella” seguita al concorsucolo con “uno scritto e un orale”. Anche qui un po’ di trasparenza di pensiero non farebbe male: questa dirigenza dà fastidio, perché non fa da parafulmine ed ha la pretesa di risolvere i problemi e contestualmente anche rispettare le norme. Si dica che la si vuole fare fuori e che il modello da seguire è solo e soltanto quello del dirigente con tessere in tasca e rubrica telefonica molto ricca.



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