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mercoledì 17 agosto 2016

Produttività nel pubblico impiego: tutti ne parlano, nessuno sa cosa sia


Nei prossimi giorni il tema della remunerazione del lavoro pubblico si appresta a diventare progressivamente sempre più caldo.
Infatti, si avvicinano i termini di scadenza per l’esercizio delle deleghe previste dalla legge 124/2015 per riformare il lavoro pubblico e, contestualmente, i sindacati stanno iniziando un forte pressing per ottenere il riavvio della contrattazione nazionale collettiva, evidenziando la assoluta insufficienza della previsione della legge 208/2015 di uno stanziamento di soli 300 milioni.

Le due questioni, riforma e riavvio della contrattazione collettiva nazionale (ferma dal 2009) si intrecciano quando, correttamente, si afferma il ruolo strategico della “produttività”.
E’ evidente che in presenza di risorse limitate, il ritocco dei trattamenti economici dovrà necessariamente privilegiare i compensi legati specificamente ed in modo selettivo alla produttività: incrementi salariali per tutti, trasversalmente distribuiti non sono oggettivamente pensabili.
Per altro, se davvero riparte la contrattazione e saranno stipulati i contratti nazionali collettivi di lavoro, scatterà l’applicazione di quella parte della riforma-Brunetta (anch’essa risalente al 2009) fin qui restata solo sulla carta e concernente proprio la definizione del sistema di attribuzione dei premi di produttività. Si tratta delle famigerate “fasce” di valutazione, finalizzate ad irreggimentare in una visione dirigistica che priva completamente gli enti e i datori di lavoro pubblici di ogni autonoma “leva” nella gestione del personale, imponendo di attribuire il 50% delle risorse al 25% del personale più produttivo, il restante 50% al 50% del personale di produttività “media”, nulla, invece, per il restante 25% del personale.
Un sistema posto ad evitare l’erogazione “a pioggia” uguale per tutti, ma altrettanto deleterio, perché crea un meccanicismo assolutamente incompatibile con ogni politica di gestione del personale. A conferma che, quando si parla di aziendalismo, responsabilità dei dirigenti come datori di lavoro e come “manager”, spesso si ragiona a vanvera per slogan, senza tenere conto della realtà e delle norme. Nessun dirigente pubblico potrebbe agire davvero da “manager” del proprio personale col sistema di gestione della produttività previsto dalla legge, che la riforma Madia non pare intenda eliminare ma solo correggere, magari incrementando le fasce retributive, senza però rinunciare all’impronta dirigistica della legge-Brunetta.
Accanto a questi problemi, talmente rilevanti da aver appunto prodotto uno stallo nell’applicazione della riforma-Brunetta perdurante dalla bellezza di 7 (sette!) anni, se ne pone, poi, un altro, ben più fondante e decisivo: quello della definizione di cosa consista la produttività.
E’ inutile ragionale di come distribuire le risorse, se prima non risulti chiaro quali siano i criteri per distribuirle. E tali criteri non possono che essere quelli posti a valutare le prestazioni lavorative, in modo da fissare i pesi e misuratori con i quali poi redigere gli atti di valutazione, sulla base dei quali assegnare il salario di produttività.
Non vi dovrebbero essere troppe difficoltà ad applicare sistemi di valutazione della produttività nel lavoro pubblico, se, di mezzo, non vi fossero tantissima parte della dottrina, Corte dei conti, Aran e servizi ispettivi del Mef i quali hanno della produttività stessa un’idea piuttosto inconciliabile con la sua definizione. La produttività, infatti, in termini molto sintetici, non è che un rapporto tra risorse per svolgere un lavoro e prodotti del lavoro svolto. Se a parità di risorse il prodotto aumenta, la produttività aumenta; se diminuendo le risorse il prodotto resta uguale, la produttività aumenta lo stesso. Immaginiamo che per erogare un certo servizio un comune spenda 1000, utilizzando 100 ore di lavoro, ottenendo come risultato 500 provvedimenti finali. Ogni ora di lavoro costa 10; ogni provvedimento costa 0,2. Se la spesa passa da 1000 a 800, fermi restando gli altri parametri, ogni ora di lavoro costa 8, ogni provvedimento costa 0,16. Se la spesa resta 100, ma le ore di lavoro vanno a 75, fermi restando i 500 provvedimenti finali, ogni ora di lavoro costa 13,33, ogni provvedimento costa 0,02.
Come si nota, quindi, se si concentrasse l’attenzione sul rapporto (che nella realtà è ovviamente più complesso) input/output la produttività potrebbe essere misurata e dimostrata, anche al di là della formalizzazione in complicati “progetti di miglioramento”. Tantissimi enti, soprattutto i comuni, investiti in questi anni da una fortissima riduzione del personale e, quindi, del numero di ore disponibili e del costo complessivo del lavoro, potrebbero valutare la crescita della propria produttività in maniera semplicissima.
Da questo orecchio, però, i soggetti indicati prima proprio non vogliono sentire. La produttività è erroneamente percepita solo ed esclusivamente come incremento quali quantitativo del prodotto, legato ad un sostanzialmente simmetrico incremento degli input. Confondendo la produttività con l’incremento della produzione.
L’orientamento applicativo 1635 dell’Aran è ben rappresentativo di questo modo distorto di concepire la produttività: parlando del meccanismo previsto dall’articolo 15, comma 5, del Ccnl 1.4.1999, l’Aaran ritiene che “ Si tratta di una previsione che, ai fini della sua concreta applicazione, richiede una serie di numerosi, complessi e rigorosi adempimenti. In tale ambito, assume un carattere di assoluto rilevo e necessità la predisposizione di specifici progetti di miglioramento dei servizi, con l’indicazione degli obiettivi da conseguire, degli standard di risultato, dei tempi di realizzazione, dei sistemi di verifica a consuntivo (si dovrebbe trattare di obiettivi indicati anche nel PEG o in altro analogo documento di programmazione della gestione o comunque individuati nell’ambito di questi). Non si tratta quindi della definizione di semplici progetti finalizzati che, come tali, possono ritenersi sufficienti a giustificare un incremento delle risorse decentrate variabili, ma di progetti specifici e di più incisiva portata, finalizzati ad un innalzamento – oggettivo e documentato – della qualità o quantità dei servizi prestati dall'ente, che deve tradursi in un beneficio per l'utenza esterna o interna. I risultati promessi, come specificati nel progetto, devono essere verificabili attraverso standard, indicatori e/o attraverso i giudizi espressi dall'utenza. Per poter dire – a consuntivo – che c'è stato, oggettivamente, un innalzamento quali-quantitativo del servizio, è necessario, quindi, poter disporre di adeguati sistemi di verifica e controllo. A tal fine, occorre definire, sempre in via preventiva, uno standard di miglioramento, che rappresenti il termine di paragone che consente di apprezzare la bontà di un risultato. Occorre, anche evidenziare, che la preventiva predisposizione del progetto assume importanza anche sotto un altro profilo. Infatti, poiché i progetti individuano i servizi che l'ente pensa di poter migliorare ( non si può pensare a generici miglioramenti dei servizi o delle attività complessive dell’ente con il coinvolgimento di tutto il personale) attraverso la leva incentivante delle "maggiori risorse decentrate", nonché i percorsi e le misure organizzative attraverso le quali intervenire, essi delimitano anche i lavoratori destinatari dei possibili incentivi economici. Infatti, la clausola contrattuale non ha inteso predisporre uno strumento, con portata generica e generale, di incremento delle risorse destinate agli incentivi di produttività di tutto il personale comunque in servizio ”.
La Corte dei conti si appiattisce totalmente su queste concezioni, fatte proprie spessissimo dai servizi ispettivi per attivare i defatiganti procedimenti di contestazione dei contratti decentrati. Giungendo a conclusioni ancor più radicali e meno connesse ai corretti sistemi di valutazione della produttività. Si veda, ad esempio, il parere della Sezione regionale di controllo del Veneto 4.5.2016, n. 263: “ il personale interno deve avere un ruolo importante nel loro conseguimento. Devono cioè essere “risultati ad alta intensità di lavoro”, che si possono ottenere grazie ad un maggiore impegno delle persone e a maggiore disponibilità a farsi carico di problemi (per esempio, attraverso turni di lavoro più disagiati) ”. E’ rimarchevole l’insistenza sull’ampliamento dei turni e dell’orario, segnali chiarissimi della visione distorta della produttività come incremento della prestazione lavorativa e non del rapporto input/output.
Ma, nel sistema privato, sempre preso a riferimento, parametro e confronto per discettare di lavoro pubblico, le cose stanno così? Cioè, l’assegnazione del salario di produttività deve essere collegato necessariamente a complessi progetti da cui discenda l’incremento dei servizi erogati, o comunque una prestazione lavorativa maggiore ed ulteriore a quella ordinariamente richiesta al lavoratore, tale, per altro, da imporre una differenziazione globale così minuta da escludere attribuzioni di premi “aziendali”, per riferirli quasi al livello di singolo dipendente?
Diremmo proprio di no. Per convincerci, basta dare un’occhiata attenta al decreto del Ministero del lavoro 25 marzo 2016, attuativo dell’articolo 1, comma 182, della legge 208/2015, che ha reintrodotto gli sgravi appunto per il salario “di produttività”. Detto decreto in allegato approva una scheda di monitoraggio delle caratteristiche dei contratti aziendali, per valutare se essi abbiano i requisiti perché le aziende possano accedere agli sgravi. La Sezione 6 di questo modulo, titolata “Indicatori previsti nel contratto” è molto istruttiva, perché contiene 19 possibili indicatori: eccoli:
1) Volume della produzione/n. dipendenti
2) Fatturato o VA di bilancio/n. dipendenti
3) MOL/VA di bilancio
4) Indici di soddisfazione del cliente
5) Diminuzione n. riparazioni, rilavorazioni
6) Riduzione degli scarti di lavorazione
7) % di rispetto dei tempi di consegna
8) Rispetto previsioni di avanzamento lavori
9) Modifiche organizzazione del lavoro
10) Lavoro agile (smart working)
11) Modifiche ai regimi di orario
12) Rapporto costi effettivi/costi previsti
13) Riduzione assenteismo
14) N. brevetti depositati
15) Riduzione tempi sviluppo nuovi prodotti
16) Riduzione dei consumi energetici
17) Riduzione numero infortuni
18) Riduzione tempi di attraversamento interni lavoraz.
19) Riduzione tempi di commessa.
Come si può agevolmente notare, il decreto individua indicatori di produttività che, per la maggior parte, si estendono alla totalità dell’azienda e, quindi, ai dipendenti: ne sono un chiaro segno i punti 1, 2, 3, 7, 8, 12, 13, 16, 18 e 19. Vi sono, poi, indicatori più specifici, ma sostanzialmente il decreto punta su rapporti tra risorse e prodotti.
Se un ente locale prevedesse nel proprio contratto decentrato un criterio come quello della riduzione dell’assenteismo o della riduzione degli interventi correttivi sugli atti (parallelo alla riduzione degli scarti di lavorazione), probabilmente nessuna ispezione e nessuna procura della Corte dei conti, ma neanche l’Aran, glielo perdonerebbe e si attiverebbero, con tuoni e fulmini, procedure per danno erariale e restituzione del salario accessorio.
Certo, occorre maneggiare la produttività nel lavoro pubblico con estrema cura, perché si tratta di risorse pubbliche. Ma, non è da dimenticare che anche gli sgravi alle aziende per il salario di produttività sono risorse pubbliche, corrispondenti a minori entrate di imposte. Non si capisce, dunque, perché a parità di natura pubblica delle risorse gestite, la concezione di salario di produttività nel lavoro pubblico debba essere oggetto di bizantine contorsioni acrobatiche, mentre nel sistema privato si ha la capacità piena di individuare la produttività per quello che. A tacere, per altro, del fatto che spessissimo i contratti aziendali connettono la produttività banalmente alla presenza in servizio, alle ore di lavoro prestate ed agli straordinari (basta dare un’occhiata in rete agli accordi stipulati), cosa che nel lavoro pubblico desterebbe solo l’ira funesta dei numi.
La speranza (certamente vana) allora è che accanto alla voglia di fare riforme sempre “epocali”, qualcuno abbia la curiosità di guardare davvero nel dettaglio ciò che si fa nel privato e non si lasci trasportare dal sentito dire, per rivedere i sistemi di valorizzazione della produttività alla luce dei semplici e chiari strumenti utilizzati nel sistema privato appunto, abbandonando le contorsioni normative, che fin qui hanno solo prodotto contenziosi e sanatorie (per altro mal riuscite).

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