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giovedì 11 agosto 2016

Riforma della dirigenza: l’inganno della “meritocrazia”


L’articolo di Sergio Rizzo “La resistenza dei «mandarini» dello Stato - I «mandarini» di Stato all`ultima trincea Un rebus i premi al merito”, pubblicato sul Corriere dell’11 agosto 2016 in merito allo slittamento della riforma della dirigenza pubblica è, come al solito, un condensato di retorica populista, molto attento alla “pancia” a scopo (legittimo) di vendita, poco analitico delle complesse questioni tecniche di una normativa nel complesso pessima.

Tuttavia, pur in un contesto di facile populismo ed acritica adesione alla riforma, l’articolo pone una questione fondamentale: “ Una rivoluzione della dirigenza pubblica così impostata può funzionare unicamente se funziona la giusta premessa sulla quale si basa tutto: la valutazione del merito … Perché questa riforma della dirigenza faccia fare alla nostra Pubblica amministrazione quel salto di qualità che il governo ci assicura, servono dunque valutazioni indipendenti, serie e perciò credibili ”.
Il tema è affrontato ancora meglio da Corrado Giustiniani su Il Secolo XIX sempre dell11 agosto 2016 nell’articolo “ E’ sempre zoppa la riforma della pubblica amministrazione”: “ La riformite è una malattia che blocca la dirigenza, anziché rilanciarla. Non era meglio prendere di petto un solo problema, ad esempio quello dei premi risultato, scandalosamente attribuiti, e ai livelli massimi, a tutti i dirigenti, a prescindere dal loro impegno? ”.
Ora, i cantori della riforma vogliono persuadere che grazie ad essa sarà appunto valorizzato il merito e garantita l’autonomia dei dirigenti dalla politica per le seguenti ragioni:
1) i dirigenti saranno inseriti in un ruolo unico, che raccoglierà le loro anagrafiche, con i curriculum e le valutazioni ottenute;
2) per ottenere gli incarichi, i dirigenti dovranno rispondere ad avvisi pubblici, che rendano noti i posti da ricoprire, indicando i requisiti di professionalità necessari;
3) le domande saranno valutate da apposite commissioni “indipendenti”, che selezioneranno una rosa di curriculum rispondenti alle esigenze.
Il sistema previsto dalla riforma, tuttavia, produrrà esattamente l’effetto opposto, di creare uno spoil system selvaggio e di asservire totalmente la dirigenza alla politica per due aspetti fondamentali:
a) le commissioni sono qualificate dalla legge come “indipendenti”, ma saranno di nomina politica; difficile che la scelta delle rose non sarà influenzata da un complesso intreccio di relazioni dirigenti – politica – commissioni, destinato a rendere la scelta più una distribuzione alla Cencelli, che non un processo valutativo;
b) in ogni caso, anche laddove le commissioni sapessero, potessero e volessero essere realmente indipendenti, comunque la scelta definitiva del dirigente da incaricare spetta alla politica, che potrà scegliere a proprio arbitrio tra i dirigenti delle rose: basterà che nelle rose non manchi mai quel dirigente che è noto essere gradito o “in quota”.
Il sistema di valutazione previsto dalla riforma si dà per “meritocratico”. E’ Sergio Rizzo ad esultare: “ È grazie ai buoni risultati del suo operato che il dirigente può fare carriera, avere uno stipendio migliore, aspirare a passare a incarichi di responsabilità sempre maggiore. Restando indipendente ”.
Ma, questa affermazione, valida solo in astratto, è smentita dai fatti (compreso il fatto che i dirigenti non “fanno carriera” aspirando a stipendi migliori, perché l’ordinamento non prevede incasellamenti stipendiali legati a progressioni di carriera, inesistenti). Il sistema previsto dalla norma, come detto, attribuisce alle commissioni nazionali, una per ruolo unico, il compito di confrontare la professionalità dei dirigenti aspiranti ad incarichi, sulla base dei curriculum e dei risultati ottenuti.
L’impresa, tuttavia, è praticamente impossibile perché:
a) non esiste un sistema univoco di valutazione, tale da rendere minimamente comparabile l’esito della valutazione di un dirigente operante in un certo ente, con l’esito della valutazione elaborata con un altro dirigente operante in un altro ente;
b) le commissioni, quindi, non potranno confrontare grandezze comparabili tra loro e, dunque, anche il loro operato sarà sostanzialmente arbitrario;
c) anche laddove si riuscisse nell’impossibile impresa di armonizzare le valutazioni, comunque il sistema prevede una velleitaria totale permeabilità delle carriere;
d) pertanto, il “merito” di un dirigente che abbia operato bene in una certa branca, potrebbe essere considerato base per giustificare il suo incarico in una branca totalmente diversa.
L’ultimo elemento rappresenta il paradosso di questa riforma mal congegnata. A parità di curriculum, si ipotizzi che la commissione debba pesare i risultati di due dirigenti, uno provenienti dall’Inps, l’altro proveniente da una regione, per un incarico al ministero degli esteri. E’ chiaro che nessuno dei due dirigenti, al di là di cognizioni trasversali (e bisognerebbe vedere fino a che punto) di organizzazione, management, anticorruzione, procedimento amministrativo, avrebbe alcun tipo di competenza già acquisita in merito alle attività di politica estera. Che senso avrebbe, come si giustificherebbe un passaggio da salto mortale come quello?
Non si dica che si è ipotizzato qualcosa di astratto. In tempi recentissimi, come è noto, presso l’Agenzia delle entrate si sono creati vuoti di migliaia di incarichi dirigenziali, a seguito della sentenza della Consulta 37/2015. In quegli stessi mesi, centinaia di dirigenti delle province erano (e ancora oggi molti lo sono) in sovrannumero, a causa della legge 190/2014 e, quindi, destinati alla mobilità verso altri enti. Eppure, all’epoca si negò strenuamente ogni ipotesi di passaggio dei dirigenti provinciali verso i ruoli delle Agenzie, perché si è affermato che questi dirigenti debbono disporre di una professionalità estremamente spiccata, non reperibile presso le amministrazioni provinciali, ma nemmeno presso qualsiasi altra amministrazione. Infatti, le Agenzie non hanno praticamente avviato procedure di mobilità per reclutare i dirigenti, ma indetto concorsi pubblici.
Ci si chiede come mai sia possibile, improvvisamente, che le cose cambino totalmente una volta che sia approvata la riforma Madia. Ci sarebbe da capire come mai potrebbe avvenire, posto che la specifica competenza dei dirigenti delle Agenzie è effettivamente cosa necessaria e reale, che dirigenti provenienti da esperienze completamente diverse possano andare a coprire posti molto lontani dalla loro concreta esperienza di lavoro.
Si potrebbe rispondere che, nei fatti, in presenza di simili spiccate professionalità le commissioni non potranno che selezionare sostanzialmente altri dirigenti che non quelli provenienti dalle Agenzie medesime. Ciò potrebbe anche essere corretto e inevitabile. Ma, allora, la riforma risulterebbe alla prova dei fatti monca, priva di senso, perché non consentirebbe per nulla quel mercato del lavoro mobile, magmatico e “meritocratico” che si dipinge: certi settori della PA resterebbero di fatto impermeabili alla riforma.
Né, ovviamente, un dirigente amministrativo è pensabile vada a ricoprire l’incarico di un dirigente tecnico per incarichi che richiedano la professionalità di ingegnere o architetto; mai un dirigente preposto all’avvocatura pare possa reperirsi da dirigenti che non vantino nel curriculum almeno la laurea in giurisprudenza, e così via.
Citando Rizzo, si può esprimere astratta soddisfazione per il fatto che la riforma consenta un continuo ricambio dei dirigenti, perché “ era ora che si affermasse il principio per cui un dirigente non può restare nel medesimo posto tutta la vita, rischiando serie contaminazioni ambientali ”.
Tuttavia, il tutto rischia di ridursi a mero sproloquio. Non si tiene conto che la PA, per quanto risponda ad alcune logiche comune trasversali, è composta da una miriade di enti dalle funzioni completamente diverse ed inconciliabili, nelle quali si formano professionalità molto peculiari. Si pretende che la PA sia come una sorta di unico mercato di un solo sport, il calcio, ad esempio, dove le squadre (cioè i vari enti) si contendono solo atleti dello stesso ruolo, per esempio l’attaccante. Ma, perfino nel calcio le squadre sono composte da calciatori che ricoprono ruoli diversi, perché hanno attitudini e capacità diverse. Il fatto è, però, che l’insieme della PA è formato non solo da squadre che hanno bisogno di coprire ruoli diversi, ma da un insieme di sport diversi. La riforma Madia è come se considerasse possibile non solo lo scambio tra un attaccante ed un difensore del medesimo sport, ma perfino che a ricoprire il ruolo di attaccante di una squadra di calcio sia chiamato un cavallerizzo o un nuotatore o un tennista e viceversa.
Il tutto, rivela che la riforma, pur enunciando (specie nella propaganda dei comunicati stampa) l’intento di valorizzare il “merito”, in realtà con la valutazione delle capacità concrete e delle esperienze professionali non avrà nulla a che vedere, visto che consente di comparare pere e mele tra loro, dando lo spazio a valutazioni del tutto immotivabili ed arbitrarie, terreno di coltura per consentire che le scelte, alla fine, siano dettate esclusivamente da ragioni politiche che col “merito” spesso non sono proprio in sintonia.
Ancora Rizzo, per rintuzzare e prevenire l’obiezione descritta sopra, nel suo articolo pone la domanda, secondo il suo avviso, retorica: “ siamo proprio sicuri che le regole attuali l'abbiano garantita fino in fondo? Basta vedere come si costruiscono certe carriere prefettizie, diplomatiche, sanitarie... Proprio sicuri che la politica non c'entri nulla? ”.
No, non siamo sicuri. E’ vero. Anzi, siamo sicuri che in gran parte dei casi, quando gli incarichi dirigenziali sono assegnati a soggetti non appartenenti ai ruoli e non selezionati per concorso, le ragioni sono solo politiche. Ma, questo cosa significa? Che argomentazione è affermare che una riforma, il cui pericolo è estendere la politicizzazione della dirigenza, va comunque bene, perché oggi non siamo sicuri che tutte le carriere dirigenziali siano esenti da ingerenze politiche?
Lo scopo della riforma non dovrebbe essere quello di assicurare la separazione tra politica e gestione, e, quindi, garantire che questa persegua, nell’attuare l’indirizzo politico, sempre e comunque l’interesse generale, come prevede l’articolo 98, comma 1, della Costituzione? Se sì, allora poiché l’effetto della riforma è esattamente l’opposto, cioè creare uno spoil system tale da rendere la dirigenza da apparato servente ad apparato servile della politica, la riforma è sbagliata: perché se oggi non siamo sicuri che tutti i dirigenti facciano carriera per ingerenze politiche, domani, invece, lo saremo. Ed è accettabile che una riforma faccia sì mentre se oggi un dirigente venga scelto per ragioni non meritocratiche ma politiche o clientelari si commette reato o, come minimo, si violano le norme su trasparenza ed anticorruzione, ma domani, a riforma vigente, invece, sarà senza sanzione alcuna, né penale, né amministrativa, la selezione dei dirigenti dovuta solo a tessere, appartenenze a correnti o a scambi di favori?

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