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domenica 2 luglio 2017

Produttività? Nella PA è solo un’illusione


La produttività nell’amministrazione pubblica è una finzione, un gioco che dura da quasi trent’anni, costosissimo, burocraticamente inestricabile, sotanzialmente inutile.
Tutti lo sanno, ma si continua a dare credito ai fattucchieri dell’aziendalismo, che da decenni si sono insinuati tra i consulenti del legislatore (e tra i consulenti e gli organismi indipendenti di valutazione di ciascuna PA), per instillare dottrine che nelle aziende private hanno un senso, mentre nel sistema pubblico assolutamente no.

Lo scrive chi è solo un “burocrate” bizantino e borbonico, insensibile al “miglioramento continuo” ed ai benefici dei piani della produttività?
No. E’ la Corte costituzionale, che con la sentenza 27/6/2017, n. 153 ci fa fare, come spesso capita a Palazzo della Consulta, un bel bagno di realismo, a disdoro della narrazione trentennale di “risultati” e “performance”, tanto vana, quanto costosa.
La sentenza ha rigettato la questione di legittimità costituzionale posta (doveroso dirlo: con tanta leggerezza) sulla mancata estensione alla pubblica amministrazione (segnatamente all’Agenzia delle entrate, che secondo la dottrina di Vincenzo Visco, non si capisce perché, dovrebbe rappresentare l’avanguardia dell’aziendalismo nella PA, mentre si tratta di un servizio tipicamente ed esclusivamente pubblicistico) della normativa sulla detassazione dei premi di produttività.
Il ricorso lamenta, dunque, la circostanza che non si applichi al lavoro pubblico “la più vantaggiosa imposta sostitutiva del 10 per cento, prevista originariamente dall’art. 2 del decreto-legge 27 maggio 2008, n. 93 (Disposizioni urgenti per salvaguardare il potere di acquisto delle famiglie), convertito, con modificazioni, dalla legge 24 luglio 2008, n. 126. Secondo tale disposizione, le somme erogate a livello aziendale nel periodo dal 1° luglio 2008 al 31 dicembre 2008 in relazione, tra l’altro, «[…] a incrementi di produttività, innovazione ed efficienza organizzativa e altri elementi di competitività e redditività legati all’andamento economico dell’impresa», sono soggette «a una imposta sostitutiva dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e delle addizionali regionali e comunali pari al 10 per cento, entro il limite di importo complessivo di 3.000 euro lordi» (comma 1, lettera c). La misura, introdotta in via «sperimentale» e applicabile esclusivamente al «settore privato» (comma 5), è stata sostanzialmente prorogata negli anni successivi, fino al citato art. 53 del decreto-legge n. 78 del 2010, rilevante per le somme percepite nel 2011, che ne conferma l’applicabilità ai soli «lavoratori dipendenti del settore privato”.
Giusto considerare incostituzionale il fatto che questa normativa particolare non si applichi al lavoro pubblico? Sbagliato, secondo la Consulta. Che ne spiega il perché in modo tanto semplice, quanto tranciante: “La detassazione in esame ha lo scopo, evidente, di incentivare la produttività del lavoro, ma il suo oggetto è ben delimitato dal legislatore, che non lo collega a un generico miglioramento delle prestazioni dei lavoratori dipendenti, bensì all’erogazione di somme «correlate a incrementi di produttività, qualità, redditività, innovazione, efficienza organizzativa, collegate ai risultati riferiti all’andamento economico o agli utili della impresa o a ogni altro elemento rilevante ai fini del miglioramento della competitività aziendale». Questo preciso collegamento, richiesto dalle norme censurate, evoca la necessità di una stretta connessione tra l’agevolazione fiscale delle somme erogate ai lavoratori e l’esercizio da parte del datore di lavoro erogante di un’attività economica rivolta al mercato e diretta alla produzione di utili. Tramite l’agevolazione fiscale il legislatore intende quindi promuovere la competitività delle imprese nell’interesse generale.
Il rimettente muove dal presupposto che a queste stesse finalità sia preordinato anche il «fondo per le politiche di sviluppo delle risorse umane e per la produttività», istituito dal contratto collettivo nazionale di lavoro relativo al personale del comparto delle Agenzie fiscali, stipulato il 28 maggio 2004, con lo scopo di «promuovere reali e significativi miglioramenti dell’efficacia ed efficienza dei servizi istituzionali, mediante la realizzazione, in sede di contrattazione integrativa, di piani e progetti strumentali e di risultato» (art. 85, comma 1, del contratto collettivo citato).
Questa stretta funzionalizzazione al miglioramento dei servizi istituzionali affidati alle Agenzie fiscali, nei cui riguardi non possono essere fissati obiettivi di miglioramento della competitività aziendale o di incremento della produzione di utili, esclude la connotazione finalistica del regime di detassazione prospettata dal giudice a quo e, con essa, la paventata discriminazione”.
Osservazioni corrette e ineluttabili. Nessuna amministrazione pubblica, nemmeno l’Agenzia delle entrate, che, a torto, ritiene di essere una sorta di amministrazione a sé pienamente assimilabile ad un’impresa privata, può perseguire né la promozione della competitività nel mercato (per la semplicissima ragione che la PA non opera nel mercato), né incremento di utili (per l’ancor più evidente ragione che la PA produce servizi finanziati dalle imposte e non deve perseguire alcun utile, se non l’interesse pubblico alla corretta ed utile spesa connessa alle entrate).
Le poche, chiarissime e semplici parole della Consulta dovrebbero essere sufficienti a dire basta, per sempre, al giochino del “piccolo manager” che da anni si persegue nella PA. Che, non essendo orientata né al profitto, né all’occupazione di posizioni di mercato, non a caso stenta da sempre (e sempre stenterà) a trovare obiettivi di produttività non risibili e utili. Basti pensare che il legislatore considera, ex lege, come obiettivi di produttività indicatori che con la produttività non hanno assolutamente nulla a che vedere, come la pubblicazione di certi atti, o il rispetto di termini procedurali, cioè meri adempimenti normativi il cui rispetto, se da un lato può essere segno di un funzionamento corretto di ciascun ente, dall’altro non è idoneo in modo assoluto a dimostrare un valore aggiunto nel rapporto input/output di risorse, che rappresenta in modo semplice la produttività.
Ovviamente, nessuno prenderà atto dell’epitaffio che la Consulta ha scritto sulla pietra sepolcrale che dovrebbe ricoprire l’assurdo sistema di produttività pubblico. E si continuerà col gioco del piccolo manager, come del resto dimostra il d.lgs 74/2017. E si insisterà sulla contrattazione decentrata, i sistemi di valutazione, gli Oiv, le fasce e le non fasce. Il tutto, mentre alla Corte dei conti ed ai servizi ispettivi non va mai bene niente su quanto si stanzia per la produttività, su come lo si contratta e su quando lo si ripartisce, con incredibili contrasti di vedute tra la magistratura contabile ed il giudice del lavoro, per il quale basta che un contratto decentrato risulti stipulato per fare da titolo legittimo a istituti e connessi pagamenti, invece considerati come la peste bubbonica dalla magistratura contabile.
E tutto questo, per ripartire mediamente, nel comparto regioni enti locali, poco meno di 2 mila euro lordi l’anno, con un dispendio di energie lavorative infinitamente più oneroso, roba che nessuna azienda privata si sognerebbe mai di fare e che condurrebbe al licenziamento in tronco del manager che lo proponesse.

La Corte costituzionale ha suonato la sua campana. Difficilmente la PA saprà comprendere che essa suona, fortissimo, per lei e che le bassissime cifre della produttività sarebbe molto più economico ed efficiente ripartirle con una quattordicesima, connessa alla verifica banale del rispetto di indicatori di bilancio, automaticamente elaborati, senza alcun piano assurdo e senza nessun onerosissimo Oiv.

11 commenti:

  1. Mi permetto di aggiungere un piccolo contributo alle stimolanti riflessioni suggerite da questo articolo. Nel lavoro privato, il criterio principale adottato in contrattazione aziendale per "verificare" a posteriori gli incrementi di produttività (per i quali spettano le ricordate agevolazioni fiscali) che dovrebbero consentire la crescita della competitività delle imprese, in base alla quale vengono corrisposte le quote ai dipendenti, é legato al numero di giornate di presenza in servizio. Niente di più e niente di meno. Solo nella pubblica amministrazione é stato necessario scrivere una montagna di norme complicatissime, per lo più inapplicabili e legate a una pletora inenarrabile di adempimenti procedurali, per distribuire con due, tre, a volte quattro anni di ritardo le poche risorse disponibili.

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    1. Assolutamente vero: http://luigioliveri.blogspot.it/2016/12/premiare-la-presenza-il-privato-non-e.html e http://luigioliveri.blogspot.it/2016/08/produttivita-nel-pubblico-impiego-tutti.html

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  2. Se il fondo premi viene stanziato a priori, nel caso tutti siano fannulloni dovrebbe restare accantonato.
    Per non cadere nel feticismo degli indicatori, l'unica è decontrattualizzare i premi. Il militare che compie un'azione valorosa avrà la sua medaglia, ma non può saperlo a priori, e ancor meno negoziarlo col comandante. E i protestanti non possono contare i punti per il paradiso

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  3. Davvrro non credete generi un "utile" (anche economicamente inteso) x ciascuno di noi (cittadino o impresa) una PA efficiente? Sono dovuta tornare 3 volte fisicamente a distanza di due anni (3 gg di mie ferie), all'INPS xché correggessero un errore che avevano ammesso già dalla prima volta, e hanno risolto il problema solo perché l'ultima volta ho detto che sarei rimasta lì fino a soluzione (hanno persino chiamato le loro sicurezza interna...).
    No, cari signori, la produttività nella PA non si vuole misurare xché conviene a molti che a lavorare continuino "solo" i TANTI che sono mossi dal senso di responsabilità e di servizio (e npn dai premi), purché questo non comporti mai che qualcuno emerga x la propria capacità o efficienza, diluendolo nel mare magnum della distribuzione a pioggia dei premi. Purtroppo l'unicità della persona solo nel privato, e non sempre, viene considerata una leva strategica.

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  4. Lei racconta fatti che attengono non alla produttività, ma all'omissione di atti d'ufficio. Sono due piani paralleli, due cose diverse.

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    1. Questa risposta, più ancora del post, mostra in maniera tragi-comica come questi laureati in giurisprudenza alla Oliveri siano incapaci di parlare di efficienza nella PA. Esistono migliaria di aziende private, se non un intero settore, che erogano servizi come la PA e misurano la lo produttività. Sentenza dopo sentenza, articolo dopo articolo state uccidendo qualsiasi velleità riformista. C'è poco da fare, è anche grazie a voi se moriremo tutti burocrati.

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    2. E' evidente che l'articolo non è stato scritto in modo chiaro, visto che il contenuto voleva essere giungere alla conclusione diametralmente opposta di rilevare l'incredibile eccesso di burocrazia che il "riformismo" ha introdotto nel sistema, per erogare alla fine pochi euro. Un sistema di questa natura non esiste in nessuna organizzazione privata. La produttività, nelle aziende, viene misurata ovviamente, ma poi i premi sono assegnati in modo semplicissimo, prevalentemente connesso alla presenza in servizio: basta leggere i contratti decentrati (della Ferrari, della Polti, della Tim, della Società autostrade, delle Poste Italiane, solo per citarne alcuni). Non risulta che nel privato siano presenti le indicazioni "non burocratiche" del "riformismo": Oiv, "ciclo della performance" con le sue procedure intricate e bizantine, assegnazione di valutazioni distinte per qualifiche, a loro volta distinte per obiettivi generali ed individuali, obblighi normativi su come determinare le valutazioni, complicatissimi sistemi contabili per impegnare la spesa relativa alla contrattazione decentrata. Il "riformismo" se fosse davvero tale, dovrebbe essere capace di eliminare questi orpelli, che sono esattamente la causa delle disfunzioni dei sistemi di valutazione, portati ad essere esclusivamente sovrastrutture burocratiche, buone per il pasto super burocratico di Corte dei conti e servizi ispettivi del Mef.

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    3. Avendo criticato il precedente commento, devo ammettere di essere invece pienamente d'accordo con quanto scrive in risposta alla mia, forse troppo diretta, critica.

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    4. Lei crede? Nella PA non incorrere in "omissioni d'ufficio" (io non le definirei tali, ma superficiale sciatteria) dovrebbe essere il primo livello di efficacia, senza cui non consentire nemmeno di misurare l'efficienza.
      E per cortesia non si enfatizzi la "presenza". Diversi anni fa qualcuno mi "spiegò" che lo stipendio gli era dovuto x il solo fatto di entrare in ufficio; "se poi vogliono che lavori, mi devono dare dei soldi in più". E quanto avrebbe dovuto fare lui, pur presente,lo facevano (senza ricevere nulla di più di lui) i colleghi che credevano al valore del loro lavoro come SERVIZIO AL BENE COMUNE, dei cittadini e delle imprese.
      Se fosse più chiaro QUESTO SCOPO ULTIMO, prima e insieme con tutte le altre strumentalità e declinazioni, la PA - dall'essere il buco nero che spesso è - sarebbe più frequentemente la possibilità di far sentire a casa propria e di accompagnare chi vi si rivolge (come talvolta qualcuno ci dice, ringraziandoci).

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  5. Il ciclo della performance non sarebbe affatto complicato se le amministrazioni avessero obiettivi chiari, da assegnare ai vari livelli di responsabilità, e fissassero risultati attesi puntuali e misurabili (come ogni azienda privata è abituata a fare).
    La burocrazia e la necessità di riformare il sistema risiedono nella incapacità (o non volontà...) dei decisori (politici e conseguentemente anche tecnici) di effettuare scelte strategiche che si strutturino poi in piani operativi percorribili, su cui coinvolgere attivamente tutta l'amministrazione. La PA, certo non tutta, ma quella migliore, ha la chiara consapevolezza di poter contribuire alla "riforma" del Paese, se solo le si consentisse di farlo.

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    1. Nessuna azienda privata si sogna di disciplinare il velleitario "ciclo della performance", con norme ed organismi quali quelli imposti dalla normativa della PA. Si danno 4-5 obiettivi generali, per lo più di organizzazione (non si sognano di fare le "pagelle"), come il rapporto tra fatturato e costi di personale o costi di produzione e prodotto; col contratto fissano l'ammontare massimo del premio aziendale di risultato, che viene "personalizzato" in base alle presenze in servizio. Semplice, facile, immediato, economico. Tutti gli orpelli esistenti nella PA non sono minimamente presi in considerazione.

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