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sabato 18 agosto 2018

Ponte Morandi ed il bestiario delle varie grida a vanvera



La tragedia del ponte Morandi a Genova ha scatenato una sequela incredibile di insensatezze e sciocchezze, diffuse a piene mani dalla stampa, davvero non si capisce se allo scopo di distrarre, depistare o reggere bordone a qualcuno. Tutto, comunque, fuorchè fornire informazioni corrette, come sarebbe necessario.

Il governo non può farsi giustizia da sé. La principale tra le considerazioni davvero prive di ogni fondamento è questa.
Indubbiamente le incaute ed eccessive esternazioni dei ministri, compreso il Presidente del consiglio, a botta calda non hanno aiutato.
La frase “non possiamo aspettare i tempi della magistratura” è stata assolutamente infelice ed inopportuna.
Tuttavia, al di là della scarsa capacità comunicazionale e di controllo denunciata da queste esternazioni, non è corretto riferirsi ad esse per concludere che si stanno violando i principi dello Stato di diritto, addirittura, con un Governo che vuol farsi giustizia da sé nei confronti di Autostrade per l’Italia.
La sfortunata e comunque non giustificabile, nella forma, dichiarazione del premier non può che essere letta nel senso che il Governo avrebbe attivato i meccanismi sanzionatori nei confronti del concessionario, compresi quelli finalizzati all’interruzione anticipata del rapporto concessorio, senza collegare l’azione amministrativa e civile con quella penale e, dunque, senza il vincolo dell’attesa dei tre gradi di giudizio.
Anche perché il piano delle responsabilità amministrative e civile è parallelo e completamente diverso da quello penale. Le prime responsabilità possono verificarsi ed essere comprovare anche se eventuali iniziative penali si dovessero concludere con assoluzioni per tutti; e viceversa, la condanna penale non implica automaticamente responsabilità amministrative e civili.
Queste cose chi grida alla “violazione dello Stato di diritto” le sa benissimo e sta solo confondendo le acque.
Dopo troppi giorni a sparare dichiarazioni bellicose, il Governo pare aver avviato la procedura prevista dall’articolo 9 della convenzione del 2007 con Autostrade per l’Italia, finalizzata alla decadenza dalla concessione.
E’ bene precisare che per giungere alla decadenza non occorre alcuna sentenza del giudice. Non si tratta né di giustizia sommaria, né di travalicamento della separazione dei poteri, né di giustizia “fai da te”.
L’ordinamento civile ed amministrativo prevedono, da sempre, la possibilità per le parti di regolare, con clausole contrattuali sulle quali prestano consenso reciproco, strumenti di cessazione anticipata di rapporti durevoli nel tempo, aventi carattere sanzionatorio di inadempimenti considerati gravi ed essenziali: la risoluzione o il recesso o, nel diritto amministrativo, la decadenza.
Trattandosi di facoltà che il contratto o, nel caso di specie, la convenzione rimette al potere del Governo, se il esso attiva la procedura per la decadenza non sta compiendo nessuna violazione di alcun principio giuridico di separazione dei poteri, né si sta facendo “giustizia da sé”. Sta solo applicando una clausola contrattuale, concettualmente ed astrattamente non diversa da quelle clausole che nell’ordinamento lavoristico consentono al datore di lavoro di interrompere il rapporto col lavoratore e che tutti considerano, per questo ambito, bellissime, dovute, moderne e fonte di progresso.
Se si andrà davanti al giudice sarà perché il Governo forse proverà ad ottenere una pronuncia di risarcimento del danno e perché, per parte sua, Autostrade per l’Italia contesterà la liceità della decadenza, pretendendo a sua volta un risarcimento (oltre alla penale miliardaria conseguente alla dissennata clausola sulla decadenza) o comunque la corresponsabilità del Governo per non aver adeguatamente vigilato sulle manutenzioni.
Grandi opere e manutenzioni. L’altra grande millanteria è quella che l’Italia in questi anni ha rinunciato alla modernità, per aver detto sempre e solo no alle grandi opere.
Come esempio degli effetti negativi del “no ad ogni costo” si cita la mancata realizzazione della Gronda, proprio a Genova.
Si dimenticano, tuttavia, alcuni particolari non trascurabili. In primo luogo, la Gronda anche fosse partita nel 2009, quando il comune di Genova si disse contrario al progetto, difficilmente avrebbe visto la luce entro il 2018.
In secondo luogo, il declino degli investimenti in Italia non è certamente causato dalla rinuncia alle grandi opere. Queste richiedono tempi di progettazione e realizzazione lunghissimi e defatiganti (fin troppo). Si pensi al Mose (e si ricordino anche gli scandali connessi alla corruzione emersa).
Le grandi opere, anche quando possono contribuire alla facilitazione di comunicazioni e collegamenti, come il caso della Gronda, non si possono però sostituire alle necessarie manutenzioni continue. Le quali hanno il solo “vizio” di essere spesso poco visibili e difficilmente “inaugurabili”. Il ponte Morandi doveva essere manutenuto e controllato anche durante la costruzione della Gronda, che per altro non lo avrebbe sostituito, ma affiancato.
Inoltre, le grandi opere possono rivelarsi utili solo se inserite in contesti ricettivi e coerenti. Per anni l’Italia ha inseguito la chimera del ponte sullo Stretto: una mega opera, costosissima, complicatissima, dai mille problemi costruttivi, che avrebbe collegato la Penisola alle trazzere della Sicilia…
Responsabilità per il crollo e minoranze che dicono no. Se i competenti che fino a pochi mesi fa hanno governato e gestito sono così preoccupati di chi “dice sempre e solo no”, dovrebbero spiegare, allora, perché abbiano introdotto nel codice degli appalti, per altro con fanfare e strombazzature, l’istituto del debàt public (dibattito pubblico, causa il misero provincialismo italiano, non si poteva dire…).
Cosa ci si aspetta? Che nelle consultazioni tutti acclamino sempre e comunque qualsiasi progetto, utile o dissennato, proposto dalla maggioranza di turno?
E’ evidente che in qualsiasi consultazione si manifestino dissensi rispetto alle iniziative proposte: si chiama “democrazia”.
Irridere nei confronti di chi dissente, tacciandoli di affetti da sindrome di NIMBY, è ingeneroso e antidemocratico. A parte che chi vive ai Pariolo o acquista mega ville milionarie pur con soli 15.000 euro nel conto corrente non dovrà mai fare i conti col pilone di un viadotto a pochi centimetri dalle finestre di casa sua, il dissenso è ammesso e regolato. La responsabilità di chi governa consiste nel ponderare l’interesse generale con quello dei singoli, anche riuniti in comitati molto chiassosi e, se si dimostra che l’interesse generale è prevalente, decidere nonostante i comitati del no e anche a costo di perdere consenso e di non tornare a sedersi sugli scranni politici al successivo giro.
Se chi governa non è in grado di agire nel rispetto della democrazia e di fornire argomenti seri e forti contro i “no” e si fa imbrigliare da questi, la responsabilità delle mancate scelte non è di chi sta all’opposizione, ma sempre e solo di chi detiene il potere/dovere di decidere.
Responsabilità del crollo. Una cosa è certa: il ponte è crollato, con un tributo di sangue di oltre 40 vittime ed altre decine di ferite, oltre alle vite spezzate dei familiari delle vittime e all’economia devastata di una città e dell’intero Nord Ovest.
Altra cosa è certa: qualcuno ne è responsabile. Si stanno cominciando a diffondere a macchia d’olio articoli sulle carenze progettuali del Morandi.
Sarà anche vero che il ponte di Genova si è subito mostrato afflitto da moltissimi problemi strutturali, tanto che non sono mancati nel corso degli anni interventi sugli “stralli”.
Non si vorrebbe, però, che si orientasse la responsabilità sul progettista, per altro da lungo tempo ormai morto.
Qualcuno è responsabile. E’ emerso che Autostrade per l’Italia a maggio aveva pronto il bando di gara per “interventi urgenti” sul ponte, però rinviati a settembre.
Ora, se da anni molti affermavano la problematicità delle strutture del ponte, se un bando “urgente” per lavori da 20 milioni era in rampa di lancio, convince ben poco la circostanza che si leggano dichiarazioni secondo le quali non vi erano segnali o avvisaglie del crollo imminente.
Il ponte fu costruito oltre 50 anni fa, con dimensioni per altro inadeguate al flusso di traffico di 50 anni dopo e sena nemmeno corsie di emergenza. Giunti ai 50 anni di età e noti i problemi strutturali, talmente noti da indurre anche alla soluzione della Gronda, è da capire perché mai non si sia deciso di alleggerire il carico del ponte, con opportuni divieti di transito da far rispettare in maniera ferrea. Oppure di chiuderlo del tutto.
Certo, la chiusura avrebbe creato disagi, ovvio. Ma, disagi di certo inferiori a quelli causati dal crollo e, per altro, senza vittime.
Strade e province. Le province ormai da 3-4 anni chiudono l’accesso a strade e ponti, o, se e quando va bene, limitano la velocità a 30 all’ora oppure vietano il transito a carichi pesanti.
Chi oggi si stupisce o si indigna per i pochi soldi dedicati alla manutenzione di strade vetuste, costruite prevalentemente nel corso del boom della ricostruzione tra gli anni ’60 e ’70, spesso è anche chi ha avviato la campagna del populismo, oggi messo all’indice.
Per anni abbiamo assistito al linciaggio delle province, alla richiesta a gran voce della loro abolizione, specie da parte di giornali e giornalisti che, però, ora si rendono conto che occorre un censimento delle strade e dei ponti pericolosi e che i 30.000 chilometri di trade provinciali, essenziali per il convivere civile e l’economia, sono a rischio.
Chi ha fatto le campagne contro le province ha favorito la scelta dissennata del Governo Letta, portata a termine dal Governo Renzi, di avviare una riforma che ha privato le province delle risorse finanziarie ed umane per manutenere quelle strade e quei ponti.
Il tutto sotto la regia di Delrio, Ministro per gli affari regionali sotto il Governo Letta ed autore della tragica riforma delle province, poi passato al Ministero delle Infrastrutture, tra vaneggiamenti di ponti sullo Stretto e tardive pubblicazioni, parziali (senza i piani finanziari) delle concessioni autostradali secretate.
Grandi opere e manutenzioni – 2. Decenni passati a chiedere l’abolizione delle province hanno prodotto scelte populiste assurde, come la riforma Delrio. La quale non ha portato alcun risparmio per lo Stato: le risorse sottratte alle province, gran parte delle quali erano destinate a manutenere strade e scuole superiori (altri edifici quasi tutti “ammalati” e pericolosi), non sono servite a ridurre le tasse e sono stati dirottati dai bilanci delle province a quello dello Stato.
La spesa dello Stato ha continuato a crescere, a differenza di quella degli enti locali, a causa di una politica che dagli anni 2000 ad oggi, nella ricerca del taglio alla spesa per provare a rispettare gli equilibri imposti dai trattati Ue, ha preso di mira quasi esclusivamente i bilanci locali. E sono proprio gli enti locali proprietari e titolari del compito di manutenere la gran parte delle strade e delle scuole in Italia.
Da qui, il crollo degli investimenti e delle manutenzioni, proprio in quel decennio nel quale le opere costruite tra gli anni ’50 e ’70 (quante scuole, quante strade…) entravano nel periodo critico e a rischio.
Le manutenzioni sono state ridotte drasticamente quando più erano necessarie, per assenza di finanziamento, mentre appunto si favoleggiava di grandi opere, senza comprendere che non è possibile immaginare di dirottare gli investimenti dalla manutenzione alle mega strutture: le prime sono e restano essenziali, come le strade provinciali che non saranno chiuse quando e se partirà la Pedemontana, come non furono chiuse mentre si articolava la rete delle autostrade.
Dirigenti che non fanno gli appalti. Altra affermazione che di diritto entra nel bestiario è quella che i dirigenti pubblici sono in fuga dalla responsabilità e non vogliono presiedere le gare d’appalto, così da rendere in ogni caso impossibile il rilancio delle infrastrutture.
Chi scrive queste cose davvero non sa di cosa parla. Non sa che, sempre il populismo trionfante non solo oggi, ma ormai da tre lustri, ha indotto a una regolamentazione degli appalti semplicemente assurda.
Il nuovo codice dei contratti ed una serie di leggi finanziarie rendono la procedura di acquisto della risma di carta gravosa come l’appalto per la realizzazione di una piattaforma petrolifera, imponendo più livelli progettuali, programmazioni pluriennali, sistemi di impegno di spesa cervellotici causati da una contestuale riforma della contabilità pubblica semplicemente senza senso, nonché una serie di pubblicazioni spesso duplicate e mille adempimenti amministrativi, che l’Anac sanziona prontamente se non portati avanti, mentre non riesce, però, a prevenire le mega corruzioni degli appalti Consip o del sistema di Mafia Capitale.
Però, se per acquistare una penna occorre agire come se si attivasse un appalto da 10 miliardi, questo tipo di appalti è spesso oggetto di deroghe e semplificazioni impensabili.
Il codice degli appalti ha introdotto il principio della “rotazione” degli appaltatori, perfettamente corretto ed utile allo scopo di evitare la continua chiamata senza gara dello stesso appaltatore.
Ma, le Linee Guida dell’Anac ed una consistente parte della giurisprudenza, anche a causa della scrittura del principio di rotazione nel codice, ne danno una lettura radicale, tale da imporre il divieto al precedente appaltatore di prendere parte a procedure successive, sebbene queste non siano affidamenti diretti, ma confronti concorrenziali, anche strutturati.
Così, mentre non si ammette la banalissima regola concorrenziale secondo la quale la ditta che riesce a dotarsi di un know how specifico possa e debba concorrere in posizione migliore di altri per certi appalti, finchè altra ditta non la superi in capacità ed efficienza, invece si ammette che le concessioni autostradali, megamiliardarie, si affidino senza gara. E se è praticamente impossibile prorogare la durata di un appaltino di pulizie per la sede di un piccolo comune, è invece possibile prorogare di 4 anni dal 2038 al 2042 le concessioni autostradali, senza uno straccio di motivazione, senza nessun beneficio sui pedaggi. E se per appalti anche piccoli occorre pubblicare due, tre, quattro volte bandi, documenti, contratti, le convenzioni autostradali per anni sono state sottoposte a segreto di Stato e poi desecretate ma solo in parte. E se tutte le amministrazioni e società pubbliche sono soggette alle centinaia, migliaia di adempimenti meri per pubblicazioni ai fini della trasparenza, le società autostradali, siccome quotate in Borsa, ne sono esentate.
Ma, il codice dei contratti non finisce di regalare assurdità. I dirigenti pubblici non hanno alcun problema ad adempiere al dovere d’ufficio di presiedere le gare.
Forse, però, a chi spara a salve la critica sulla fuga dalla responsabilità sfugge che proprio il codice dei contratti, ascoltando le lobby interessate (molto contente) ha imposto che presidenti e componenti delle commissioni debbano essere esterni, non dipendenti pubblici; ed ha previsto, però, una norma transitoria per regolare questo aspetto, scritta malissimo ed incomprensibile: tanto che puntualmente la magistratura amministrativa ha espresso sentenze diametralmente opposte ed inconciliabili. Fermando, quindi, spesso le gare o sancendone l’illegittimità in molti casi. Sicuro che la responsabilità sia dei dirigenti-che-fuggono-dalle-loro-responsabilità?
Della commissione non può far parte il dirigente né chiunque altro abbia gestito le istruttorie tecniche o amministrative; nel periodo transitorio (che tra poco si conclude), quindi ogni amministrazione ha aperto la “caccia” a dipendenti che non avessero nemmeno sfiorato con le molle le carte, per gestire gare di cui nulla sapevano (molto efficiente tutto questo, vero?). Nemmeno il responsabile unico del procedimento, secondo il codice, ma anche secondo l’Anac e anche secondo la magistratura amministrativa puntualmente ed ovviamente divisa sul punto, può partecipare alla commissione; però, dicono il codice, le Linee Guida e alcune sentenze, invece può anche partecipare: una lotteria.
Chi vincerà alla fine? I professionisti esterni che in autunno dovranno essere necessariamente chiamati per comporre le commissioni con costi talmente esorbitanti che persino il Tar Lazio ha considerato il decreto ministeriale in merito una follia. Ma, secondo il bestiario del ponte, la colpa è dei dirigenti-che-fuggono-dalle-loro-responsabilità.
Penali. Chi ha avuto l’interesse a leggere la convenzione tra Ministero delle infrastrutture ed Autostrade per l’Italia non potrà non restare impressionato dalla laconicità, se non povertà, delle clausole sulle responsabilità del concessionario.
Tutti i contratti di appalto, anche quelli stipulati dal più sperduto comunello, prevedono casi espliciti di risoluzione del contratto in danno dell’appaltatore per grave inadempimento, descrivendo ipotesi come la rovina dell’opera.
Nella convenzione di ciò non si ha traccia, sebbene una non sufficiente manutenzione o una non corretta regolazione del traffico e dei carichi non elimini per nulla il rischio di eventi tragici, sulla rete delle grandi autostrade, come purtroppo si è visto.
Sì, la manutenzione e la riparazione sono indicate come un obbligo del concedente. Ma, non v’è traccia di una codificazione di responsabilità direttamente connesse ad eventi clamorosi come quelli di Genova.
E, pertanto, la decadenza, che di per sé è uno strumento amministrativo di chiusura anticipata di una concessione generalmente connessa proprio ad inadempimenti gravissimi, nella convenzione è soggetta esattamente a quelle stesse penali, onerosissime, da decine di miliardi (mentre si favoleggiava di inesistenti risparmi finanziari sulle province, si segretavano concessioni che espongono lo Stato a 20 miliardi di penale se prova ad interrompere le concessioni anche per inadempimento grave…), previste per strumenti di chiusura anticipata come la revoca o la risoluzione, non necessariamente connessi a danni gravi.
Mentre si accusa il Governo di farsi giustizia da sé, lo si accusa anche di esporre il contribuente e il Mercato a conseguenze dannose se prova ad avvalersi della decadenza, anche a causa della penale prevista.
Ma ben poco si sta incentrando l’attenzione sulle responsabilità di chi a cuor leggero abbia previsto penali a carico dello Stato anche se faccia decadere il concessionario da responsabilità proprie (certo, da accertare e dimostrare). Rendendo difficoltosissimo il percorso giuridico ed eventualmente giudiziario per provare che il danno grave è tale che la decadenza non è dovuta a semplice inadempimento ai doveri di manutenzione, bensì ad una totale incuria (elemento di cui nella convenzione non si ha traccia). La convenzione è, di fatto, un capestro che lo Stato si è autoinflitto, non si sa perché, che però si sbandiera come strumento per impedire l’esercizio di una facoltà, la pronuncia della decadenza, pur contrattualmente prevista.
Se un simile contratto fosse stipulato da una piccola o media stazione appaltante ed andasse all’attenzione della Corte dei conti, questa colpirebbe sena alcuna pietà l’autore di simile regolazione giuridica tanto manifestamente dannosa per le casse pubbliche, ovviamente dopo solo il danno prodotto alla logica ed al buon senso.

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