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venerdì 15 febbraio 2019

Spoil system, autonomia differenziata, deleghe per la semplificazione: i punti di caduta di 30 anni di riforme devastanti



Ricordate lo slogan dell’abolizione delle province? Per anni ha tenuto banco e all’ombra di questo vessillo è stata approvata una delle riforme più devastanti e inutili mai viste.

Le province non sono state abolite, ma sono stati sottratti loro, con una mano, oltre 3 miliardi di risorse, che non sono stati tagliati (infatti le tasse non sono mai diminuite), ma spesi dallo Stato per le sue necessità; con l’altra, però, spacchettati in mille rivoli e con mille sotterfugi, sono stati progressivamente restituiti, anche se le province ormai hanno perduto moltissime competenze e sono passate da 40.000 a 20.000 dipendenti circa.
Infine, pur trattandosi di organi territoriali che gestiscono comunque funzioni essenziali per la vita di ogni giorno, si pensi ai trasporti pubblici e alla manutenzione delle scuole superiori, si è tolta la voce ai cittadini, che non possono eleggere gli organi politici delle province, espressione di un’elezione astrusa e complicatissima dei vari sindaci.
Un fallimento e una diminutio della democrazia. Sul quale, adesso, parte rilevante delle forze attualmente in maggioranza vuole tornare indietro. Anche se tornare indietro del tutto non è mai possibile.
Simile disastro non è evidentemente servito a nulla, se un Governo scaduto, a un mese dalle elezioni, avvia nel febbraio 2018 con tre regioni le trattative per l’intesa finalizzata al regionalismo differenziato. Un tema che a un anno di distanza (365 giorni durante i quali la cosa è passata praticamente inosservata) viene affrontato con qualche timore.
La riforma delle province, si diceva, avrebbe fatto risparmiare alle casse pubbliche quei famosi 3 miliardi che invece non sono mai stati risparmiati.
Esattamente col medesimo stile tra il trionfale ed il pressappochista, l’introduzione del regionalismo differenziato viene attivata sul presupposto indimostrabile del risparmio delle risorse e del mantenimento, comunque, dell’equilibrio tra territori dello Stato.
Come se l’attribuzione quasi esclusiva del governo di 23 materie alle regioni, tra le quali due come scuola e sanità per loro natura caratterizzanti il carattere unitario ed universale dei servizi rivolti ai cittadini di una nazione, non sia per sua natura finalizzata ad una profonda differenziazione tra territori. Che, al di là dell’efficienza gestionale delle tre regioni a un passo dall’ottenimento del regime differenziato, non potrà non essere garantita da una maggiore disponibilità di denari, a detrimento di altri territori.
Il regionalismo differenziato, secondo le intese giunte alla stesura finale, garantirà alle tre regioni la possibilità di trattenere l’eventuale maggior gettito fiscale rispetto alla spesa sostenuta per gestire le funzioni; con la garanzia, però, che lo Stato copra le spese qualora, al contrario, la spesa per le funzioni risulti superiore al gettito.
Un meccanismo come questo, poiché il gettito fiscale è trasferito ai territori in modo da cercare un equilibrio (che in realtà da sempre è carente) tra essi, difficilmente non creerà ulteriori squilibri. Infatti, se alcune regioni trattengono l’extra gettito, questo non potrà essere utilizzato dallo Stato per fini perequativi. Allo stesso tempo, se invece lo Stato dovrà equilibrare le spese del regionalismo differenziato, non potrà che incrementare le tasse di tutti, anche delle regioni non differenziate, o ridurre i trasferimenti a queste.
L’esperienza, però, non insegna e si va avanti a testa bassa su una riforma ordinamentale immensa, che ha altissime probabilità di creare sconquassi come e peggio della riforma delle province.
I punti in comune con esperienze passate fallimentari sono molti. L’avvio del regionalismo differenziato ricorda molto da vicino la sua fonte. Come il regionalismo differenziato si è attivato a pochi giorni dalla fine di una legislatura con maggioranza di sinistra, la sua base normativa è la riforma della Costituzione, approvata da un Parlamento a maggioranza di sinistra per pochissimi voti alla vigilia delle elezioni del 2001.
Ed è il frutto di una stagione di riforme avviata nel 1990 con la legge 142/1990, proseguita poi con la riforma delle elezioni dei sindaci, la riforma della contabilità, del lavoro pubblico, dell’autonomia scolastica, degli appalti, della valutazione, degli enti locali, più e più volte corrette, replicate, modificate, superfetate, limate, potenziate, dirottate, limitate, ampliate e ridotte.
Il tutto, senza una strategia chiara e tra mille contraddizioni. Che anche adesso sono immancabili.
Infatti, mentre il Governo porta a termine il regionalismo differenziato attribuendo fino a 23 materie alla competenza di tre territori, contestualmente approva un disegno di legge definito, chissà perché, di “semplificazione”, che è una delega vastissima per decine e decine di materie, in gran parte finalizzata a riportare nella competenza dei ministeri (anche a detrimento delle autorità indipendenti) la gestione diretta delle funzioni.
Un’incredibile incoerenza, quella di uno Stato che mentre, senza alcun dibattito in Parlamento consente l’autonomia differenziata di tre regioni su 23 funzioni delicatissime per la vita pubblica, contestualmente intende riportare ai ministeri il governo diretto dell’economia e persino del convivere civile, visto che la delega intende assegnare al governo anche la riforma di ampie parti del codice civile.
L’esperienza passata non insegna. Dal 1990 ad oggi, ripetute riforme di varia ampiezza e complessità hanno introdotto dosi sempre più forti di spol system, consentendo quindi margini sempre più ampi ed incontrollabili agli organi politici di scartare dirigenti non graditi e non apertamente “in sintonia” col partito politico di volta in volta in maggioranza, per sostituirli con persone “di fiducia”, sulla base di criteri spesso lontanissimi dalla valutazione del merito e fondati esattamente sulla fiducia politica, invece che tecnica.
Si è creata, quindi, una schiera foltissima di “tecnici” senza la connotazione della terzietà legata appunto ad una visione oggettiva e non di parte; così si spiega, in parte, la pessima qualità di continue riforme, avallate e progettate da “tecnici” troppo attenti ad accontentare hic et nunc chi li ha gratificati di un incarico, e troppo distratti dal compito di contribuire a disegnare norme capaci di guardare all’interesse generale ed al domani, invece che al sondaggio quotidiano.
In questi anni di ripetute riforme fallimentari, facilmente individuabili come tali sin dall’origine ma perseguite ostinatamente fino alla loro approvazione e fino allo schianto del flop, lo spoil system è sempre piaciuto a tutti. Ogni forza politica ha l’ambizione di costruirsi un proprio apparato di persone “di fiducia”.
Stona, quindi, tantissimo la circostanza che fino a pochi mesi fa la gran parte dei commentatori inneggiava alla riforma Madia della dirigenza, che avrebbe inferto il colpo finale e micidiale alla funzione della dirigenza come strumento per attuare, sì, l’indirizzo politico ma in modo imparziale e nell’interesse esclusivo della Nazione. Quella riforma, se non fosse intervenuta provvidenzialmente la Consulta a bocciarla (per un cavillo procedurale: la mancata intesa con le regioni), avrebbe trasformato la qualifica dirigenziale in una sorta di abilitazione all’inserimento in un ruolo unico, al quale il politico di turno avrebbe potuto attingere a proprio piacimento, senza motivare in alcun modo né la scelta di incaricare un dirigente, né, soprattutto, quella di lasciare un dirigente non “schierato” a casa, allo scadere dell’incarico, esposto al licenziamento se entro un triennio non fosse stato chiamato da altri organi di governo.
Adesso, questi stessi organi che esaltavano una riforma esiziale, levano – giustamente – alti lai per l’applicazione dura dello spoil system al Ministero dello sviluppo economico (che ha spostato 2/3 dei dirigenti di ruolo da un incarico all’altro senza considerare in alcun modo la valutazione dei risultati), alla Banca d’Italia in riferimento alla conferma del direttore generale e, ora, al ragioniere generale dello Stato, il cui incarico è in scadenza, con pochissima voglia delle forze di maggioranza di riconfermarlo, nonostante in questi anni difficilissimi per la finanza pubblica la Ragioneria dello Stato abbia avuto la capacità di tenere comunque la barra ed il timone.
Riforme che vengono da lontano, figlie di una visione dello Stato confusa, elaborata in provetta in aule universitarie, lontane dalla realtà e regolarmente fallite nell’applicazione pratica, non possono che produrre contraddizioni, revisioni continue, pericoli di disgregazione.
Anche perché in tutti questi anni, mai si è stati in grado di produrre uno degli elementi considerati cardine di queste fallimentari stagioni: costi standard e livelli essenziali delle prestazioni.
Per le province i 3 miliardi di presunti risparmi sono stati immaginati a tavolino; la Sose fu incaricata di stimare i risparmi, e si scoprì che ne descrisse solo 1, sulla base di un confusissimo sistema di rilevazione dei costi standard degli enti locali, in realtà mai andato a regime; ma, lo stesso si decise di andare avanti.
I livelli essenziali delle prestazioni, cioè la definizione di obblighi minimi di qualità e quantità dei servizi da rendere, sarebbero il collante che, in uno Stato nel quale si rafforzano le autonomie fino al parossismo innescato dalla sciagurata riforma del 2001 della Costituzione, dovrebbe garantire a tutti i cittadini i diritti fondamentali, come salute, istruzione, rapporti economici, servizi sociali, infrastrutture.
Invece, non si è fatto altro che continuare a sfornare riforme su riforme degli assetti ordinamentali, disperdendo risorse, forze, competenze e funzioni, ripetendo ostinatamente gli stessi errori nella convinzione che ogni riforma sia solo e soltanto utile e positiva, infallibile, e conveniente per la forza politica in sella, anche se in scadenza. Perchè l’oggi e le esaltazioni caduche di una stampa, tuttavia, non troppo coerente, sembrano essere ancora, dopo decenni, la vera guida. Verso il pericolo di ennesimi flop e problemi.

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