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martedì 5 marzo 2019

Il disastro delle manovre contabili e delle riforme istituzionali degli enti locali

E così anche l'obbligo per i comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti di gestire in forma associata moltissime delle funzioni comunali è stato dichiarato incostituzionale con sentenza 33/2019 della Corte costituzionale.

La sentenza considera costituzionalmente illegittimo l'articolo 14, comma 28, del d.l. 78/2010, convertito in legge 122/2010, che obbligava i comuni a gestire in forma associata le funzioni "fondamentali" elencate dal precedente comma 27:
a) organizzazione generale dell’amministrazione, gestione finanziaria e contabile e controllo;
b) organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale di ambito comunale, ivi compresi i servizi di trasporto pubblico comunale;
c) catasto, ad eccezione delle funzioni mantenute allo Stato dalla normativa vigente;
d) la pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito comunale nonché la partecipazione alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale;
e) attività, in ambito comunale, di pianificazione di protezione civile e di coordinamento dei primi soccorsi;
f) l’organizzazione e la gestione dei servizi di raccolta, avvio e smaltimento e recupero dei rifiuti urbani e la riscossione dei relativi tributi;
g) progettazione e gestione del sistema locale dei servizi sociali ed erogazione delle relative prestazioni ai cittadini, secondo quanto previsto dall’articolo 118, quarto comma, della Costituzione;
h) edilizia scolastica, per la parte non attribuita alla competenza delle province, organizzazione e gestione dei servizi scolastici;
i) polizia municipale e polizia amministrativa locale;
l) tenuta dei registri di stato civile e di popolazione e compiti in materia di servizi anagrafici nonché in materia di servizi elettorali e statistici, nell’esercizio delle funzioni di competenza statale.
La Consulta ha nella sostanza acclarato che questo obbligo di associazione è incostituzionale sia perchè lede l'autonomia dei comuni, sia perchè i supposti risparmi che deriverebbero dalle gestioni associate non possono essere presupposti in via astratta, ma andrebbero dimostrati volta per volta.
Si tratta di una decisione che conferma per l'ennesima volta come da oltre 20 anni i comuni, ma in generale gli enti locali, siano stati considerati dai governi e parlamenti che si sono succeduti come una sorta di bacino finanziario al quale attingere, per apportare revisioni di spesa o tagli alla spesa pubblica che lo Stato non ha mai praticamente applicato a se stesso, mentre le regioni a loro volta, mercè la sciagurata riforma costituzionale del 2001, dilatavano a dismisura la propria spesa, tranne quella sanitaria che da qualche anno è stata messa sotto controllo (a buoi scappati).
E' l'ennesima sentenza della Consulta a certificare che uno Stato assolutamente non intenzionato a porre sotto controllo e revisionare la spesa dei Ministeri, si sia scagliato contro i comuni e le province, con manovre tutte inefficaci se non disastrose, e spesso incostituzionali. Come non ricordare le sentenze della Consulta 390/2004 e 417/2005, che hanno rilevato l’illegittimità costituzionale del blocco delle assunzioni posto con la legge 289/2002 e del contenimento delle spese di cui al d.l. “taglia spese” 168/2004, ad esempio? Oppure, la 101/2018, che ha posto fine allo scempio contabile del divieto di utilizzare l'avanzo di amministrazione degli enti locali, ai fini del pareggio di bilancio.
Ma, lo scorso ventennio è passato con una serie di norme che hanno modificato, eliminato, reintrodotto sotto varie forme l'Ici, trasformata in Imu, sempre causando ingenti riduzioni di gettito, mai totalmente compensate, sebbene si siano allargate le possibilità delle addizionali, anche queste, tuttavia, soggette a congelamenti e successivi sblocchi.
La sentenza della Corte costituzionale 33/2019 sa di condanna di un intero sistema di concepire la contabilità pubblica e la spending review da parte di èlite politiche e tecniche, capaci solo di presentare sotto spoglie sempre diverse, ma sempre simili, manovre economiche volte solo a colpire i servizi erogati dagli enti più prossimi alla collettività, con tanti saluti alle professioni di valorizzazione del ruolo degli enti locali.
Quanto ha deciso la sentenza appare davvero una beffa, se messo in rapporto con l'altro scempio della riforma delle province, targata Delrio: un disastro ordinamentale, che ha strozzato proprio quegli enti, le province, che avrebbero potuto e dovuto assicurare esattamente ai comuni di piccole dimensioni quei supporti operativi necessari per l'esercizio delle loro funzioni. Invece, assurdamente, la legge Delrio è stata impostata ritenendo che i comuni, che per la stragrande maggioranza (circa il 69%) sono di piccolissime dimensioni (con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti) potessero unirsi, per dettare essi ad enti con competenze sovracomunali il da farsi. Un fallimento epocale, certificato dai mortificanti ripensamenti delle riforme similari approvate nelle regioni autonome della Sicilia e del Friuli Venezia Giulia.
Ancora, la decisione della Consulta rivela che l'imposizione acritica, basata solo sulla "moda", oppure su articoli di giornale o pamphlet di giornalisti privi di competenza tecnica e contabile, o ancora sulle dichiarazioni o i centri studi di "santoni" della spending review all'italiana, è - sempre - un fallimento. Basti pensare al caos delle modalità forzose di gestione accentrata degli appalti, ai tanti problemi connessi alla Consip (dall'appalto facility management, alla gestione degli appalti per i buoni pasto).
Oltre venti anni di riforme avventate, spesso incostituzionali, inefficaci e generatrici di caos: senza che nessuno di coloro che le  ha scritte ed approvate abbia mai pagato dazio. Molti di coloro che hanno pensato ed elaborato queste riforme siedono ancora nei parlamenti, nei governi, negli uffici dei ministeri, pronti a riproporre nuove norme caotiche ed inefficaci in un ciclo continuo. Che il Paese non può davvero più permettersi, tuttavia.


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