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domenica 6 marzo 2016

Rinnovare il Ccnl per rilanciare la PA? Inutile se non cambiano le regole finanziarie

            A seguito della paradossale vicenda delle sigle sindacali che attaccano il direttore della reggia di Caserta perché lavora troppo, i sindacati confederali non hanno mancato l’occasione di affermare che per risolvere tutti i mali del lavoro pubblico occorre rilanciare la contrattazione, ferma dal 2009.
I sindacati, ovviamente, fanno il loro mestiere e puntano sul rilancio appunto della contrattazione, istituto che è alle fondamenta della loro stessa sacrosanta ragione di esistere. Del resto, lo ha stabilito una volta e per sempre la Corte costituzionale con la sentenza 178/2015 che esiste un diritto alla contrattazione non suscettibile di essere conculcato.

Per la verità, da quella sentenza è trascorso quasi un anno e di riavvio della contrattazione nazionale collettiva ci si limita solo a parlare, prendendo tempo, in attesa che entri in vigore il decreto legislativo attuativo della legge 124/2015. Per cui, i sindacati possono mettersi il cuore in pace: per l’avvio della contrattazione occorre attendere l’autunno del 2016 e, comunque, se resteranno sul piatto della bilancia i 300 milioni per il comparto statale, cui probabilmente si aggiungeranno somme non troppo dissimili per i comparti sanità, regioni ed enti locali, da contrattare, sul piano economico, vi sarà ben poco.
Certo, la contrattazione collettiva potrebbe essere comunque uno stimolo per il rilancio della pubblica amministrazione. In particolare dovrebbe essere la contrattazione decentrata a fissare di comune accordo tra parti datoriali e sindacali le strade migliori per perseguire efficienza ed efficacia, compensando la ricerca di benefici evidenti per la popolazione con incentivi per il risultato.
Tuttavia, questo risultato, come non si è riusciti a perseguirlo in oltre 15 anni di contrattualizzazione piena del rapporto di lavoro, si continuerà a non raggiungerlo se non si modificano radicalmente le regole finanziarie che contribuiscono alla formazione e gestione dei fondi delle risorse decentrate.
Il sistema di costituzione dei fondi è a dir poco farraginoso, oggetto di continui correttivi e revisioni, complicatissimo. Nessuna azienda seria si sognerebbe mai di impostare la costituzione di risorse da destinare alla produttività dei propri dipendenti con le regole di per sé folli degli articoli 15 e 17 del Ccnl 1.4.1999.
Il fatto è che la normativa, sia legislativa, sia contrattuale, è pensata non per consentire al datore di lavoro pubblico di esplicare l’autonomia organizzativa e contrattuale di cui, pure, disporrebbe per legge, bensì allo scopo opposto di imbrigliarla, senza, per altro, che vi siano controlli preventivi.
L’estrema complicazione delle regole, le dinamiche non sempre virtuose dei rapporti tra politica e sindacati, i continui mutamenti della disciplina, hanno comportato che mentre la produttività della PA non è certo aumentata, (come del resto non aumenta la produttività nemmeno nel lavoro privato: si veda L. Ricolfi, “Il rebus produttività e il ventennio perduto” ne Il Sole 24 Ore del 6 marzo 2016), le risorse contrattuali quasi in nessun ente sono state costituite e destinate in maniera corretta. Ma, la correttezza non è stata misurata solo confrontando regole decentrate con norme di legge e contrattuali, bensì prendendo anche a riferimento indicazioni non aventi valore normativo alcuno, come i pareri dell’Aran o i rilievi delle ispezioni del Mef, caratterizzati da un notevole tasso di creatività del diritto. L’esempio più conosciuto è dato dai rilievi mossi praticamente a tutti gli enti, accusati di aver abusato dell’autonomia consentita dall’articolo 15, comma 5, del Ccnl 1.4.1999 di incrementare le risorse variabili in relazione a progetti specifici, perché gli obiettivi sono sempre regolarmente ritenuti “non sfidanti”, senza che nessuna norma di legge o di contratto preveda ciò e, soprattutto, senza che mai nessuno sia stato capace di spiegare in cosa consisterebbero gli obiettivi “sfidanti”.
Il bel risultato è che questo sistema generale ha comportato solo un immane contenzioso tra amministrazioni (comuni in particolari) servizi ispettivi e Corte dei conti, senza che la contrattazione decentrata abbia indotto nemmeno un minimo di produttività in più o migliorie nell’organizzazione.
E’ corretto, allora, proseguire su questa strada? Quando ci si ostina in meccanismi che non funzionano, la saggezza che dovrebbe derivare dall’esperienza consiglia di cambiare strada.
Purtroppo, segnali di modifica radicale delle regole finanziari sulla contrattazione non si vedono. Il “salva-Roma” poteva essere l’occasione per farlo: una sanatoria, finalizzata a cambiare per sempre le regole.
Il cambiamento sarebbe estremamente semplice: consentire alle amministrazioni pubbliche di costituire e gestire i fondi non più prendendo a riferimento basi di calcolo assurde ed obsolete, come il “monte salari” di decine di anni addietro, ma in modo molto più semplice e realistico. Per esempio, utilizzando i dati del Conto annuale e del Siope. Ogni anno sarebbe possibile stabilire quale sia la spesa per retribuzioni ed il suo rapporto con la spesa corrente complessiva, così da permettere a ciascuna amministrazione di costituire i fondi in una somma non superiore al rapporto nazionale, limitandosi a definire con precisione quali siano le destinazioni “stabili”, rispetto a quelle “variabili” (ma non occorrerebbe un genio).
Così la contrattazione e la gestione risulterebbe sollevata da astrusi sistemi di conteggio e si eliminerebbero tutti i problemi legati alla “costituzione del fondo”, un’operazione che dovrebbe risultare banale e automatica, compiuta da un robot e che, invece, è divenuta un arcano, un atto sacrale e fideistico.
Nello stesso tempo, occorrerebbe una norma che chiarisca che laddove la contrattazione decentrata utilizzi le risorse così semplicemente determinate, non scatti alcuna responsabilità erariale ed amministrativa se si utilizzi un’indennità invece di un’altra, così da limitare l’eccessiva discrezionalità della magistratura contabile, secondo la cui giurisprudenza il danno, nella contrattazione, si verifica non solo quando si utilizzino più risorse del consentito, ma anche se, pur nel rispetto dei tetti di spesa, le destinazioni non siano perfettamente rispondenti alle cervellotiche regole fin qui disposte.
Per riformare davvero la pubblica amministrazione, a guardar bene, non servono affatto testi unici, leggi delega, decine e decine di decreti delegati “epocali”, ma solo pochissime regole di efficienza. Quelle che, regolarmente, non si vedono mai.

1 commento:

  1. Tiziano Garavaglia7 marzo 2016 alle ore 11:07

    Parole molto opportune che purtroppo risuoneranno come grida nel deserto!

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