Su molti aspetti della
disciplina degli appalti tantissimi interpreti ed operatori, in ciò sorretti
anche da parte poco condivisibile della giurisprudenza, non intendono
indietreggiare di un millimetro, a dispetto di una normativa europea e
nazionale chiarissima. Ne è un esempio la questione della “fiduciarietà” degli
incarichi agli avvocati, da considerare una volta e per sempre eliminata dal
d.lga 50/2016, anche se già nel precedente ordinamento, mercè le chiarissime
direttive europee, già le cose stessero così, a dispetto di una giurisprudenza
amministrativa incomprensibilmente incline ad ignorare – in questo caso – la normativa
di Bruxelles, a costo di conservare a prescindere valore alla “personalità”
della prestazione, nemmeno lontanamente presa in considerazione dalla
disciplina degli appalti.
Un altro fronte di continua, per
quanto vana, discussione è quello del rinnovo dei contratti, che dura ormai da
oltre un decennio.
Tutto risale al 1993, quando la
legge 537 disciplinò il rinnovo all’articolo 6. Una norma talmente sofferta che
già l’anno dopo venne modificata dall’articolo 44, comma 1, della legge 724,
1994, il quale introdusse il seguente comma 2, prevedendo: “E' vietato il rinnovo tacito dei contratti
delle pubbliche amministrazioni per la fornitura di beni e servizi, ivi
compresi quelli affidati in concessione a soggetti iscritti in appositi albi. I
contratti stipulati in violazione del predetto divieto sono nulli. Entro tre mesi dalla scadenza dei
contratti, le amministrazioni accertano la sussistenza di ragioni di
convenienza e di pubblico interesse per la rinnovazione dei contratti medesimi
e, ove verificata detta sussistenza, comunicano al contraente la volontà di
procedere alla rinnovazione”.
Vietato il rinnovo tacito, era
consentito il rinnovo espresso. Con una norma, tuttavia, inconciliabile con le
direttive europee sugli appalti, a mente delle quali non era previsto il
rinnovo, ma la ripetizione dei servizi analoghi, secondo uno schema procedurale
(ancora oggi vigente) diverso da quello proposto dalla normativa nazionale. La quale
non poteva che essere recessiva rispetto a quella europea. Infatti, dopo quasi
un decennio di conflitti interpretativi e giurisprudenziali volti ad
evidenziare l’inconciliabilità del rinnovo espresso di diritto interno con le
regole della ripetizione delle prestazioni europee, il legislatore italiano fu
costretto ad intervenire sulla norma, attraverso la novella apportata dall’articolo
23, comma 1, della legge 62/2005 (non a caso legge in tema di “Disposizioni per l’adempimento di obblighi
derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee”). La
novellazione eliminò dal testo dell’articolo 6, comma 2, della legge 537/1993 l’ultimo
periodo, quello che sopra abbiamo enfatizzato in grassetto.
Un’abolizione chiarissima ed
indiscutibile dell’istituto del rinnovo espresso, dovuta alla necessità di
adeguare l’ordinamento interno a quello comunitario, che conosceva e conosce
solo ed esclusivamente l’istituto analogo, ma diverso, della ripetizione dei
servizi.
Come è noto, un anno dopo il
d.lgs 163/2006 abolì definitivamente l’intero articolo 6, comma 2.
L’evoluzione normativa è
chiarissima. Si è passati da una disciplina di diritto interno posta a regolare
e consentire espressamente il rinnovo, ad una disciplina necessitata ad
adeguarsi a quella comunitaria, che non ammette il rinnovo espresso, ma si
limita a regolare la ripetizione delle prestazioni. Il legislatore italiano,
costretto alla luce della disciplina europea, manifestò in modo inconfutabile
la volontà di dis-volere l’istituto del rinnovo, alla luce della valutazione di
diritto europeo che si tratterebbe di un affidamento diretto, una procedura
negoziata, i cui presupposti non sono conformi alle direttive.
Nonostante il quadro
chiarissimo, qualcuno ha continuato a ritenere che un istituto soppresso
esplicitamente dal legislatore come il rinnovo, potesse tuttavia risorgere
dalle proprie ceneri, in applicazione dell’autonomia di diritto privato delle
stazioni appaltanti. L’idea, dunque, è che se il bando preveda il rinnovo vero
e proprio e non la ripetizione delle prestazioni di stampo europeo, in ogni
caso sarebbe legittimo.
Si tratta di un chiaro
aggiramento, anzi una vera e propria violazione delle leggi, che, tuttavia,
alcune sparute sentenze amministrative hanno ritenuto possibile, nonostante il
d.lgs 163/2006 non abbia mai ripetuto il contenuto dell’abolito articolo 6,
comma 2, della legge 537/1993.
Ma, in Italia è difficilissimo
far entrare realmente e fino in fondo i principi comunitari nella prassi, anche
se magari sul piano formale le leggi sono conformi pienamente alle direttive
europee.
Quindi, oltre all’idea
oggettivamente infondata dell’ammissibilità del rinnovo espresso disposto coi
bandi, purtroppo sostenuta da parte della giurisprudenza, la “prassi” ha
cercato di approfittare dell’occasione della necessaria revisione del codice
dei contratti alla luce della direttiva 24/2014/Ue, per indurre il legislatore
a reintrodurlo. Come si ricorda, inizialmente la bozza di codice conteneva la
riproposizione di una forma di rinnovo di diritto interno nell’articolo 106,
comma 12. Però, anche per merito del parere del Consiglio di stato
immediatamente accortosi della cosa, nel testo finale del d.lgs 50/2016 non v’è
alcuna “nostalgica” disciplina del rinnovo espresso.
Ma, ribadiamo, in Italia è
difficile che la prassi e la “nostalgia” per le scorciatoie procedurali cedano
il passo.
Dunque, succede che l’articolo
216 del codice abbia introdotto un insieme di norme di diritto transitorio così
mal espresse e complicate che nessuno ci abbia capito niente.
Sicchè, l’Anac si è sentita nel
dovere di intervenire col “Comunicato del Presidente” 11 maggio 2016, avente ad
oggetto “Indicazioni operative alle
stazioni appaltanti e agli operatori economici a seguito dell’entrata in vigore
del Codice dei Contratti Pubblici, d.lgs. n. 50 del 18.4.2016”. Qui un
inciso: avevamo creduto che la soft law
fosse tipizzabile quanto meno in linee guida, bandi-tipo, capitolati-tipo,
contratti-tipo; mal poiché l’articolo 213, comma 2, del codice consente all’Autorità
di esprimersi anche con “altri strumenti di regolamentazione flessibile,
comunque denominati”, evidentemente anche il “comunicato” del presidente entra
di diritto a far parte della soft law,
in attesa anche dei tweet, dei gesti, dei fischi e dei graffiti sui muri.
Tornando alla “fonte” del
comunicato, essa sciaguratamente si dilunga sulla fattispecie del “rinnovo”,
affermando che restino ancora disciplinati dal previgente ordinamento “il rinnovo del contratto o modifiche contrattuali derivanti da rinnovi
già previsti nei bandi di gara”.
Un’affermazione, questa, due
volte non condivisibile ed erronea, perché:
1)
il d.lgs 163/2006 non regola per nulla il rinnovo; come
si è detto sopra, parte della giurisprudenza ha ammesso il rinnovo previsto col
bando nell’esercizio dell’autonomia di diritto privato. Ma, se il d.lgs non
regola il rinnovo, non può esistere alcun diritto transitorio che lasci ancora
in piedi una norma inesistente;
2)
l’indicazione dell’Anac è del tutto priva di
motivazione. Anche ammesso che il rinnovo fosse disciplinato dal d.lgs 163/2006
– il che non è – comunque non si capisce quale sia la ratio secondo la quale un
contratto integralmente nuovo, quello rinnovato, e totalmente autonomo dal
primo, al quale resta solo logicamente connesso dalla clausola di rinnovo,
debba rispettare il regime normativo (inesistente) precedente e non quello
vigente al momento della stipulazione del rinnovo.
Ma, al di là degli evidenti vizi
logici e di legittimità del comunicato sul punto, esso ha già dato fiato alle
trombe di chi ritiene, nonostante tutto, che sia ancora possibile in Italia un
rinnovo di diritto interno, distinto da quello europeo, e pazienza che il
tentativo di reintrodurre una disciplina espressa con la prima stesura dell’articolo
106, comma 12, del codice sia stato fermato con risolutezza da Palazzo Spada.
Dunque la poco meditata ed
erronea affermazione dell’Anac sortisce un altro effetto esiziale: quello di
fornire ulteriori argomentazioni, per quanto speciose, ai sostenitori del
rinnovo di diritto interno. I quali non terranno sicuramente conto del fatto
che, anche a voler considerare condivisibile e legittima la ricostruzione dell’Anac
sulla questione, l’accenno al rinnovo non può che riferirsi ad una
constatazione di fatto: alla data del 19 maggio erano in piedi certamente bandi
che prevedevano il rinnovo e, dunque, l’indicazione dell’Anac è solo ed
esclusivamente rivolta al passato e non può essere considerata fonte di
disciplina del rinnovo per il futuro. Va bene la soft law, ma essa deve fermarsi alla specificazione delle regole,
non può andare fino alla posizione delle norme: a questo compito, piaccia o non
piaccia, può e deve attendere esclusivamente il Parlamento. Per altro, il
Parlamento, anzi il legislatore delegato, ha anche provato a reintrodurre il
rinnovo espresso, ma alla fine non lo ha fatto. Questa argomentazione da sola
assorbe qualsiasi altra, per dimostrare che il rinnovo è da considerare definitivamente
(e lo è da almeno 2 decenni) espunto dall’ordinamento.
Né vale appellarsi all’articolo
35, comma 4, del d.lgs 50/2016, ove ai fini del calcolo dell’importo dei
contratti per determinare le soglie, si specifica che si “tiene conto dell'importo massimo stimato, ivi compresa qualsiasi forma
di eventuali opzioni o rinnovi del contratto esplicitamente stabiliti nei
documenti di gara”. La norma, infatti, è praticamente identica a quanto
prevedeva l’articolo 29, comma 1, del d.lgs 163/2006 (“Il calcolo del valore stimato degli appalti pubblici e delle
concessioni di lavori o servizi pubblici è basato sull'importo totale pagabile
al netto dell'IVA, valutato dalle stazioni appaltanti. Questo calcolo tiene
conto dell'importo massimo stimato, ivi compresa qualsiasi forma di opzione o
rinnovo del contratto”). Ma, nel previgente sistema, come ricordato sopra,
nessuno ha mai pensato che detta norma fosse posta a fondamento di un rinnovo
di diritto interno diverso dalla ripetizione delle prestazioni; tanto che
quella parte di giurisprudenza e di dottrina ancora abbarbicata alla coperta di
Linus del rinnovo ne fondava la legittimità non sulle previsioni del codice dei
contratti (imprese impossibile alla luce di una interpretazione orientata a
rispettare le direttive europee), ma all’autonomia di diritto privato, assunta –
erroneamente – come fonte di deroga alla normativa sugli appalti che, invece,
ha l’esatto scopo proprio di limitare l’autonomia privata delle stazioni appaltanti,
allo scopo di garantire l’applicazione dei principi oggi ben espressi dall’articolo
30 del codice, tra i quali quelli di libera concorrenza, non discriminazione,
trasparenza, e pubblicità, del tutto inconciliabili con un rinnovo extra ordinem di matrice interna.
Il riferimento dell’articolo 35,
comma 4, riguarda ovviamente l’ipotesi unica di riaffidamento di un contratto
avente identico contenuto ad un precedente tra una stazione appaltante ed un
operatore economico, prevista, nel nuovo codice, nell’articolo 63, comma 5: “La presente procedura [cioè quella
negoziata, nda] può essere utilizzata per
nuovi lavori o servizi consistenti nella ripetizione di lavori o servizi
analoghi, già affidati all'operatore economico aggiudicatario dell'appalto
iniziale dalle medesime amministrazioni aggiudicatrici, a condizione che tali
lavori o servizi siano conformi al progetto a base di gara e che tale progetto
sia stato oggetto di un primo appalto aggiudicato secondo una procedura di cui
all'articolo 59, comma 1. Il progetto a base di gara indica l'entità di
eventuali lavori o servizi complementari e le condizioni alle quali essi
verranno aggiudicati. La possibilità di avvalersi della procedura prevista dal
presente articolo è indicata sin dall'avvio del confronto competitivo nella
prima operazione e l'importo totale previsto per la prosecuzione dei lavori o
della prestazione dei servizi è computato per la determinazione del valore
globale dell'appalto, ai fini dell'applicazione delle soglie di cui
all'articolo 35, comma 1 Il ricorso a questa procedura è limitato al triennio
successivo alla stipulazione del contratto dell'appalto iniziale”.
Nei fatti è un rinnovo, certo,
ma vincolato a specifici presupposti e condizioni che rendono qualsiasi altro
rinnovo disposto con modalità e regole differenti semplicemente illegittimo.
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