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venerdì 5 luglio 2019

I dirigenti a contratto debbono avere requisiti ben superiori alla semplice esperienza professionale



Appare davvero incredibile che ancora nel 2019 si debbano emettere sentenze come quella della Cassazione, Sezione lavoro (ud. 10/04/2019) 07/06/2019, n. 15514, nella quale si afferma l’ovvio: cioè che un dirigente a contratto, incaricato ai sensi dell’articolo 110 del d.lgs 267/2000 deve essere in possesso di requisiti professionali di spiccatissima eccellenza, non bastando la semplice esperienza professionale di 5 anni.

Questo dimostra alcuni elementi piuttosto gravi, come dimostra il commento analitico della sentenza proposto oltre:
  1. la pervicacia nel negare l’evidenza: la regolamentazione del reclutamento dei dirigenti è materia di potestà legislativa esclusiva dello Stato, rientrando nell’ordinamento civile;
  2. l’ostinazione nell’elaborare regolamenti di organizzazione o, peggio, adottare bandi pubblici che modifichino i contenuti della normativa sugli incarichi a contratto;
  3. l’insistenza nel considerare gli articoli 110 del d.lgs 267/2000 e 19, comma 6, del d.lgs 165/2001 come fossero del tutto autonomi e separati, anche se lo stesso articolo 19, al comma 6-ter chiarisce senza ombra di dubbio: “ Il comma 6 ed il comma 6-bis si applicano alle amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2”, quindi anche agli enti locali;
  4. la perseveranza nel considerare gli incarichi a contratto:
    1. una sorta di investitura medievale, nell’esercizio di un potere arbitrario della politica di “creare” il dirigente “di fiducia”, tanto che si possa persino prescindere da requisiti di professionalità benchè minimi;
    2. una sorta di premio o progressione verticale a tempo determinato per funzionari che abbiano maturato alcuni anni di esperienza;
  5. la gravissima mancanza di controlli preventivi di legittimità, causa dell’impossibilità di impedire la violazione costante e continua delle norme, dovuta alla debolezza estrema dei controlli interni e della posizione dei segretari comunali che, soggetti allo spoil system, non hanno modo di frapporsi alla gestione degli incarichi a contratto intesa come esercizio di un potere arbitrario da parte della politica.
La sentenza analizza una serie distinta di questioni giuridiche. La prima riguarda la tendenza degli enti locali, specie appartenenti a regioni o province autonome (come nel caso di specie), a considerare legittimo e possibile regolare gli incarichi dirigenziali a contratto in modo peculiare e comunque differente, rispetto alla disciplina normativa nazionale.
Nel caso particolare, il comune di Rovereto ha ritenuto di dover applicare, con prevalenza rispetto alla legge, l’articolo 119 del proprio regolamento di organizzazione che, come moltissimi altre norme di regolamenti comunali, invece di dettagliare le modalità attuative dell’articolo 110 del Tuel e dell’articolo 19, comma 6, del d.lgs 165/2001, ne “riscrive” in parte i contenuti modificandone i presupposti e quindi stravolgendone gli scopi.
La sentenza riporta il testo dell’articolo del regolamento, che mettiamo a confronto con l’articolo 19, comma 6, del d.lgs 165/2001:
Regolamento
Art. 19, comma 6
1. L'incarico ai dirigenti assunti a tempo determinato con deliberazione della giunta comunale è conferito con provvedimento del sindaco, accertata l'adeguata professionalità documentata da specifico curriculum ed in possesso dei requisiti generali e speciali per l'accesso agli impieghi presso l'amministrazione comunale, secondo quanto previsto dal presente regolamento, o abbiano conseguito una particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e post-universitaria, da pubblicazioni scientifiche o concrete esperienze di lavoro, o provenienti da settori della ricerca, della docenza universitaria, delle magistrature e dei ruoli degli avvocati e procuratori dello Stato.
2. Il conferimento dell'incarico è predisposto sulla base della valutazione del curriculum e dei requisiti culturali e professionali previo avviso al pubblico contenente la funzione dirigenziale, i requisiti richiesti, il trattamento economico base e il termine per la presentazione delle domande (....)
[...] Tali incarichi sono conferiti, fornendone esplicita motivazione, a persone di particolare e comprovata qualificazione professionale, non rinvenibile nei ruoli dell'Amministrazione, che abbiano svolto attività in organismi ed enti pubblici o privati ovvero aziende pubbliche o private con esperienza acquisita per almeno un quinquennio in funzioni dirigenziali, o che abbiano conseguito una particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e postuniversitaria, da pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di lavoro maturate per almeno un quinquennio, anche presso amministrazioni statali, ivi comprese quelle che conferiscono gli incarichi, in posizioni funzionali previste per l'accesso alla dirigenza, o che provengano dai settori della ricerca, della docenza universitaria, delle magistrature e dei ruoli degli avvocati e procuratori dello Stato. Il trattamento economico può essere integrato da una indennità commisurata alla specifica qualificazione professionale, tenendo conto della temporaneità del rapporto e delle condizioni di mercato relative alle specifiche competenze professionali. […]

Come si nota:
  1. il comune di Rovereto considera come alternativi:
    1. il possesso dei requisiti per accedere all’impiego; nel caso di specie, per l’accesso alla dirigenza la laurea e un minimo di permanenza in posizioni di vertice nell’area delle categorie;
    2. la particolare specializzazione professionale;
  2. il comma 6 dell’articolo 19, invece, impone che le concrete esperienze di lavoro in categorie che consentano l’accesso (concorsuale) alla dirigenza sia posseduto inscindibilmente insieme con la particolare specializzazione professionale.
Ma, può legittimamente un regolamento di organizzazione contenere previsioni diverse da quelle della norma, nel caso della disciplina del reclutamento di dipendenti pubblici? Risponde la Cassazione: no! Il motivo è semplice: “Trova, inoltre, applicazione il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 19 nella specie comma 6, in quanto la disciplina degli incarichi dirigenziali per quanto attiene ai profili normativi del rapporto è materia attratta all'ordinamento civile, e in quanto tale rimessa alla potestà esclusiva dello Stato dall'art. 117 Cost., comma 2, lett. l, (cfr., sentenze Corte Cost. n. 324 del 2010, n. 62 del 2019). Come affermato dalla Corte costituzionale (sentenze n. 231 del 2017, n. 77 del 2013), la competenza statale esclusiva in materia di "ordinamento civile" vincola gli enti ad autonomia differenziata anche con riferimento alla disciplina del rapporto di lavoro con i propri dipendenti. Si può ricordare, inoltre che, ai sensi dell'art. 4 dello statuto, la potestà legislativa primaria della Regione Trentino-Alto Adige, in materia di "ordinamento degli uffici regionali e del personale ad essi addetto" è esercitata, tra l'altro, nei limiti principi generali dell'ordinamento giuridico della Repubblica”.
E sul punto, ben prima: Cass., sez.lav., 20 gennaio 2015 n. 849: “se è certamente vero che l'esercizio della potestà regolamentare costituisce anch'esso espressione della autonomia dell'ente locale, in quanto attua la capacità dell'ente di porre autonomamente le regole della propria organizzazione e del funzionamento delle istituzioni, degli organi, degli uffici e degli organismi di partecipazione, ed ha trovato anch'esso riconoscimento costituzionale nel nuovo testo dell'art. 117 Cost., è tuttavia altrettanto vero che la disciplina delle materie che l'art. 7 del testo unico delle autonomie locali affida al regolamento deve avvenire nel rispetto dei principi fissati dalla legge e dello statuto: ciò vale a dire che il potere di autorganizzazione attraverso lo strumento regolamentare deve svolgersi all'interno delle previsioni legislative e statutarie, così ponendosi un rapporto di subordinazione”, subordina la potestà statutaria e regolamentare al rispetto di norme di legge, ergo del TUEL, ma anche del d.lgs 165 del 2001 e, dunque, dell’art. 19, co.6 (con i suoi requisiti culturali), sia prima che dopo la novella del 150.
E’ assurdo che non bastino ai comuni norme chiarissime di legge e sentenze della Corte costituzionale per applicare una volta e per sempre in modo corretto la disciplina degli incarichi a contratto.
Ma, perché mai il legislatore (che bene farebbe ad estirpare per sempre la malaerba micidiale degli incarichi a contratto, abrogandoli definitivamente) ha previsto in modo così rigoroso che il semplice possesso dei requisiti per accedere ad un concorso non siano sufficienti per ottenere l’incarico dirigenziale a contratto?
La ragione è semplicissima. La spiega la Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Lombardia, con sentenza 22.6.2017, n. 91: “se per accedere tramite concorso alla qualifica dirigenziale occorre la laurea più una pregressa esperienza lavorativa pluriennale (di regola, salvo che per il c.d. corso-concorso tramite SNA-SSPA), e, soprattutto, il superamento di selettive ed eclettiche prove scritte ed orali (talvolta anche con valutazione di titoli) tese a reclutare “i migliori” aspiranti secondo i dettami costituzionali, a maggior ragione la sussistenza di ancor più elevati e cumulativi requisiti culturali e professionali è richiesta, testualmente e logicamente, in capo a soggetti esterni che, non sostenendo un concorso teso a dimostrare cultura e capacità, solo e soltanto attraverso un probante, autorevole ed assai elevato curriculum (raffrontato con quello di altri aspiranti in una trasparente procedura selettiva) possono comprovare la predetta “particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica” richiesta dall’art.19, co.6 cit.
La suddetta, pur comprensibile, deroga al meritocratico vaglio concorsuale, che di regola valuta con prove scritte ed orali la reale preparazione dei tanti candidati, necessita dunque, quale basilare ed indefettibile requisito, della laurea, oltre che di dimostrata significativa (elevata, specifica e non comune) esperienza lavorativa e di pubblicazioni comprovanti l’alta specializzazione/professionalità posseduta, che “compensa” la mancanza di un riscontro, in punto di preparazione, in un esame pubblico.”.
Chiaro? Normalmente, alla dirigenza si accede a seguito di un concorso finalizzato a selezionare il migliore tra quei concorrenti che dispongano dei requisiti minimi richiesti dalla legge per essere ammessi. E’ l’esito del concorso a determinare il migliore tra i concorrenti, quale soggetto che possa ricoprire quindi la qualifica dirigenziale.
In assenza di concorso, non è possibile un confronto concorrenziale. L’incarico a contratto, che per altro ha il primario scopo – e presupposto – di rimediare ad una dimostrata carenza di professionalità nell’ente procedente, consente di non effettuare prove concorsuali perché finalizzato ad “attingere dal mercato” figure dotate di requisiti di professionalità così evidenti ed elevate, da far presupporre in modo assoluto che la loro competenza non sia certamente inferiore a quella che dimostrerebbe il candidato che superi il vaglio di un concorso.
Ecco, quindi, che il mero possesso di una certa anzianità di servizio in posizione di accesso alla qualifica dirigenziale e della laurea, non possono che essere requisito per accedere al concorso, ma non per ottenere un incarico dirigenziale a contratto. A tale scopo occorre ben di più.
Come evidenzia sempre la sentenza 91/2017 della Sezione Lombardia, “La chiarissima norma, nell’attuale come nel previgente testo (anteriore cioè al d.lgs. n.150), stabilisce dunque la possibilità di conferire incarichi di funzioni dirigenziali a tempo determinato, fornendone espressa motivazione, a tre diverse categorie di soggetti di particolare e comprovata qualificazione professionale e culturale, non rinvenibile nei ruoli (dirigenziali) dell’Amministrazione:
a) soggetti che abbiano svolto attività in organismi ed enti pubblici o privati, ovvero aziende pubbliche o private, con esperienza acquisita per almeno un quinquennio in funzioni dirigenziali;
b) persone che abbiano conseguito una particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla indefettibile formazione universitaria e postuniversitaria, da pubblicazioni scientifiche o/e (congiunzione mutata dopo il d.lgs. n.150) da concrete esperienze di lavoro maturate per almeno un quinquennio, anche presso amministrazioni statali, ivi comprese quelle che conferiscono gli incarichi, in posizioni funzionali previste per l’accesso alla dirigenza;
c) soggetti che provengano dai settori della ricerca, della docenza universitaria, delle magistrature e dei ruoli degli avvocati e procuratori dello Stato.
Un dettaglio che spessissimo gli enti locali “dimenticano” è che, applicando l’articolo 110 del Tuel debbono contestualmente anche applicare l’articolo 19, comma 6, del d.lgs 165/2001, sicché dovrebbero selezionare solo personale che disponga di una delle possibili 3 alternative elevate professionalità viste sopra. Il che non accade quasi mai. Specie, poi, quando l’incarico sia attribuito – come accade troppo spesso – a personale interno.
Ora, le lettere c) e d a) evidenziate sopra dalla Corte dei conti sono piuttosto chiare. Che professori o ricercatori universitari, magistrati ed avvocati o procuratori dello Stato, selezionati sulla base di rigorosissimi concorsi, dispongano di una professionalità adeguata a quella di un dirigente non può essere messo in dubbio. In quanto all’ipotesi a), la circostanza di aver svolto in passato funzioni dirigenziali sia nel pubblico che nel privato (la norma parla di “funzioni” perché parla anche di incarichi privati; nel caso di attività nel pubblico è evidente che occorre avere un quinquennio nella qualifica), suggerisce che il destinatario ha già dimostrato in passato di poter svolgere la funzione. En passant: anche per questi soggetti è necessario il requisito imprescindibile della laurea. Non è pensabile che un dirigente pubblico, pur reclutato a contratto, non disponga di un requisito che, laddove mancante, nemmeno gli consentirebbe di partecipare ad un concorso.
Il punto controverso allora è la lettera b) evidenziata prima dalla Corte. Che spiega, però, perché l’esperienza professionale da sola non basta: la sostituzione ad opera del d.lgs. n.150/2009 della originaria congiunzione coordinativa disgiuntiva “o” (dalla formazione universitaria e postuniversitaria, da pubblicazioni scientifiche o da concrete esperienze di lavoro maturate) con la congiunzione coordinativa copulativa “e” (dalla formazione universitaria e postuniversitaria, da pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di lavoro maturate) abbia sul piano giuridico una portata decisiva ai fini del presente giudizio, in quanto detta mutevole congiunzione (prima “o”, poi “e”), per la sua collocazione testuale e per sua logica interpretazione, coordina e rende (ieri) alternativi oppure (oggi e, dunque, nel caso di specie) cumulativi i requisiti, aggiuntivi comunque alla laurea, costituiti da “pubblicazioni scientifiche e concrete esperienze di lavoro maturate” sintomatiche (in via un tempo alternativa, oggi cumulativa) della richiesta “particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica”. In altri termini, dette mutevoli congiunzioni non si legano e non si coordinano, sul piano grammaticale e logico, al requisito imprescindibile della laurea, rispetto alla quale sono entrambe aggiuntive sia prima che dopo la novella del d.lgs. n.150/2009 (v. C.conti, sez.Lombardia n. 97/2016 cit.), ma raccordano in chiave oggi (e già all’epoca del conferimento omissis) cumulativa le “pubblicazioni scientifiche” con le “concrete esperienze di lavoro maturate.
La Cassazione, con la sentenza 15514 giunge alle identiche conclusioni: “il giudice di appello afferma, altresì correttamente, in ragione della lettera della disposizione e della ratio legis, anche in ragione del confronto tra i testi normativi succedutisi nel tempo, che la concreta esperienza di lavoro deve coesistere con quella scientifica e deve essere dirigenziale o ad essa equiparabile. […] correttamente la Corte d'Appello, da un lato, ha, nella sostanza, disapplicato l'art. 119 del regolamento comunale, atteso che quest'ultimo, in quanto esula dai principi generali sanciti dalla legislazione regionale, ha natura provvedimentale e non è riconducibile alla potestà normativa regolamentare sancita dall'art. 65 dello statuto; dall'altro, ha fatto applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 19, comma 6. Consegue a ciò l'illegittimità del bando di selezione e della relativa procedura, nonchè dell'atto di conferimento dell'incarico che veniva annullato.
C’è, dunque, una giurisprudenza ormai granitica e consolidata che conferma: no, gli incarichi a contratto non sono né un’investitura medievale all’uomo di fiducia dell’organo di governo e nemmeno una progressione verticale.
Nonostante il quadro sia chiarissimo, negli enti locali imperversano incarichi a contratto attribuiti senza alcun rispetto delle disposizioni.
E ancora si assiste alla sottoposizione alla Corte dei conti della domanda se sia possibile fare a meno del requisito della laurea per i destinatari dell’incarico, come desolatamente dimostra il parere 19.6.2019 della Sezione regionale di controllo per la Puglia, n. 66. Per altro, preceduto molti anni prima da analoghe pronunce.
Insomma, è chiaro: gli enti locali che insistono nell’applicare la disciplina degli incarichi a contratto in modo ellittico e difforme dalla legge non possono giustificare questo modus operandi con la poca chiarezza della normativa o l’incertezza interpretativa.
Si tratta di un’insistenza dovuta ad un insieme di fattori: le pressioni che la politica fa per acquisire persone di propria fiducia, la maggiore snellezza e semplicità di acquisire un 110 invece che attivare un concorso, l’assenza totale della capacità di fermare incarichi illegittimi prima.
Questo è l’elemento più grave. Vi fosse un organo di controllo preventivo di legittimità, atti di incarico in violazione delle norme ben più difficilmente verrebbero approvati; i segretari comunali, troppo isolati nelle loro funzioni di controllo e vittime di uno spoil system che la Corte costituzionale con la sentenza 23/2019 ha perso l’occasione di cancellare (venendo meno alla propria coerenza di 12 anni di pronunce sul tema), non hanno la forza, da soli, di gestire un controllo preventivo di tipo ostativo. Un organo di controllo terzo ed esterno sarebbe un appoggio formidabile, sia con funzioni dissuasive in fase istruttoria, sia attraverso la funzione demolitoria del mancato visto di controllo.
Non si tratta di riportare in auge istituti vecchi o di limitare l’autonomia gestionale degli enti locali. L’autonomia bisogna saperla conquistare e meritare. Se essa è la scusa anche per incarichi a contratto farlocchi, a persone senza laurea o senza i requisiti minimi (e logici) per un reclutamento senza concorso, non c’è ragione perché possa essere difesa.

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