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mercoledì 13 luglio 2022

L’irrealistico approccio aziendalistico alle riforme della pubblica amministrazione

 Non c’è nessuno capace, con argomenti credibili, di poter affermare che la pubblica amministrazione in Italia sia pienamente efficiente e che, di conseguenza, non vadano apportate modifiche all’organizzazione ed al sistema.

Tuttavia, troppe volte le proposte di intervento si rivelano velleitarie e fuori mira, spesso per una ragione di fondo: si pensa che i problemi della PA siano risolvibili applicando i criteri di management aziendali.

Di conseguenza, si producono forbite analisi, arricchite di molteplici inglesismi, come quella pubblicata su Il Sole 24 Ore del 13.7.2022, a firma di Veronica Vecchi, nell’articolo titolato “Come formare i manager pubblici per gestire il Pnrr”.

Si tratta dell’archetipo di suggerimenti e visioni astrattamente accattivanti e fondamentalmente corretti, ma caratterizzati da conclusioni non corrette. Non perché esse lo siano intrinsecamente, ma perché regolarmente ignorano o sottovalutano o non considerano, perché roba burocratica da legulei, il fattore, invece, determinante della fortissima limitazione all’organizzazione derivante dalla sottoposizione dell’azione amministrativa alla normativa di diritto speciale che costituisce l’insieme vastissimo dei limiti e della guida della PA, prodotta in modo alluvionale dal Legislatore.

Chi si interessa di management e non ha chiari i fondamenti normativi dell’azione della PA, tra i quali in primis il rispetto dell’inderogabile principio di legalità, è portato a pensare che le regole del management possano essere sufficienti per migliorare la qualità dei servizi, come se l’apparato normativo fosse una variabile senza peso. Infatti, immancabilmente l’autrice nel disegnare una sin troppo astratta prospettiva di formazione del management pubblico sguaina l’argomento secondo il quale non si deve avere “paura dei ricorsi o della Corte dei Conti”.

E’ un’argomentazione totalmente erronea. La necessità di agire nel rispetto delle norme deriva dalla Costituzione (articolo 97) ed oltre ad essere dovere specifico di ogni dipendente pubblico è garanzia del perseguimento corretto dell’interesse pubblico, intendendosi per “corretto” l’interesse fissato dal Legislatore e non quello scelto dal management della PA.

In effetti, il principio di legalità dell’azione amministrativa intende esattamente evitare che il management, ma potremmo dire “l’apparato del sovrano” possa discrezionalmente di volta in volta fissare uno specifico interesse arbitrariamente considerato prevalente su quello di altri, anche in relazione a contingenti situazioni oggettive o, soprattutto, soggettive delle parti in causa. Una rivoluzione nel 1789, i connessi sommovimenti, un intero secolo a ferro e fuoco sono stati necessari per porre il principio che il sovrano è il popolo, che esercita la propria sovranità con la rappresentanza delle forze politiche eletto in un Parlamento il cui potere legislativo fissa gli interessi e determina anche i modi del loro esercizio, per evitare abusi ed arbìtri da parte dell’apparato.

Insomma, mentre nel sistema privato, sia pure nel quadro ovvio di obblighi giuridici comunque esistenti e da rispettare, il management concorre con l’imprenditore (col quale talvolta coincide) a determinare interessi da perseguire e modi connessi con piena autonomia, tale autonomia nell’azione pubblica è fortemente limitata. Tanto che la stessa concezione dei vertici pubblici come “management” non appare persuasiva.

L’autrice dell’articolo citato prima, nel delineare gli interventi a livello micro, determinanti per innovare l’azione della PA in particolare in funzione del Pnr, cita come fondamentale “il procurement, nelle sue varie declinazioni, con contratti di appalto o concessioni (Ppp)”. E nota che “questi contratti, al di là dell'atteso nuovo Codice dei Contratti, potrebbero giocare un ruolo sostanziale, come reale driver di innovazione per stimolare la competitività e produttività delle imprese (si pensi all'impiego di nuovi materiali in grado di ottimizzare i costi di manutenzione, a soluzioni di circularity o a modelli più efficaci di gestione della sicurezza sui cantieri) e per offrire migliori soluzioni ai cittadini, se le amministrazioni sapessero assumere un ruolo di buyer sofisticato, che richiede competenze, allineamento con il mercato e coraggio di uscire fuori dagli schemi”.

Tutto molto bello, per citare Bruno Pizzul. Peccato che l’ultima affermazione sia tanto suggestiva, quanto del tutto carente di basi tecniche e, quindi, di fatto, vuota.

Indicare la PA che agisce mediante appalti come “buyer qualificato” è certo aulico e aderente al dolce stil novo aziendalisitco: ma è solo un espediente linguistico alto, che non dice nulla e non potrebbe dire nulla di concreto.

Il ragionamento della Vecchi è evidentemente inficiato da una contraddizione interna: da una parte cita il codice dei contratti, mostrando una certa consapevolezza dell’incidenza fortissima che esso esercita sull’attività della PA; dall’altra, poi parla di “allineamento con il mercato” e “coraggio di uscire fuori dagli schemi”.

Ma:

1)     l’allineamento col mercato non è scelto e regolato dalle PA a loro piacimento, magari scegliendo segmenti e partner. La concorrenza e l’apertura al mercato più ampi possibili sono imposti dalle direttive europee, delle quali il codice dei contratti è attuazione, oltre che dalla Costituzione. La PA ha limitatissime possibilità di determinare il mercato, per esempio nella sua estensione territoriale, e meno ancora di creare relazioni e partenariati, perché obbligata ad agire secondo schemi negoziali che privilegiano le gare e l’autoproduzione dei progetti;

2)     gli “schemi” dai quali si sollecita ad uscire fuori sono esattamente quelli stabiliti dalla legge, codice degli appalti e qualsiasi altra. Il principio di legalità citato prima è posto esattamente a presidiare e sanzionare l’uscita dagli schemi: il “manager” pubblico può solo scegliere tra gli schemi fissati quello più adatto alla situazione concreta, ma non può uscirne.

Uscire dagli schemi normativi sarà anche atto di coraggio, se visto con gli occhiali di chi non considera la necessità di rispettare le norme che regolano l’ordinamento, ma alla fine è non solo un danno eventuale per chi pensi di avere la libertà di crearsi da sé schemi nuovi e diversi da quelli imposti dal legislatore (il “manager” coraggioso), ma per la popolazione tutta. Infatti, appalti assegnati in violazione delle regole o uscendo dagli schemi per lo più sono appalti, acquisti, servizi e forniture, costruiti senza un valido titolo giuridico. Il che, quando va bene, se nessuno controlla o se ne accorge, non produce conseguenze; se, invece, va male, perché soggetti preposti ai controlli – che nel privato non esistono – come Anac e Corte dei conti, ad esempio, o perché scatta un contenzioso, si produce un danno connesso al fermo della prestazione, alle spese di giudizio, al ritardo nella realizzazione, all’incremento dei costi, all’inefficienza collettiva. Con conseguenze pesanti sulla comunità amministrata e, in definitiva, anche sull’andamento del Pnrr.

In conclusione: pare inutile e oggettivamente poco avveduto paventare come coraggiose azioni gestionali “fuori dagli schemi”. Se si ritiene davvero che la qualità dell’azione della PA dipenda da un diverso approccio del management, occorre un presupposto: modificare radicalmente l’assetto della PA stessa, a partire dalla Costituzione. Tuttavia, per restare agli appalti, il ruolo di “buyer sofisticato” non potrà che restare poco più di una bella perifrasi con echi anglofoni: le direttive europee, che vincolano e limitano l’azione della PA come committente, restano comunque e vanno rispettate comunque. Con coraggio o senza, ammantandosi della veste di buyer sofisticato o meno.

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