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giovedì 11 luglio 2024

Abolito il reato di abuso d'ufficio, resta ora la classica domanda: a chi giova?

 

L’abuso d’ufficio è stato “finalmente” abolito. E’ lecito attendersi che ciò cambierà in meglio qualcosa nella pubblica amministrazione?

Solo chi possa davvero pensare che i problemi della PA siano legati alla fantomatica “paura della firma” può davvero ritenere utile l’abolizione di questo reato.

Se la “paura della firma” davvero esista, a scatenarla sono ulteriori e ben altri spauracchi: la responsabilità erariale e i molti altri reati contro la pubblica amministrazione, che, eliminato l’abuso d’ufficio, saranno presi in considerazione in maniera più ampia e pervasiva dai PM.

A ben vedere l’abolizione del reato di abuso d’ufficio risulta di nessun interesse per chi di firmare qualsiasi cosa, anche appunto comportante il compimento di reati, non ha mai avuto nessuna paura, anche sapendo che in tal modo spesso si traccia la strada per la carriera.

Chi, invece, sia condizionato dalla “paura della firma”, come detto prima, di ragioni per non ritenersi comunque tranquillizzato ne continua ad avere moltissime.

Il giovamento vero, dunque, è soprattutto per chi fa da “spingitore” delle firme altrui, potendo contare di far passare i timorati della firma alla condizione di aver paura non di firmare, bensì di non firmare, pena carriera stroncata e altre conseguenze.

Seguiamo il filo rosso, immaginando un funzionario di uno tra le migliaia di comuni italiani, chiamato a dirigere una struttura amministrativa dell’ente.

Si deve sapere che le riforme degli anni ’90 hanno sapientemente introdotto uno spoil system talvolta conclamato e aperto, come quello per i segretari comunali, talaltra sotto traccia. E’, appunti, il caso dei funzionari chiamati alla direzione di strutture locali, oggi destinatari di incarichi di Elevata Qualificazione, un tempo di Posizione Organizzativa.

Tali incarichi sono attribuiti a tempo determinato e, quindi, gratificanti (fino a un certo punto: la retribuzione connessa non è certo principesca), ma precari.

Adesso guardiamo ad alcune competenze che la normativa accolla a questi funzionari: per esempio, assumere, attribuire incarichi di consulenza, assegnare appalti.

Il codice dei contratti pubblici, recentemente riformato dal d.lgs 36/2023, ha introdotto – molto inopportunamente data la genericità della scrittura della norma – il principio del “risultato”: più che alla forma, sembrerebbe, occorre badare alla sostanza. E lo stesso codice regola anche il principio della “fiducia” nell’efficienza e probità dei funzionari. Tale è la fiducia che la norma riconosce ai funzionari, che in pratica obbliga le amministrazioni a stipulare polizze assicurative dei rischi del personale…

Chiudiamo la stesura del filo rosso evidenziando quel che quotidianamente avviene nelle amministrazioni locali di ogni parte d’Italia: il “risultato” è da molti amministratori inteso come attribuire l’incarico a quella specifica persona, far vincere il concorso a quel preciso candidato, assegnare il contributo a quella identificata associazione, dare l’appalto a quel particolare imprenditore, uno perché amico o amico di amici, l’altro perché parente del segretario provinciale del partito, l’altro ancora perché è amministratore delegato di quell’influente azienda pubblica partecipata, l’altro perché indicato dal partito di maggioranza.

Da sempre nelle amministrazioni si incontra l’estrema difficoltà ad applicare le regole costituzionali del buon andamento e dell’imparzialità resistendo alle pressioni, per lasciar capire che l’interesse pubblico non coincide con quello privato a trasformare in privilegi decisioni che debbono perseguire l’interesse di tutti, indirizzandole, quindi, non agli “amici” ma a chi risulti meritevole in applicazione di regole tecniche ed oggettive, anche discrezionali.

Ma, se il tuo incarico è precario; se chi te lo ha assegnato ritiene che il “risultato” al quale devi giungere è quell’appalto per quel preciso imprenditore; se ti hanno allo scopo coperto con un’assicurazione contro i rischi; se ti sottolineano che la “firma” sull’incarico non costituisce reato di abuso di ufficio; se ti evidenziano che la tua perplessità ad adottare un atto che comunque appaia non tecnicamente corretto e tale da ledere la posizione di terzi oltre che l’interesse pubblico si sostanzi, visto che non è nemmeno reato, in un boicottaggio, una inefficienza, una paurosità e ti sventolino la revoca dell’incarico o azioni disciplinari o altri metodi simili. Se tutto questo avviene, come affermato, dalla “paura della firma”, che può avere solo chi sia cosciente che la firma si apponga ad un atto non proprio legittimo e corretto, si trasformerà nella paura di non firmare, per non incorrere in conseguenze su carriera e stipendio.

Il tutto, grazie all’eliminazione dell’abuso d’ufficio. Per altro, un reato che su circa 5.000 azioni penali attivate porta a poche centinaia di condanne e a moltissime archiviazioni.

Strano che questo dato statistico sia utilizzato da molti per dimostrare l’opportunità dell’abolizione del reato. Sono quelli stessi, o gran parte di essi, che invocano la riforma della magistratura e la separazione delle carriere, per evitare che il magistrato giudicante sia condizionato dal PM e si appiattisca sull’azione di questo, anche per assecondare la celebrità mediatica. Ma, proprio le statistiche sul reato di abuso di ufficio dimostrano che Gip, Gup e giudici siano ben capaci di autonomia di giudizio e indipendenza e alterità rispetto ai PM, insomma che non esiste, fortunatamente, alcuna tirannia del PM e che l’attivazione di un’indagine non comporta alcuna automatica condanna.

Il tutto non porta che verso una sola direzione: il reato è stato abolito per rendere più facile la vita a chi del reato stesso, quando era previsto, se ne interessava, e renderla più difficile a chi cerca di perseguire interesse pubblico, imparzialità ed efficienza, a prescindere delle sanzioni penali, che generalmente scattano proprio quando si adottino decisioni in spregio dell’interesse pubblico, dell’imparzialità e dell’efficienza.

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