La vicenda del Ministro della cultura e della consulente fantasma non dovrebbe risultare utile ad insegnare quali siano le molte, troppe, storture della normativa sugli incarichi di lavoro autonomo nella PA, ma utile per confermare quanto esiziali siano le norme prodotte dal 1993, anno della “riforma Cassese”, passando dal biennio 1997-1998, epoca delle esiziali riforme Bassanini, per poi procedere con le riforme di altri inquilini di Palazzo Vidoni, tutte indirizzate a fare della PA un mercato di piazza di incaricati, consulenti, consiglieri, segretari particolari: Frattini, Nicolais, Brunetta, Madia, senza soluzioni di continuità, senza mai rimedio alcuno ad un sistema che fa acqua da tutte le parti.
Di vicende identiche, o molto simili, a quella attualmente
agli onori della cronaca, ve ne sono migliaia, reperibili negli enti locali,
nelle regioni, nelle società partecipate soggette comunque a regole
pubblicistiche della disciplina dei rapporti di lavoro autonomo.
Qualsiasi componente di organo di governo di qualsiasi
livello, appena insediato immediatamente ritiene che sia consustanziale al proprio
“potere” nominare, incaricare, qualcuno: passando da nomine ed incarichi
istituzionali, a incarichi i più disparati a frotte di consiglieri e
consulenti. Senza quasi mai alcuna selezione effettiva, sulla base dell’appartenenza
o spesso realmente di soli specifici individualissimi rapporti personali.
Quando negli anni ’90 si è attuato l’articolo 97 della
Costituzione e il principio ivi indirettamente posto della distinzione tra le
funzioni politiche e di governo, da quelle gestionali, qualcuno ebbe modo di
pensare che dal “governo degli atti”, si dovesse passare al “governo degli
uomini”: il ministro, il sindaco, il presidente di regione, che non può più
adottare direttamente l’atto amministrativo o la decisione concreta, diviene
assegnatario del potere di nominare e incaricare, almeno parte delle compagini
di vertice.
Non solo si istituì il deleterio spoil system all’italiana,
col quale rilevanti parti dei vertici dirigenziali si selezionano senza
concorso ma per l’esiziale “personale adesione” alle politiche della
maggioranza; in più si sono allargate all’infinito le maglie di nomine ed incarichi
in uffici di gabinetto, di progetto e per consiglieri di ogni genere: da quello
giuridico a quello economico, a quello tecnico, a quello per l’immagine, a
quello per i rapporti con i social (gli uffici stampa erano da anni caratterizzati
da questo “mercato nel tempio”), all’utilizzatissimo consulente per l’organizzazione
“di eventi”.
Dovrebbe risultare chiaro da anni e da sempre che i casi,
quando emergono, sono solo la piccolissima punta di un icerberg, che nella
parte sommersa è di enormi dimensioni.
Incarichi assegnati senza selezione, senza verificare titoli
e competenze, senza nessun genere di riferimento per definire gli importi dei
compensi. Senza nessuna trasparenza sul perché, sul come e sul quando. Le regole
anticorruzione fanno acqua da tutte le parti.
Si è pensato che la “fiducia”, parola e concetto presente
nella Costituzione solo per la disciplina dei rapporti tra Parlamento e
Governo, fosse la formula magica per garantire che la nomina, l’incarico, la
consulenza, il counselling, fossero utili, necessari, opportuni, congrui. Ma,
purtroppo, proprio il caso attualmente agli onori della cronaca dimostra l’opposto:
una persona incaricata in maniera opaca, forse per nulla incaricata, violando
qualsiasi regola di “fiducia”, pubblica atti e documenti, azione che sarebbe
del tutto inibita a un dipendente pubblico o ad un consulente “vero”, abilitato
a trattare dossier e questioni solo dopo e non prima della formalizzazione di
un incarico, chiaro nella spesa, nei modi e nei limiti e, soprattutto, soggetto
alle regole del dPR 62/2013, il “codice di comportamento” dei dipendenti
pubblici, che però va applicato anche a qualsiasi soggetto che riceva appalti,
commesse e consulenze dalla PA.
Paradossalmente, il consulente incaricato non si sa come,
non si sa con quale atto, non si sa con quale spesa o proprio per nulla incaricato,
ma presente negli uffici e messo nelle condizioni di acquisire documenti e
registrare immagini e audio, proprio per il fatto di non aver sottoscritto
alcun contratto, di non aver sottoscritto nessun impegno anticorruzione e anti
conflitto di interessi, sfugge a qualsiasi possibile reazione di autorità competenti,
come l’Anac, per quanto debole e sfocata possa essere tale “reazione”.
Dovrebbe risultare da simili macerie che questo sistema
ormai ultra trentennale, va chiuso. Basta con lo spoil system sconsiderato; basta
con la “fiducia”; basta con consiglieri e consulenti incaricati senza alcuna
selezione plausibile; basta con la creazione di apparati burocratici
amministrativi e paralleli, composti da soggetti che proprio per la loro “personale
adesione”, si guardano bene dal contraddire, dal suggerire strade più corrette.
Il travisamento del principio del “risultato”, tragicamente enunciato nel
codice degli appalti, fa ormai apparire che tutto è lecito per raggiungere un
fine, anche l’inutile, anche l’abborracciato, anche il costoso, anche l’inopportuno.
La parola “basta” a tutto ciò, però, da anni e da sempre non
è stata pronunciata, né lo sarà mai: cambiano le maggioranze, ma gli appetiti
dei componenti restano sempre uguali: nominare, incaricare il consulente, il
consigliere, l’esperto, il tecnico, il manager, in una spirale deleteria, senza
fine.
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