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domenica 28 maggio 2017

Dirigenti dei musei: l’interpretazione autentica proposta dal Parlamento dimostra la correttezza dell’operato del Tar Lazio


Il Parlamento cerca di porre rimedio al pasticcio delle nomine dei direttori dei musei, con un emendamento approvato in commissione bilancio all’articolo 22 del disegno di legge di conversione del d.l. 50/2017 (del tutto estraneo alla materia, perché è la manovrina di bilancio), di cosiddetta “interpretazione autentica”.
            Ecco il testo:
L’articolo 14, comma 2-bis, del decreto-legge 31 maggio 2014, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 31 luglio 2016, n. 106, e successive modificazioni, si interpreta nel senso che alla procedura di selezione pubblica internazionale non si applicano i limiti di accesso di cui all’articolo 38 del decreto legislativo 31 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni”.
Cos’è interpretazione autentica? L’interpretazione, cioè l’individuazione del corretto significato delle norme e la comprensione dei loro effetti, è affidata in termini generali ai giudici, che la compiono attraverso le sentenze, allo scopo di regolare i rapporti tra le parti in causa; le interpretazioni giurisprudenziali spesso finiscono per essere la chiave di lettura diffusa e generale per comprendere in modo condiviso la volontà del legislatore.
Talvolta, l’operazione interpretativa è compiuta direttamente dal legislatore, che emana norme al preciso scopo di chiarire il significato di norme preesistenti, una volta constatati contrasti interpretativi molto forti anche in giurisprudenza, che consiglino un intervento chiarificatore proveniente direttamente dal legislatore stesso.
L’interpretazione autentica, quindi, è estremamente importante perché ha efficacia erga omnes, vale cioè come indicazione generale ed astratta per tutti e, dunque, dirime in modo ultimativo le questioni interpretative, indicando qual, è l’interpretazione “vera”, unica da seguire.
E’ un potere proprio del legislatore, che ha assoluta libertà ed autonomia di imporre la lettura dal legislatore stesso considerata corretta di una norma di incerta applicazione.
Andando, dunque, al caso concreto della selezione per i direttori dei musei, laddove il Parlamento approvasse una norma di interpretazione autentica, lo farebbe certamente esercitando un potere che gli è proprio.
Tuttavia, sempre nel caso di specie, ci sono molti aspetti, alcuni tecnico-giuridici, altri di opportunità, che proprio non vanno. Proviamo ad evidenziarli.
Sul piano tecnico, l’emendamento contiene un errore, comunque facilmente correggibile; la legge di conversione del d.l. 83/2014 non è la 106 del 2016, ma la 106/2014.
Sempre sul piano tecnico, si pone un problema molto più grave: verificare se, davvero, la norma sia solo di interpretazione autentica o no. Nel primo caso, oltre ad avere efficacia erga omnes, avrebbe efficacia anche retroattiva, con la possibilità quindi di azzerare gli effetti della sentenza del Tar Lazio che ha annullato 5 delle 20 nomine di direttori dei musei. Se non si trattasse, però, di vera e propria norma di interpretazione autentica, i problemi risulterebbero ancora irrisolti.
Ora, perché una norma sia di “interpretazione”, non deve aggiungere nulla alla norma interpretata, ma solo indicarne la chiave di lettura.
Non pare che l’emendamento faccia questo. L’intento è certamente quello di derogare all’articolo 38, comma 1, del d.lgs 165/2001, consentendo l’apertura espressa della selezione a cittadini non italiani, indicando che tale deroga è da leggere implicitamente nel contenuto dell’articolo 14, comma 2-bis, del decreto Franceschini.
Allora, occorre leggere nella seguente tabella l’articolo 14, comma 2-bis, affiancato alla proposta di legge di interpretazione autentica:
Art. 14, comma 2
Proposta di interpretazione autentica
Al fine di adeguare l’Italia agli standard internazionali in materia di musei e di migliorare la promozione dello sviluppo della cultura, anche sotto il profilo dell’innovazione tecnologica e digitale, con il regolamento di cui al comma 3 sono individuati, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e nel rispetto delle dotazioni organiche definite in attuazione del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, i poli museali e gli istituti della cultura statali di rilevante interesse nazionale che costituiscono uffici di livello dirigenziale. I relativi incarichi possono essere conferiti, con procedure di selezione pubblica, per una durata da tre a cinque anni, a persone di particolare e comprovata qualificazione professionale in materia di tutela e valorizzazione dei beni culturali e in possesso di una documentata esperienza di elevato livello nella gestione di istituti e luoghi della cultura, anche in deroga ai contingenti di cui all’articolo 19, comma 6, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, e comunque nei limiti delle dotazioni finanziarie destinate a legislazione vigente al personale dirigenziale del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo.
L’articolo 14, comma 2-bis, del decreto-legge 31 maggio 2014, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 31 luglio 2016, n. 106, e successive modificazioni, si interpreta nel senso che alla procedura di selezione pubblica internazionale non si applicano i limiti di accesso di cui all’articolo 38 del decreto legislativo 31 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni.

Chiunque si può facilmente accorgere che l’articolo 14, comma 2-bis, non parla nella maniera più assoluta di “procedura di selezione pubblica internazionale”. E’ la proposta di interpretazione autentica che introduce questa locuzione nell’articolo del decreto Franceschini.
Dunque, sul piano tecnico-giuridico, se il testo rimane così, non è affatto una norma di interpretazione autentica, ma di modifica dell’articolo 14, comma 2-bis. Ma, poiché la legge non può avere effetti retroattivi, allora questa modifica potrebbe valere solo per il futuro e, dunque, rimanere totalmente ininfluente sulla sentenza del Tar Lazio. Una lettura di simile norma quale interpretazione autentica la espone a rilievi di illegittimità incostituzionale, che è sperabile vengano risparmiati.
Ma, ammettiamo anche che si tratti davvero di una vera e propria norma di interpretazione autentica, capace, quindi, di rendere inutili ricorsi al Consiglio di stato contro la sentenza del Tar Lazio e, quindi, di “salvare” gli incarichi annullati.
Sempre sul piano tecnico-giuridico, occorre avvertire che, in realtà, l’interpretazione autentica non salverebbe nulla comunque. Infatti, il Tar Lazio ha evidenziato tre distinti vizi di legittimità delle nomine:
1)      uno, quello connesso al possesso o meno della cittadinanza italiana;
2)      quello riferito ai colloqui svolti a porte chiuse, in spregio a qualsiasi norma sui procedimenti selettivi e concorsuali pubblici;
3)      quello riferito all’illogicità del bizantino sistema di assegnazione dei punteggi ai candidati.
Anche se si risolvesse la questione connessa alla cittadinanza, rimarrebbero in piedi le altre due, per altro sicuramente proprio quelle riferite ai vizi di legittimità maggiormente gravi.
In ogni caso, sul piano dell’opportunità si è portati a queste considerazioni. In primo luogo, appare del tutto evidente che l’emendamento approvato dalla Commissione bilancio della Camera è l’ammissione che sul punto relativo all’illegittimità della procedura selettiva relativo alla cittadinanza italiana, il Tar ha correttamente operato.
Se, infatti, si fosse del tutto sicuri di un’erronea interpretazione del Tar Lazio, basterebbe attendere con tetragona fiducia la sospensiva e poi la riforma della sentenza da parte del Consiglio di stato. E’ chiaro che questa fiducia non c’è e, comunque, non è affatto tetragona.
Il legislatore ha stabilito, come nei suoi poteri (anche se, per l’ennesima volta, male esercitati per quanto visto sopra), di intervenire esattamente allo scopo segnalato dal Tar Lazio, quando nella sentenza 6171 scrive: “la deroga legislativa in questione non estende la sua potenzialità di previsione speciale costituente eccezione alla regola generale fino a raggiungere e derogare anche la previsione dell’art. 38 del d.lgs. 165/2001, in particolare nella parte in cui al comma 1 (modificato da ultimo dall'art. 7, comma 1, lett. a), l. 6 agosto 2013, n. 97), estendendo ai cittadini comunitari e, in alcuni casi, non comunitari (e, più precisamente, “…ai cittadini di Paesi terzi che siano titolari del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo o che siano titolari dello status di rifugiato ovvero dello status di protezione sussidiaria …”, per come specifica il comma 3-bis dello stesso articolo, aggiunto dall’art. 7, comma 1, lett. b, della l. 97/2013 e poi modificato dall'art. 3, comma 1, d.lgs. 13 febbraio 2014, n. 12), l’accesso ai ruoli di impiego nelle Pubbliche amministrazioni, stabilisce che “I cittadini degli Stati membri dell'Unione europea e i loro familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che siano titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente possono accedere ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche che non implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela dell'interesse nazionale”, se non altro perché l’art. 38 del d.lgs. 165/2001 non è citato nel corpo dell’art. 14, comma 2-bis, del d.l. 83/2014, convertito in l. 106/2014”; e prosegue con ancor maggiore chiarezza: “In argomento si è già detto al punto 5 della presente decisione, rammentando come le disposizioni speciali introdotte dall’art. 14, comma 2-bis, del d.l. 84/2014, convertito in l. 106/2014, non si sono spinte fino a modificare o derogare l’art. 38 d.lgs. 165/2001. Infatti, solo tale operazione avrebbe potuto consentire, in disparte ogni valutazione di compatibilità costituzionale, l’ammissibilità di cittadini non italiani di partecipare alle selezioni per l’assegnazione di un incarico di funzioni dirigenziali in una struttura amministrativa nel nostro Paese (posto che l’incarico in questione è caratterizzato - per quanto si è più sopra approfondito e verificato con riferimento al contenuto della lex specialis di concorso – proprio dall’esercizio di tali funzioni dirigenziali, peraltro puntualmente ed inequivocabilmente esemplificate nell’art. 1, comma 2, del bando).
Deve quindi affermarsi che il bando della selezione qui oggetto di contenzioso non poteva ammettere la partecipazione al concorso di cittadini non italiani in quanto nessuna norma derogatoria consentiva al MIBACT di reclutare dirigenti pubblici al di fuori delle indicazioni, tassative, espresse dall’art. 38 d.lgs. 165/2001.
D’altra parte, il chiaro tenore letterale della stessa disposizione speciale di cui all’art. 14, comma 2-bis, qui più volte citata, come appare evidente dal semplice confronto tra il primo ed il secondo periodo, non consente diverse interpretazioni.
Il carattere “internazionale” è previsto dal primo periodo solo in relazione agli “standard” che devono essere perseguiti dal MIBACT in materia di musei (nell’esercizio della relativa potestà regolamentare a tal fine espressamente attribuitagli dalla norma stessa), ma non anche in relazione alle “procedure di selezione pubblica”, previste dal secondo periodo per il conferimento degli incarichi di direzione dei poli museali e degli istituti di cultura statali di rilevante interesse nazionale.
Il perseguimento di tali obiettivi deve dunque essere realizzato con procedure di selezione pubblica che non sono “internazionali”. Se infatti il legislatore avesse voluto estendere la platea degli aspiranti alla posizione dirigenziale in esame ricomprendendo anche cittadini non italiani lo avrebbe detto chiaramente, per come è dimostrato dal chiaro tenore di cui al primo periodo della citata previsione”.
Insomma, il Tar si limita ad osservare che era compito del legislatore disporre una deroga chiara all’articolo 38, comma 1, del d.lgs 165/2001 (che non consente di attribuire a stranieri incarichi comportanti l’esercizio di poteri pubblici, quali sono tutti gli incarichi dirigenziali gestionali, nei quali rientrano le direzioni dei musei). Se il legislatore vi provvede, con una norma di interpretazione autentica (per quanto mal concepita) non fa altro che sottolineare la fondatezza e correttezza dell’operato del Tar.
Il che induce ad esprimere ragionati dubbi sull’opportunità degli attacchi alla stessa istituzione Tar: sfugge quale senso abbia affermare che sia necessario “cambiare i Tar” se, poi, il Parlamento produce una norma che va esattamente nella direzione indicata dalla sentenza del Tar…
Qualcuno afferma, però, che il Tar Lazio è stato “cavilloso”, perché i principi del Trattato fondativo dell’Unione Europea, che impongono la libera circolazione dei lavoratori, potevano, col buon senso, considerarsi disapplicativi dell’articolo 38, comma 1, del d.lgs 165/2001; in questo senso, qualcuno sostiene che addirittura l’Italia è obbligata ad estendere sempre e comunque i concorsi e le selezioni, anche per dirigenti, a cittadini Ue.
Le cose non stanno così. Non è corretto, in primo luogo, ritenere che sull’Italia, così come su ogni altro Stato membro della Ue, incomba l’obbligo di aprire le procedure selettive di soggetti chiamati ad esercitare pubblici poteri anche a non cittadini interni. Lo conferma la lettura piana e chiara dell’articolo 45 del Trattato:
1. La libera circolazione dei lavoratori all'interno dell'Unione è assicurata.
2. Essa implica l'abolizione di qualsiasi discriminazione, fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori degli Stati membri, per quanto riguarda l'impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro.
3. Fatte salve le limitazioni giustificate da motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica, essa importa il diritto:
a) di rispondere a offerte di lavoro effettive;
b) di spostarsi liberamente a tal fine nel territorio degli Stati membri;
c) di prendere dimora in uno degli Stati membri al fine di svolgervi un'attività di lavoro, conformemente alle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative che disciplinano l'occupazione dei lavoratori nazionali;
d) di rimanere, a condizioni che costituiranno l'oggetto di regolamenti stabiliti dalla Commissione, sul territorio di uno Stato membro, dopo aver occupato un impiego.
4. Le disposizioni del presente articolo non sono applicabili agli impieghi nella pubblica amministrazione.
Come si nota, il comma 4 dell’articolo in questione esclude in modo chiarissimo l’applicazione dei principi di libera circolazione dei lavoratori proprio agli impieghi nella pubblica amministrazione.
Dunque, la conclusione è una sola: gli Stati membri non hanno nessun obbligo di aprire le procedure concorsuali riguardanti posizioni che comportino l’esercizio di poteri pubblici a cittadini non residenti.
Se questo non risultasse chiaro, ce lo spiega la Corte di giustizia della Ue, Sezione seconda, sentenza 10 settembre 2014, nella causa C‑270/13: “la Corte ha già dichiarato che la nozione di «pubblica amministrazione» ai sensi dell’articolo 45, paragrafo 4, TFUE riguarda i posti che implicano la partecipazione, diretta o indiretta, all’esercizio dei pubblici poteri e alle mansioni che hanno ad oggetto la tutela degli interessi generali dello Stato o delle altre collettività pubbliche e presuppongono pertanto, da parte dei loro titolari, l’esistenza di un rapporto particolare di solidarietà nei confronti dello Stato nonché la reciprocità dei diritti e doveri che costituiscono il fondamento del vincolo di cittadinanza (v., in particolare, sentenze Commissione/Grecia, C‑290/94, EU:C:1996:265, punto 2, e Colegio de Oficiales de la Marina Mercante Española, EU:C:2003:515, punto 39)”.
L’articolo 38, comma 1, del d.lgs 165/2001, dispone: “I cittadini degli Stati membri dell'Unione europea e i loro familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che siano titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente possono accedere ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche che non implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela dell'interesse nazionale”. Come si nota, detto articolo è totalmente rispettoso del Trattato come interpretato dalla Corte di giustizia. Ergo, non esiste alcun obbligo di aprire procedure come quelle per la selezione dei direttori dei musei a cittadini stranieri e, come affermato dal Tar Lazio e, come confermato dalla proposta di interpretazione autentica, spettava al legislatore disporre, come nei propri poteri, una deroga chiara ed espressa all’articolo 38, comma 1, citato.
Tale deroga, a suo tempo, non è stata disposta in modo così chiaro, nonostante i tranquillizzanti pareri resi, a suo tempo al Ministro Franceschini dai capi dell’ufficio legislativo, come ha rivelato sul Corriere della sera del 27 maggio, Sergio Rizzo. Un articolo, quello, teso ad evidenziare che “i giudici sono gli stessi”, cioè magistrati amministrativi giudicanti e magistrati amministrativi chiamati a svolgere la funzione di capi degli uffici legislativi ministeriali, ma “i giudizi diversi”, in una chiave di lettura davvero contorta: i giudici giudicanti agiscono come potere totalmente separato da quello legislativo, dovendo obbedire solo alla legge; i magistrati incaricati di incarichi dirigenziali (per altro, fiduciari) nei ministeri, si mettono in aspettativa e non esercitano funzioni giudicanti. In ogni caso, resta da capire se Rizzo riterrà opportuno un suo intervento nel quale sottolineare che “il Parlamento e il Governo sono gli stessi”, ma le leggi che approvano “sono diverse”, visto che per arrivare ad abbozzare (in malo modo) una deroga espressa all’articolo 38, comma 1, del d.lgs 165/2001, c’è voluta la sentenza del Tar Lazio. Forse, era meglio pensarci prima. Forse, la causa di questo bailamme, allora, non è affatto il Tar, ma la fretta e anche, si consenta, l’eccessiva fiducia in se stessi, di chi scrive norme che si rivelano, poi, di interpretazione molto complicata.



2 commenti:

  1. La sua analisi conferma che il vero, grande male della pubblica amministrazione italiana oggi é rappresentato dalla superficialità (spesso consapevole, in quanto prona ad interessi politici e/o politico-economici) e dall'incompetenza con cui molti mezzi di informazione diffondono informazioni distorte, alimentando nell'opinione pubblica una percezione sbagliata dell'agire amministrativo. Grazie per il suo costante contributo affinché la verità non vada dispersa nell'oceano della disinformazione.

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  2. La faccenda è stata finora presentata come una contesa tra TAR e Ministero, dimenticando che ci sono situazioni di privati ricorrenti che sono coinvolte. Credo che l'interpretazione autentica in corso di causa violi almeno due principi costituzionali: "Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi" (art 24) e ""I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione" (art 97). Se un cittadino vede lesa dal Governo la sua situazione giuridica soggettiva, e ricorre a un tribunale per tutelarla, il Governo che abusa della sua posizione di vantaggio per modificare la legge in suo favore viola certamente il diritto di difesa. L'obbligo di imparzialità in capo alla PA implica anche che essa non può intervenire nella contesa tra direttori dei musei nominati, soggetti esclusi, e Ministro responsabile. Siamo di fronte a una grande invasione di campo della politica nell'autonomia del sistema giudiziario, ed è una cosa gravissima. Troppe volte è già avvenuto che venissero emanate misure ad hoc per favorire questo o quell'organismo dello Stato (per esempio il CSM), ma ormai siamo alla totale esautorazione. A che serve un giudice della correttezza dell'Amministrazione, se poi l'Amministrazione può bypassarlo?

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