La sepoltura di Cristo dipinta dal Merisi tra il 1602 e il 1604 (come
pala d’altare della Chiesa Nuova a Roma, ove oggi è collocata una
copia; l’originale è ai Musei Vaticani) è considerata
unanimemente uno dei capolavori del grande pittore.
Si tratta di un soggetto molte volte dipinto dai più grandi artisti,
tra cui anche Raffaello Sanzio, la cui opera (datata nel 1507) è
esposta nella Galleria Borghese.
Il confronto tra i due capolavori è utile per capire il passaggio
stilistico formidabile dal rinascimento al barocco.
Nonostante l’opera di Caravaggio sia considerata tra quelle di
maggiore compostezza1
e rispondenza ai canoni della “maniera”, la differenza con lo
stile rinascimentale di Raffaello è di palpabile evidenza.
Guardiamo la luce e, di conseguenza, i colori. Il quadro di Raffaello
ha colori brillantissimi, lucenti ed è immerso in una luce diffusa
che illumina con eguale effetto tutte le figure, come anche il
panorama naturalistico sullo sfondo.
La deposizione del Merisi, invece, non può che rispondere allo stile
pittorico dell’autore. Non c’è alcuno sfondo paesaggistico: le
figure emergono da un fondo scuro, come sempre illuminate da una luce
radente, tale da mettere in evidenza la loro tridimensionalità
monumentale, luce prodotta artificialmente nello studio del pittore,
che dipinge aderendo quanto più possibile alla realtà visiva dei
modelli in posa davanti a lui.
Raffaello, invece, compone la sua opera a partire da complessi
disegni preparatori: l’opera è frutto della sua formidabile
capacità di tratteggiare le figure. Raffaello non ha necessariamente
bisogno di modelli veri da rappresentare dal vero davanti a sé. E’
il disegno il motore da cui muove. Il Merisi, invece, non faceva
disegni preparatori: dipingeva direttamente sulla tela, sulla base di
pochi tratti ivi impressi.
Guardiamo le figure. Nonostante la drammaticità estrema della
raffigurazione, Raffaello le disegna in un monumentalità plastica,
elegante. I tre uomini che sorreggono il corpo esanime del Cristo
compiono uno sforzo fisico notevole, accentuato anche dalla posizione
asimmetrica del gruppo, nel quale i due a sinistra si trovano più in
alto su alcuni scalini, costringendo il giovane al centro ad inarcare
la schiena nello sforzo.
Eppure, i gesti sono composti, di grande forza, ma decontratti. Le
vesti colorate e quasi ricche. Gli arti non sembrano investiti dallo
sforzo fisico e muscolare pure affrontato.
Il gruppo delle pie donne a destra, poi, è quanto di più classico e
rinascimentale possa immaginarsi. Il pianto della Vergine è mite,
compostissimo, come anche i gesti delle donne che la consolano. La
donna inginocchiata con le braccia rivolte verso la Vergine ricorda
moltissimo la movenza della Vergine del Tondo Doni agli Uffizi.
Nessuno tra i personaggi appare oggettivamente riconoscibile, anche
se secondo alcuni proprio il giovane con la schiena inarcata che
congiunge i due gruppi di personaggi a sinistra e a destra possa
essere il ritratto di Grifonetto Baglioni, figlio della committente
Atalanta Baglioni, morto pochi anni prima, in omaggio all’usanza
che le figure più tratteggiate o che guardano verso l’osservatore
sono i committenti o parenti dei committenti, oppure i pittori stessi
autoritratti.
L’analisi delle figure del Caravaggio rivela, invece, i canoni del
tutto diversi dell’incipiente barocco: l’attenzione alla verità
e all’enfasi dei movimenti e dei corpi.
I protagonisti dell’opera del Merisi sono tutti, come in tutte le
sue opere, persone vere. Una la conosciamo: è Fillide Melandroni,
ritratta nella parte di Maria di Cleofa, che alza le braccia in un
grido di dolore disperato, tale da coinvolgere lo spettatore.
E’ con tutta evidenza un ritratto anche quello dell’uomo che
regge il Cristo dalle ginocchia e che guarda verso lo spettatore,
segno piuttosto certo che si tratta di un personaggio centrale.
Escluso che si tratti del Caravaggio stesso e, dunque, di un
autoritratto, il personaggio, identificabile in Nicodemo, è
probabilmente il ritratto di Pietro Vittrice, in cui onore Girolamo
Vittrice (suo nipote) fece da committente al Caravaggio.
La differenza col giovane dalla schiena inarcata di Raffaello non può
essere più grande. Il giovane di Raffaello è composto, senza una
ruga, capelli al vento: se è un ritratto, è un ritratto
idealizzato.
Il Nicodemo del Merisi è vestito di una tunica poverissima,
rispondendo al gusto artistico specifico di Caravaggio di
rappresentare come protagonisti della vita vera gli umili, nei loro
veri vestiti, stracci spesso consunti e lisi. Il volto è segnato
dallo sforzo; gli arti inferiori dell’uomo, saldamente piantati per
terra per bilanciare il peso, mostrano muscoli tesissimi: si possono
percepire il sudore, la cautela estrema del gesto, il gravame del
corpo del Cristo.
La Madonna è una donna anziana, dolente: piange da sola e
silenziosamente, senza che nessuno la consoli. Anche il pianto della
Maddalena, china sul corpo di Cristo è solitario tristissimo.
Si guardi il corpo di Cristo: si tratta del fattore che più accomuna
le due opere, sia pure diversissime.
Sia Raffaello, sia Caravaggio sono evidentemente influenzati dalla
postura di Gesù tra le braccia della Vergine come rappresentato da
Michelangelo nella sua celeberrima Pietà (1497-1499): il braccio
destro che cade penzolante ed il corpo leggermente incurvato derivano
certamente dal capolavoro del Buonarroti.
Anche in questo caso, il Cristo di Raffaello è più “disegnato”,
più plastico. Il Cristo del Merisi è ancora più monumentale e
“michelangiolesco” (riferito al Buonarroti), con i muscoli in
grande evidenza ed il capo fortemente reclinato.
Altra differenza, il sepolcro. Raffaello ritrae il gruppo mentre
cerca di trasportare il corpo esanime nell’apertura del sepolcro,
nella roccia. Caravaggio costruisce la sua opera in modo da dare
l’impressione che il corpo di Cristo sia deposto verso il basso, al
di là della pietra il cui spigolo sporge letteralmente dal quadro,
per calarlo nell’altare della cappella sopra il quale la pala era
posta.
1Sul
punto, si rimanda a questo
scritto di Antonio Paolucci
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