Luigi Oliveri
La spending review o, in italiano, revisione
delle voci della spesa, sta forse per entrare nel vivo, come anche l’ennesima
revisione del d.lgs 165/2001, finalizzata ad armonizzarsi con la riforma del
mercato del lavoro.
Tuttavia, dalle prime indiscrezioni riguardanti
questi due argomenti fondamentali, perché dal lì passa necessariamente la
riduzione della spesa corrente e la riorganizzazione della pubblica
amministrazione, non pare emergano dati eccessivamente confortanti rispetto
alla capacità di conseguire risultati entro un lasso di tempo ragionevole.
Troppe aspettative sono state rimesse alla revisione
della spesa, anche perché impropriamente confusa con un’azione di tagli alla
spesa. La revisione della spesa, al contrario, è il presupposto per procedere,
poi, successivamente ai tagli. E’ il procedimento esattamente opposto a quello
di impronta ragionieristica del cosiddetti “tagli lineari”, che consistono in
riduzioni della spesa proporzionalmente uguale per tutte le voci di bilancio.
Quello dei tagli lineari è stato sin qui il modo di
procedere seguito non solo dalla politica economico-finanziaria dello Stato, ma
anche nei comuni e nelle province. Si stabilisce a priori quanto occorre
risparmiare, si determina la percentuale sul bilancio e si applica la medesima
percentuale del taglio ad ogni capitolo.
E’ un sistema altamente inefficiente. Lo dimostrano
poche osservazioni. La prima: nonostante i tagli lineari o proporzionali, la
spesa pubblica non si è affatto ridotta. La seconda: questo tipo di tagli non è
in grado di selezionare la spesa veramente utile da quella improduttiva. La
terza: è un tipo di intervento che penalizza enti e tipologie di spesa virtuosi
ed avvantaggia all’opposto enti e tipologie di spesa tendenti allo spreco.
Infatti, il virtuoso agisce già con standard di efficienza, che vengono minati
da ulteriori riduzioni di spesa non ben tarati. Lo “sprecone” resta comunque in
surplus.
Gli enti locali conoscono fin troppo bene le storture
di questo modo di operare, non tanto e non solo per effetto delle farraginose
regole del patto di stabilità per effetto delle quali si impongono saldi
contabili identici per tipologie di enti e bilanci molto diverse, ma,
soprattutto, in tema di gestione del personale. E’ perfettamente evidente che,
ad esempio, il tetto alla spesa per assunzioni pari al 40% del costo delle
cessazioni dell’anno precedente risulta premiante per gli enti sovradotati di
personale, mentre penalizza quelli già entro volumi di spesa e di quantità di
personale corretti e proporzionati alle esigenze amministrative.
Con la revisione della spesa si intederebbe
procedere esattamente all’opposto: lo scopo è analizzare le spese voce per voce
e determinare quali siano indispensabili per il corretto funzionamento dei
servizi e quali siano, invece, fonti di spreco o superiori ai fabbisogni.
In fondo, la spending review altro non è se
non il “fare politica”. Sul piano amministrativo, anche il semplice “bilancio a
base zero” potrebbe risultare uno strumento utile per il risparmio: esso impone
ogni anno di azzerare tutte le poste e di costruire il bilancio in base alle
esigenze specifiche di quella determinata annualità. Ma, la revisione della
spesa ha uno sguardo più lungo. Infatti, mira ad eliminare in modo stabile voci
di bilancio non considerate prioritarie o comunque necessarie allo svolgimento
dei compiti essenziali.
La revisione della spesa, per queste ragioni, è
difficile e lunga. Occorre, infatti, una stretta e ferma collaborazione tra le
varie istituzioni, che debbono rendersi disponibili appunto a rivedere le spese
consolidate, le abitudini, gli orticelli, i poteri, le clientele. Difficile per
il titolare di un dicastero o di un assessore considerare inutili spese, dietro
alle quali stanno contatti, richieste, insomma poteri: significa rinunciare a
parte del “potere” che si manovra.
Sarebbe, in effetti, un passaggio decisivo e
centrale, per riconfigurare la funzione di amministrazione come finalizzata al
bene pubblico e non all’interesse o alla posizione personale.
Le prime notizie, si ribadisce, lasciano comunque,
piuttosto perplessi. Il fatto è che la fretta di agire impone soluzioni non del
tutto coerenti con la revisione della spesa. Il Governo vorrebbe recuperare 5
miliardi entro l’estate, allo scopo di evitare l’ulteriore salasso all’economia
che scaturirebbe dall’aumento dell’Iva a settembre.
Le azioni della spending review sin qui
trapelate con la spending review stessa non hanno molto a che vedere. Il
ministro Giarda ha preso di mira le prefetture, sostenendo che sia il caso di
ridurle dalle 103 esistenti ad una ogni 350 mila abitanti. Il conto, di per sé
non torna, perché in Italia ci sono 60.500.000 abitanti e dunque le prefetture
salirebbero a 172.
La riduzione delle prefettura è certamente meno
traumatica e complessa della simmetrica riduzione ed accorpamento delle
province, perché le prime restano comunque uffici periferici
dell’amministrazione centrale, il Ministero dell’interno; le province, invece,
sono enti autonomi, con bilanci propri, istituzioni proprie, patrimonio e
contratti specifici.
E’ abbastanza chiaro, tuttavia, che la riduzione
delle prefetture dovrebbe seguire di pari passo l’accorpamento delle province.
Tuttavia, le strade legislative per procedere sono molto diverse. Si potrebbe
giungere più rapidamente alla concentrazione delle prefetture.
Tuttavia, la spending review da questo punto
di vista non pare altro che la semplice indicazione di un taglio da compiere,
perché non spiega la ratio dell’eventuale riduzione, quali ragioni la
consigliano.
Parallelamente, si intendono risparmiare risorse dai
30 milioni che il Viminale spende annualmente per affitti. Una goccia nel mare
dei 5 miliardi da reperire, mossa corretta che dovrebbe trovarsi catalogata,
però, sotto l’istituto delle razionalizzazioni e non della revisione della
spesa. E non si capisce perché limitarla al solo Ministero dell’interno.
Altra “ideona” proveniente direttamente dal Viminale
e dal suo attuale inquilino è la riduzione del 10% del personale civile. Anche
in questo caso, manca totalmente l’indicazione della ragione in base alla quale
tale10% risulti eccedente. E’, insomma, null’altro che un taglio lineare,
opportuno, ma non frutto di un ripensamento della spesa. Il complesso dei
dipendenti del Viminale, nel 2010 (Conto del personale) era di 20.154 unità,
per una spesa complessiva di euro 768.454.320. Il risparmio potrebbe portare a
circa 2000 dipendenti in meno se se ne portassero al prepensionamento il 10%
dell’intera dotazione organica, per un risparmio stimabile di euro 52.562.000
(costo medio del personale pari a 26.281, per il numero dei tagli).
Poicè, comunque, il Ministro dell’interno intende
porre in essere dei prepensionamenti, il risparmio vero e proprio risulterebbe
inferiore, ma soprattutto occorrerebbe una nuova e specifica legge che
introduca nella pubblica amministrazione l’istituto dello “scivolo”. Col
rischio di creare “esodati” anche nel lavoro pubblico.
Le altre indicazioni riguardano la riduzione dei
presidi militari e la riduzione delle sedi dei tribunali. Sono idee piuttosto
antiche, come quella della riduzione delle prefetture, che con la spending
review non hanno molto a che vedere, per quanto opportune.
Più funzionale alla missione del Ministro Giarda è
l’idea del risparmio del 15% sulle spese per beni e servizi, mediante il
rilancio della Consip come centrale unica di acquisto. A dire il vero, non
sarebbe nemmeno questa un’idea nuova, visto che già nel 2002 (quando la Consip
non funzionava per nulla a regime) ci si provò, senza molto successo. Tuttavia,
oggi le cose sono cambiate e la centralizzazione degli acquisti sembra
fondamentale. Non sempre i contratti stipulati dalla Consip sono più
vantaggiosi di quelli che si possono spuntare a livello decentrato, ma per le
amministrazioni statali il vantaggio sarebbe evidente.
Occorrerebbe velocemente imporre gli acquisti
centralizzati tramite Consip agli enti del servizio sanitario nazionale, per
provare a ridurre la fortissima spesa corrente di quel settore. Ma, la
necessità di agire in fretta, evidentemente, consiglia per ora di agire con la spending
review solo presso le amministrazioni centrali.
Per la verità gli enti locali la loro revisione
della spesa debbono già realizzarla, forse senza nemmeno rendersene troppo
conto, la stanno già realizzando. Tra patto di stabilità, tagli ai
trasferimenti (in gran parte, però, compensati da una maggiore imposizione
locale) e tetti di spesa al personale, comuni e province (per le quali la Bce
il 29 aprile scorso ha di nuovo chiesto un accorpamento), nonché obbligo di
compiere annualmente il piano di ricognizione delle eccedenze di personale, gli
enti locali debbono da tempo districarsi con i contenimenti delle spese.
Di fatto, tuttavia, non risulta un piano coordinato
per procedere in questo senso. Nelle amministrazioni locali più grandi
continuano a vedersi consulenze, collaborazioni, spese per “comunicazione” e
“immagine”, voci che andrebbero oggettivamente contratte in maniera decisa, per
non correre il rischio di tagliare in modo lineare le spese necessarie per i
servizi. Cosa che, invece, sta avvenendo. Per citare solo un esempio, il comune
di Roma ha annunciato che la partecipata che provvede al trasporto pubblico il
prossimo anno eliminerà le agevolazioni per gli studenti. Ma non è l’unico
esempio di ente locale costretto a tagliare le corse o aumentare i prezzi. Ciò
è frutto dei tagli statali ai finanziamenti per il trasporto. Ma non risulta
adottato alcun serio strumento per ridurre spese non fondamentali come
contributi ad associazioni e sagre, posto a mantenere il livello essenziale di
prestazioni come quelle connesse ai trasporti. Proprio perché, in effetti, la
revisione della spesa non c’è e non ha prodotto una vera lista di priorità.
Alla fine, si va per le solite abitudini, cioè tagli
forse meno lineari di quelli cui siamo stati abituati fin qui, ma non
sufficientemente selettivi.
Né ci si può aspettare passi in avanti particolari
dall’ennesima riforma del d.lgs 165/2001, preannunciata dalla Funzione Pubblica
ed analizzata nelle riunioni fin qui svolte a Palazzo Vidoni, per proporre
norme di adeguamento alla riforma del mercato del lavoro.
Da un lato, dalle riunioni fin qui è effettuate è
emerso che non saranno necessarie norme per equiparare lavoro pubblico e
privato in merito ai licenziamenti discriminatori, né per i giustificati motivi
oggettivi: si è compreso, forse, che l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori
è pienamente operante nel lavoro pubblico e che la procedura per i
licenziamenti economici-finanziari è regolata già dall’articolo 33 del d.lgs
165/2001.
Dall’altro, si pensa a rivedere pesantemente la
riforma-Brunetta, alla quale verrà probabilmente assestato il colpo definitivo,
dopo il blocco alla differenziazioni dei premi e le molte norme degli ultimi
tempi che in totale difformità dalle sentenze della Consulta rilanciano a piene
mani la possibilità di assumere dirigenti a tempo determinato.
Così, pare che si intenda modificare la disciplina
del licenziamento per giustificato motivo soggettivo, cioè determinato da
ragioni disciplinari, considerata troppo severa.
Inoltre, continuando un balletto infinito, altra
idea è tornare a configurare gli incarichi dirigenziali come atti di diritto
privato: lo scopo sarebbe il rafforzamento dell’autonomia dei dirigenti dalla
politica e rafforzarne le responsabilità. Un ritorno indietro a prima delle
riforme del 2005, verso una privatizzazione della dirigenza che non ha mai
garantito maggiore autonomia. Questa, infatti, viene minata proprio dalla
precarietà dell’incarico. Sembra che Palazzo Vidoni abbia in mente la conferma
automatica degli incarichi ala loro scadenza, insieme ad una stretta agli
incarichi esterni, che si vorrebbero limitare solo a pochi casi di spiccata
eccellenza e per funzioni particolari. Niente di diverso, in realtà, da quanto
già prevede l’articolo 19, comma 6, che il legislatore stesso ha derogato col
decreto fiscale consentendo alle agenzie delle entrate, delle dogane e del
territorio di tenersi per almeno altri 5 anni migliaia di funzionari incaricati
come “esterni” (sic), senza reclutare dirigenti per concorso, e agli enti
locali di porre in essere una mega-sanatoria per i dirigenti a contratto in
servizio.
Eppure, senza troppa analisi, un taglio da spending
review immediato e semplice sarebbe facile da apportare vietando da subito
incarichi dirigenziali esterni, con buona pace per quegli enti che ne abbiano
abusato in passato, i quali non dovrebbero essere premiati con sanatorie, ma
spinti a rivedere la propria organizzazione.
Proprio la riorganizzazione o i piani di
razionalizzazione per le amministrazioni dovrebbero essere occasione e
territorio di specifiche revisioni di spesa. I piani per la performance
introdotti dal d.lgs 150/2009 nelle amministrazioni statali (da molto prima
negli enti locali il d.lgs 267/2000 disciplina in modo in tutto analogo il
controllo di gestione) potrebbero essere uno degli strumenti fondamentali.
Palazzo Vidoni ha preannunciato di voler rivedere le norme del d.lgs 150/2009
per ottenere un maggior coinvolgimento dei sindacati, sia allo scopo di
definire i criteri delle valutazioni finali, sia nella realizzazione delle
scelte organizzative.
Insomma, mentre si predica la maggiore
responsabilità della dirigenza, si torna a ritenere possibile la cogestione
organizzativa tra amministrazioni (cioè, la politica) ed i sindacati, tanto da
immaginare di concertare con essi criteri di valutazione e addirittura modalità
organizzative, ciò che un’azienda privata mai nemmeno si sognerebbe.
Sembra proprio che di spending review si
voglia parlare molto, con l’utilizzo sempre più spinto dell’inglese; ma a
leggere meglio il tutto sembra una sicilianissima voglia di cambiare tutto
perché tutto resti uguale a prima. Se non peggiore.
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