domenica 6 maggio 2012

Torna la co-gestione sindacale nel pubblico impiego

La contro-riforma immaginata da Patroni Griffi e sindacati non è un semplice e in certa misura auspicabile correttivo al d.lgs 150/2009, ma un vero ritorno indietro ai tempi del potere di veto dei sindacati, con un rilancio della contrattazione in contrasto col pareggio di bilancio in Costituzione

 

L’ennesima riforma, anzi contro-contro riforma, del lavoro pubblico, come traspare dalla preintesa stilata tra Funzione Pubblica e sindacati nei giorni scorsi, sotto l’iniziativa del Ministro Patroni Griffi, rischia di rivelarsi la peggiore delle già molte dèbâcle alle quali l’organizzazione ed il lavoro pubblico sono troppe volte andati incontro.

La preintesa rivela non solo e non tanto una forse opportuna necessità di rivedere e correggere alcune spigolosità della riforma-Brunetta, il d.lgs 150/2009, ma anche una vera e propria voglia di rivincita dei sindacati e di quella parte di “apparato” mai del tutto d’accordo sulla circostanza che una dirigenza pubblica veramente capace di cambiare deve essere fortemente autonoma sia dalla politica, sia dal sindacato. Specie in un lavoro molto fortemente garantito, come quello alle dipendenze della pubblica amministrazione.

Non solo. Il messaggio che passa dalla preintesa è proprio quello a cui miravano i sindacati del pubblico impiego, ma che si rivelerà un disastro per l’immagine già compromessa della pubblica amministrazione e dei lavoratori pubblici: l’accentuarsi di un dualismo incostituzionale ed inaccettabile tra lavoro pubblico e lavoro privato. Il primo pervaso da garanzie, capillari poteri dei sindacati, negazione delle prerogative proprie del datore di lavoro; il secondo sempre più flessibile e soggetto alle regole del mercato. Il danno non solo operativo, ma anche e soprattutto di immagine dell’amministrazione, che la preintesa potenzialmente potrebbe determinare sarebbe devastante.

Non che tutta la preintesa abbia contenuti negativi. In molte parti, in effetti, altro non fa se non ripetere contenuti già presenti nella riforma-Brunetta (anche se, forse, l’intento è di sfumarne gli effetti). In altre, specie quella relativa all’erogazione dei premi da risultato, in effetti mira ad eliminare una delle più evidenti storture del d.lgs 150/2009.

Tuttavia, nonostante qualche elemento positivo che non può, ovviamente, essere sottaciuto, l’analisi complessiva desta una sensazione fortemente negativa.

Scorriamo i capitoli dei quali si compone la preintesa (che in alcune parti richiama quella del 2007 sotto l’egida di Nicolais, rimasta lettera morta).

Un nuovo modello di relazioni sindacali. Uno degli elementi di maggiore criticità ed ingessamento del lavoro pubblico è sempre stato rappresentato dalla col lateralità tra organi di governo, di qualsiasi colore, ed organizzazioni sindacali. In particolare nelle amministrazioni locali.

L’indubbia forza sociale e il potere di muovere il consenso dei sindacati ha sempre indotto gli organi di governo ad agire, nella gestione del lavoro pubblico, più allo scopo di perseguire l’obiettivo di una “pax” sindacale, che perseguire, invece, l’efficacia dell’organizzazione.

Non si deve dimenticare che fino a 20 anni fa i sindacati facevano parte delle commissioni di concorso, decidevano sulle piante organiche e sulle politiche delle assunzioni. Avevano, insomma, espanso le proprie prerogative ben oltre i limiti della corretta dialettica datore-sindacato.

Ci sono voluti 20 anni, dal d.lgs 29/1993 al d.lgs 150/2009 per rompere questo meccanismo, sia pure solo in parte e cercare di costruire un sistema di relazioni sindacali non basato sull’idem sentire, bensì su normali logiche contrattuali e di composizione di interessi contrapposti.

Lo scopo della riforma-Brunetta è stato sostanzialmente quello di rafforzare il potere del dirigente pubblico quale vero e proprio datore di lavoro, sottraendo alle relazioni sindacali tutta la gamma degli atti di immediata e diretta gestione del rapporto di lavoro (fissazione dei profili, delle mansioni, determinazione degli incarichi, organizzazione del lavoro) al livello della “micro-organizzazione” e restringere la contrattazione, come inevitabile, alla regolazione dei rapporti economici, limitando anche la concertazione.

Come è noto, il d.lgs 150/2009 allo scopo di eliminare poteri di veto sindacali e permettere alle amministrazioni di sbloccare gli empasse dei contratti decentrati, spessissimo incagliati da ostruzionismi di varia natura sindacali miranti a derogare se non violare i vincoli normativi e della contrattazione collettiva, ha anche introdotto la possibilità di atti unilaterali, temporaneamente sostitutivi del consenso.

Questa parte della riforma-Brunetta, insieme con quella concernente il sistema di valutazione, è sempre stata guardata dai sindacati col sangue agli occhi. In un primo tempo, le organizzazioni sindacali erano riusciti a trovare sponda nelle prime pronunce dei giudici del lavoro, condizionate da una cattiva lettura della riforma. Successivamente, i giudici del lavoro hanno meglio esaminato e compreso il d.lgs 150/2009, mentre il d.lgs 141/2011, ultimo colpo di coda del Ministro Brunetta, ha meglio precisato i contenuti della riforma, togliendo qualsiasi spazio per una disapplicazione giudiziaria della riforma.

Non restava che la strada di una contro-riforma per via legislativa. E la preintesa getta le premesse per smantellare la costruzione, se si vuole coercitiva, di un’amministrazione e di una dirigenza realmente in grado di giocare il ruolo del “datore”.

La prima mossa, appare quella di rilanciare relazioni sindacali pervasive, tali da essere non solo spunto per una valutazione ampia, anche su base critica, delle scelte datoriali, ma da intromettersi proprio in queste scelte.

La preintesa sul punto è fin troppo chiara: intende perseguire il “fine di favorire la partecipazione consapevole dei lavoratori ai processi di razionalizzazione, innovazione e riorganizzazione delle pubbliche amministrazioni. Questo percorso, prima della riapertura delle trattative per i rinnovi contrattuali, va attuato rimodulando il quadro legislativo per offrire alle parti, ad entrambi i livelli di contrattazione, strumenti e criteri per raggiungere questi obiettivi, coerenti con le autonomie costituzionalmente riconosciute”.

Un modo per parlare, senza menzionarla, appunto della vera e propria cogestione o, comunque, di una virata a 180 gradi sui poteri datoriali della dirigenza.

E, infatti, la preintesa individua i seguenti punti come guida per la contro-riforma:

- il riconoscimento della contrattazione collettiva e del CCNL come la fonte deputata alla determinazione dell’assetto retributivo e di valorizzazione dei lavoratori pubblici nel rispetto dei ruoli organizzativi e di rappresentanza delle parti, fermo restando quanto previsto all’art. 2 comma 3 del decreto legislativo 165 del 2001, relativamente alle prerogative contrattuali attinenti il rapporto di lavoro. Si tratta di un punto di particolare rilevanza, anche perché sostanzialmente velleitario.

L’intento è lampante: tornare indietro sull’idea, attuata dal d.lgs 150/2009, di riportare la legge al fonte principale della regolazione del rapporto di lavoro pubblico, vista l’inefficacia della contrattazione collettiva. Inefficacia conclamata dai fatti: se, nonostante la produttività del lavoro pubblico sia universalmente considerata ferma al palo, negli ultimi 10 anni le retribuzioni pubbliche hanno avuto un tasso di crescita (relativo) superiore a quello del privato, la causa è chiarissima, è stata proprio la contrattazione collettiva, nazionale e decentrata.

La velleitarietà dell’intento di riattribuire alla contrattazione il ruolo di fonte principale del rapporto di lavoro pubblico non sta, comunque, nella consapevolezza che il rilancio del potere di contrattazione riattiva il rapporto perverso tra politica e sindacati, quanto nella mancata considerazione degli effetti deflagranti della legge costituzionale 1/2012, che ha introdotto il principio del pareggio di bilancio in Costituzione. Tale norma ha consacrato un fattore comunque evidente e chiaro a tutti: il costo del lavoro è una parte preponderante della spesa corrente complessiva dello stato. Le politiche di finanza pubblica non possono non incidere, dunque, su quest’ordine di grandezza. Ma, le politiche di bilancio si fanno con norme di legge.

Risulta oggettivamente antistorico e, a questo punto, incostituzionale immaginare un’autonomia contrattuale della pubblica amministrazione, ma anche delle stesse parti sindacali, tale da potere regolare il rapporto di lavoro pubblico a prescindere dai vincoli pubblici, resi ancora più forti e stringenti, sia pure indirettamente, dalla riforma costituzionale.

- collegare ai processi di mobilità percorsi di qualificazione e formazione professionale, coinvolgendo le organizzazioni sindacali, per garantire la funzionalità e la qualità del lavoro nell’amministrazione di destinazione; Previsione sacrosanta. Che dovrebbe correggere una stortura inaccettabile, introdotta dalla legge 122/2010: l’obbligo di contenere la spesa per la formazione entro il 50% di quella del 2009.

Una norma sbagliatissima, che impedirebbe di investire nella formazione, fattore essenziale in un quadro nel quale appunto la mobilità anche intercompartimentale dei dipendenti pubblici sarà rilevantissimo effetto della riorganizzazione che dovrebbe portare alla soppressione o quanto meno alla forte riduzione per accorpamento di molti enti (province, prefetture, caserme dei vigili del fuoco, tribunali, scuole, ecc…).

Giusto prevedere, allora, un rilancio della formazione, necessaria per modificare le abilità e competenze dei dipendenti pubblici che saranno interessati dai processi di riorganizzazione immaginati dalla spending review.

Come si nota, tuttavia, anche in questo caso la Preintesa intende riassegnare ai sindacati funzioni di cogestione, prevedendo un loro coinvolgimento non si capisce se nella programmazione della formazione o se, anche, nella stessa erogazione ed organizzazione dei corsi.

- la predisposizione di vincoli e procedure per garantire trasparenza totale sugli andamenti gestionali e finanziari degli enti per valutarne le ricadute in termini occupazionali e retributivi; Per la verità, si tratta di un contenuto già ampiamente presente nel d.lgs 150/2009, per la precisione nell’articolo 11. Il quale prevede che appunto le amministrazioni pubbliche illustrino con strumenti pubblici ed accessibili a tutti quali risorse destinino alle politiche di personale a fronte di quali benefici riescano ad assicurare ai cittadini.

- un coinvolgimento delle organizzazioni sindacali nei processi di razionalizzazione delle pubbliche amministrazioni ( ad esempio spending review) secondo modalità coerenti con le autonomie previste dall’ordinamento (che comprenda anche una riflessione sulle società partecipate e controllate, Consorzi e Fondazioni) che accompagni anche i processi di miglioramento ed innovazione nonché il sistema premiante e incentivante al livello integrativo anche tenendo conto delle norme già vigenti in materia di risparmi derivanti da processi di riorganizzazione; Questo passaggio è fortemente rilevatore della portata di vero e proprio ritorno alla cogestione stile anni ’80 del secolo scorso insito nella preintesa.

Così come è scritto il punto, c’è poco da dubitare che l’accordo punta ad assegnare ai sindacati una voce in capitolo piena in un ambito addirittura di macro-organizzazione, quello che nel lavoro privato non può che spettare in via esclusiva al datore di lavoro.

Ma, a ben vedere, anche nel settore pubblico, a maggior ragione, la macro organizzazione, poiché “manovrata” mediante atti legislativi o regolamentari, non può che essere appannaggio esclusivo dell’ente.

C’è da capire se il “coinvolgimento” immaginato dalla Preintesa consista in una concertazione, forse opportuna purchè non allunghi i tempi e non renda ancor più difficoltosi i compiti di riorganizzazione, oppure, come in effetti appare, addirittura in una contrattazione. Il che equivarrebbe assegnare ai sindacati poteri di veto veri e proprio. Strano che nel settore pubblico, lo si ribadisce, molto garantito, le sigle possano aspirare ad avere poteri nemmeno immaginabili nell’ambito del lavoro privato, nel quale la riforma del mercato del lavoro per loro non ha riservato né contrattazione, né concertazione, ma solo un “dialogo”.

Immaginare di concordare la spending review con i sindacati è francamente paradossale. La revisione della spesa attiene alle scelte di programmazione alta, di politica vera e propria. Che vi possano essere confronti tra i vertici amministrativi e i tanti soggetti, non solo i sindacati, coinvolti a tutelare gli interessi dei destinatari dei servizi e delle politiche è corretto, ma un coinvolgimento diretto nei processi di revisione è solo consociativismo.

Il punto della Preintesa in analisi, poi, intende coinvolgere i sindacati anche su due punti strategici, concernenti anche in questo caso la macro organizzazione.

In primo luogo, “i processi di miglioramento ed innovazione”. Siamo in pieno territorio macro organizzativo, rispetto al quale il coinvolgimento dei sindacati, se vada oltre una consultazione equivalente a quella che si potrebbe attivare con qualsiasi altro portatore di interessi, si rivela una vera e propria invasione nel campo della determinazione delle risorse, che è funzione politica ed organizzativa.

In secondo luogo, si vuole tornare a rendere protagonisti i sindacali sul nonché sul sistema premiante e incentivante al livello integrativo “anche tenendo conto delle norme già vigenti in materia di risparmi derivanti da processi di riorganizzazione”. La Preintesa si riferisce evidentemente all’articolo 16, comma 5, del d.l. 98/2011 convertito in legge 111/2011 e alla sua previsione, secondo la quale parte delle risorse derivanti da “spending review” decentrate o, meglio, piani di razionalizzazione delle spese delle pubbliche amministrazioni possa essere destinata alla contrattazione collettiva. Non sembra immaginabile che i sindacati possano andare oltre all’indicazione in via di consultazione di quali azioni intraprendere. Forse, attualmente la relazione sindacale della sola informazione successiva è troppo penalizzante, ma giungere alla concertazione o alla contrattazione significa negare alle amministrazioni la funzione fondamentale, che è unilaterale, della programmazione e dell’indirizzo.

- la definizione di criteri trasparenti e il coinvolgimento delle organizzazioni sindacali in tutte le fasi dei processi di mobilità collettiva; In questo caso, la Preintesa rivela il chiaro intento di voler rivedere la disciplina dell’articolo 33 del d.lgs 165/2001, recentemente modificato dalla legge 183/2011. Si tratta della procedura per la dichiarazione dei dipendenti pubblici in “esubero”, sia per ragioni organizzative, sia per ragioni finanziarie, simmetriche, dunque, nel privato alle ragioni alla base del licenziamento dovuto a giustificato motivo oggettivo, per ragioni economiche.

Siamo in pieno ambito di applicazione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Come più volte chi scrive ha avuto modo di sottolineare, nell’attuale quadro normativo, ogni riforma che riguardi l’articolo 18 si riverbera immediatamente e pienamente anche nel lavoro pubblico. Non essendo questo lo spazio per approfondire più di tanto l’affermazione, a suo supporto qui ci si limita a richiamare l’articolo 51, comma 2, del d.lgs 165/2001, a termini del quale al lavoro pubblico si applica tutto, senza eccezione alcuna, lo Statuto dei lavoratori.

L’articolo 33 del d.lgs 165/2001 è norma che si limita a fissare quali siano i presupposti giuridici per giungere a determinare l’eccedentarietà dei dipendenti pubblici rispetto all’organico e stabilisce la procedura per porli in esubero (dopo aver accertato l’impossibilità di trasferirli per mobilità interna ad altri uffici, o mobilità esterna ad altri enti), il che significa farli entrare in stato di “disponibilità” per massimo 24 mesi, con stipendio fermo al solo trattamento fondamentale senza accessorio, decorsi i quali si giunge alla risoluzione del rapporto di lavoro.

La Preintesa certamente intende riattribuire alle organizzazioni sindacali voce in capitolo sulla procedura. L’articolo 33 novellato del d.lgs 165/2001, al contrario, aveva sostanzialmente deprivato i sindacati di possibilità di intervento, riservando loro solo informazioni sulla procedura.

Ma, molti già vedono in questo passaggio della Preintesa l’intento di andare ben oltre e di giungere alla disapplicazione degli effetti della riforma dell’articolo 18 al lavoro pubblico, assicurando dunque il permanere del reintegro, anche nel caso di licenziamento dovuto a giustificato motivo oggettivo.

Ciò confermerebbe che, in assenza di una specifica norma di legge, la riforma dell’articolo 18 dello Statuto si applicherebbe di peso al lavoro pubblico. Ma, la legge proposta dal Ministro Patroni Griffi dovrebbe introdurre, allora, una deroga speciale per i dipendenti pubblici, assicurando loro un livello di tutela che, al contrario, sarebbe negato ai lavoratori privati.

Il legislatore è ovviamente libero nel perseguire i fini che ritiene opportuni. Inutile, tuttavia, sottolineare quanto deflagrante sarebbe anche la sola proposta di una norma simile, che scaverebbe un solco non più colmabile tra l’amministrazione pubblica e i lavoratori pubblici da un lato, e il resto della società dall’altro.

Sarebbe una mossa di discutibile costituzionalità, ma di sicuri odiosità ed impatto sociale irrimediabili. La “pax” sindacale vale simile effetto devastante?

- il pieno riconoscimento del ruolo negoziale e delle prerogative delle RSU nei luoghi di lavoro nelle materie previste dal CCNL; Questa previsione sembra una petizione di principio tautologica. Non si vide come non possa essere riconosciuto il ruolo negoziale del sindacato, se non nei contenuti e limiti previsti dalla legge.

Poiché la Preintesa parla di un “pieno” riconoscimento, se ne deve dedurre che l’intento è aumentare il ruolo negoziale. Il che accentua la sensazione della contro-riforma, tendente a riportare sotto l’egida della contrattazione anche ambiti e materie estranei a tale relazione, in organizzazioni necessariamente orientate verso la produttività e l’efficienza, come nel privato.

- l’individuazione, nell’ambito delle materie di informazione sindacale, anche di ipotesi di esame congiunto tra pubbliche amministrazioni e organizzazioni sindacali; Ad accrescere la sensazione del ritorno verso la cogestione anche l’enunciazione chiara di estendere le prerogative sindacali anche ad un livello di ingerenza comunque rilevante, quale “l’esame congiunto” (che richiede una prestazione di consenso) perfino nelle materie riservate ad informazione.

Inoltre, allo scopo di assicurare autonomia alle organizzazioni sindacali nell’ambito del comparto delle autonomie, la Preintesa impegna il Governo a rivedere il sistema dei comparti della contrattazione collettiva (che il d.lgs 150/2009 vorrebbe ridurre a 4) in modo tale da salvaguardare le competenze di regioni ed enti locali, garantendo per gli enti locali stessi comparti specifici e distinti. Inoltre, il Governo si impegna anche a “rafforzare i poteri di rappresentanza delle Regioni ed enti locali nelle procedure di contrattazione collettiva, valorizzandone gli ambiti di autonomia e di corresponsabilità nella definizione delle risorse destinate ai rinnovi contrattuali”. Proprio mentre la spending review e la necessità di ripensare l’organizzazione stessa dello Stato puntando sull’accentramento della spesa e dei controlli, la contro-riforma del lavoro pubblico vorrebbe insistere su una sorta di “federalismo” della contrattazione, remando in direzione del tutto opposta alle chiare intenzioni del Governo su altri ambiti e non tenendo conto dei risultati negativi conclamati del tentativo di federalismo “all’italiana” fin qui maldestramente proposto.

Razionalizzare e semplificare i sistemi di misurazione, valutazione e premialità. Il secondo capitolo della Preintesa si dedica ad uno dei punti maggiormente controversi e complessi della riforma-Brunetta, cioè il sistema di valutazione.

L’intento è rivederlo profondamente, con spunti che in qualche misura debbono considerarsi, per altro, condivisibili.

In realtà, comunque, la Preintesa sull’argomento non fa altro che certificare ulteriormente e forse definitivamente la morte del sistema di valutazioni “per fasce” improvvidamente disposto dal d.lgs 150/2009, il cui articolo 19 ha avuto l’evidentissimo e gravissimo vizio di intendere a tutti i costi creare “in provetta” tre categorie di dipendenti: i produttivi, quelli ordinari e quelli poco produttivi. Chi ha trascritto l’articolo 19 del d.lgs 150/2009, spinto dalla volontà di forzare le amministrazioni a differenziare nettamente le valutazioni dei singoli dipendenti (in Italia, in media, le amministrazioni su una scala valutativa da 0 a 100 limitano i punteggi nella forcella che va da 95 a 100) è andato oltre, costruendo un sistema artefatto, tale da imbrigliare necessariamente la valutazioni in fasce precostituite, alla ricerca della curva di Gauss perfetta[1].

E’ una forzatura anche statisticamente inaccettabile, perché mira a creare la medesima curva di distribuzione delle valutazioni in tutte le amministrazioni, come se non fossero possibili, ammissibili e anche necessari risultati delle valutazioni diversi, anche nella distribuzione gaussiana.

In ogni caso, il sistema perverso e forzato dell’articolo 19 è stato sostanzialmente eliminato dall’ordinamento con un’altra “intesa”, quella del 4 febbraio 2011, che ha rappresentato il de profundis di questa rozza modalità di intendere la valutazione. Poi, l’articolo 6, comma 1, del d.lgs 141/2001 (La differenziazione retributiva in fasce prevista dagli articoli 19, commi 2 e 3, e 31, comma 2, del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, si applica a partire dalla tornata di contrattazione collettiva successiva a quella relativa al quadriennio 2006-2009. Ai fini previsti dalle citate disposizioni, nelle more dei predetti rinnovi contrattuali, possono essere utilizzate le eventuali economie aggiuntive destinate all'erogazione dei premi dall'articolo 16, comma 5, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111) ha di fatto reso legge il contenuto di quell’intesa, mettendo in naftalina le “fasce”.

Non restava che avviare un processo legislativo di riforma, che eliminasse del tutto una volta e per sempre l’articolo 19 del d.lgs 150/2009 e la sua grossolana concezione dei risultati della valutazione.

L’occasione viene colta dalla Preintesa Governo-sindacati: “Le parti concordano sulla necessità di razionalizzare e semplificare i sistemi di misurazione, valutazione e premialità nonché del ciclo della perfomance previsti dal decreto legislativo 150 del 2009 anche mediante il superamento del sistema della ripartizione dei dipendenti nelle fasce di merito di cui all’articolo 19 del medesimo decreto, prevedendo di conseguenza meccanismi atti ad assicurare la retribuzione accessoria differenziata in relazione ai risultati conseguiti. Detti interventi saranno finalizzati a garantire, anche con le competenze affidate alla contrattazione, un miglior bilanciamento dei fattori valutativi in cui alla performance organizzativa venga assegnato un ruolo più significativo rispetto a quella individuale, tenuto conto dei diversi livelli di responsabilità ed inquadramento del personale”.

Dunque, gli intenti sono molteplici. Il primo è razionalizzare e semplificare i sistemi di misurazione, valutazione e premialità. In effetti, si tratta di un obiettivo condivisibile. Il d.lgs 150/2009 traccia ben tre ambiti di valutazione: l’intero ente, le strutture e quella individuale. Impone di suddividere, simmetricamente, in tre tronconi i fondi contrattuali destinati alla valutazione. Richiede strumenti analoghi ma diversi, tra loro correlati ed intrecciati. Impone ripetizioni di passaggi e difficoltosi strumenti di controllo, tanto più quanto maggiore è il numero dei dipendenti, anche proprio in considerazione delle operazioni matematiche imposte dal criterio delle fasce. Il sistema di valutazione non deve essere un lavoro impegnativo, ma una risultante il più possibile semplice di analisi di quello che si è prodotto, in rapporto ad obiettivi ed indicatori predeterminati, senza fare a fette l’organizzazione in modo alla fine incontrollabile.

Il secondo, mira ad estendere le medesime semplificazioni al “ciclo della performance”. E’ sperabile che Patroni Griffi, nel proporre la riforma del d.lgs 150/2009 ottenga il risultato di eliminare per sempre dal lessico del legislatore una parola straniera, per altro orrida, come “performance”. E’, al contrario, auspicabile che la furia “iconoclasta” contro la riforma-Brunetta non spinga il legislatore a cancellare le parti, invece, corrette. Il ciclo della performance, disegnato dall’articolo 4 del d.lgs 150/2009 è l’esatta e corretta rappresentazione delle fasi di programmazione gestione, controllo e rendicontazione propri di qualsiasi organizzazione. Dovrebbe essere solo preservato e non pare assolutamente richieda semplificazioni.

Il terzo è il più rilevante ed importante: superare, come visto prima, il sistema delle fasce rimodulando gli elementi oggetto di valutazione. In particolare, la Preintesa indica di dare maggior “peso” ai risultati delle strutture operative di vertice (performance organizzativa) rispetto a quella individuale.

Insomma, si vorrebbe superare l’eccessiva enfasi che non tanto e non solo la riforma-Brunetta, ma anche la vigente contrattazione collettiva (in particolare del comparto regioni-enti locali) danno alla spregiativamente nota “padellina” di valutazione del dipendente.

Chi scrive, sulle pagine di questa rivista e non solo[2] da sempre ha rilevato la scorretta impostazione di sistemi di valutazione prevalentemente basati sull’analisi della prestazione del singolo.

Prevalentemente, la valutazione deve misurare la produttività collettiva. Premi individuali, pochi e mirati, debbono considerarsi aggiuntivi e il più che sia possibile oggettivamente rispondenti a professionalità e capacità di reale spicco.

Anche perché, non si deve dimenticare un fatto decisivo: nel lavoro pubblico, mediamente, il salario accessorio distribuisce poco: nel solo comparto degli enti locali, in base al censimento del personale realizzato dal Ministero dell’interno con riferimento al 2008 in media la retribuzione per premi individuali di produttività era risultata di poco superiore ai 400 euro.

Non c’è dubbio che sia più corretto puntare sulla valorizzazione della produttività dell’organizzazione, introducendo meccanismi di surplus di premio per i maggiormente capaci. Il d.lgs 150/2009 ha già introdotto strumenti per sanzionare economicamente, invece, i meno produttivi, che andrebbero conservati: la valutazione fortemente negativa reiterata per 2 anni di seguito, ad esempio, costituisce una giusta causa anche di licenziamento.

Non persuade, però, il riferimento della Preintesa di tenere conto, ai fini della valutazione “dei diversi livelli di responsabilità ed inquadramento del personale”. Sembra proprio il sinistro preannuncio di una modalità di valutazione riferita al livello di inquadramento, un ritorno al passato in piena regola, anche se si tratta di un “passato” che in moltissime amministrazioni, specie dello Stato, è ancora fin troppo “presente”.

La Preintesa, invece, ritiene opportuno lasciare ampi margini di valutazione della performance individuale per la dirigenza. Quando, invece, dovrebbe risultare molto chiaro che il risultato del dirigente dovrebbe esattamente coincidere col risultato complessivo della struttura diretta a meno di dimostrare che tale struttura ottenga i suoi risultati “malgrado” il dirigente.

Nuove regole riguardanti il mercato del lavoro. Questo capitolo dovrebbe rappresentare il “cuore” della riforma del lavoro pubblico, mirante ad armonizzarla con quella del lavoro privato.

L’esame di questo contenuto della Preintesa porta ad un giudizio, invece, di delusione. La preintesa si articola nei seguenti punti, che esaminiamo uno per uno.

a) salvaguardare e rafforzare nel mercato del lavoro pubblico i principi previsti dall’articolo 97 della Costituzione; Classica norma “alla Catalano”. Come sarebbe immaginabile disciplinare il mercato del lavoro pubblico senza salvaguardare i principi stabiliti dall’articolo 97 della Costituzione? E, d’altra parte, come è possibile rafforzare tali principi, se non modificando la Costituzione stessa? Il legislatore non dovrebbe far altro che attuare per bene tali principi. Guardandosi il più possibile dal consentire deroghe all’accesso agli impieghi per concorso, nei casi di “stabilizzazioni” o di dirigenti a contratto, ad esempio.

b) individuare misure volte a favorire il più ampio accesso ai pubblici uffici da parte dei cittadini degli stati membri dell’Unione europea, senza limitazioni derivanti dal luogo di residenza dei candidati; In questo caso, si tratta di una virata di 180 gradi rispetto ad una norma evidentemente incostituzionale della riforma-Brunetta. Si tratta dell’articolo 51, che nel corpo dell’articolo 35, comma 5-ter, del d.lgs 150/2009 ha introdotto la seguente disposizione: “Il principio della parità di condizioni per l'accesso ai pubblici uffici è garantito, mediante specifiche disposizioni del bando, con riferimento al luogo di residenza dei concorrenti, quando tale requisito sia strumentale all'assolvimento di servizi altrimenti non attuabili o almeno non attuabili con identico risultato”. Un insulto alla Costituzione ed al Trattato Ue, che va eliminato al più presto.

c) confermare il principio dell’articolo 36 del decreto legislativo 165 del 2001, che il lavoro subordinato a tempo indeterminato è la forma ordinaria per far fronte ai fabbisogni ordinari delle pubbliche amministrazioni; In questi casi, le conferme nascondono inadempienze. Il fenomeno dell’inanellamento dei contratti a tempo determinato e flessibili altro non è se non l’aperta e smaccata violazione di quanto stabilisce con estrema chiarezza già l’articolo 36, commi 1 e 2, del d.lgs 165/2001. Non è che formulare la stessa norma “al quadrato” la rafforzi. Forse, occorrerebbe trovare il modo di controllare che venga rispettata…

d) individuare e disciplinare le tipologie di lavoro flessibile utilizzabili nel settore pubblico per esigenze temporanee o eccezionali, in relazione alle diverse causali, con riferimento anche alle procedure di reclutamento e ai limiti di durata; Un ritorno alla disciplina del tempo determinato della legge 230/1962, che definiva con elencazione tipica e tassativa i casi in cui era possibile apporre un termine al rapporto di lavoro? L’idea, tutto sommato, considerando la forte tendenza del datore di lavoro pubblico ad eludere i vincoli potrebbe non considerarsi sbagliata, ma immaginare di creare la griglia di casi veramente completa è molto difficile. E, comunque, è la negazione dell’autonomia e della responsabilità del datore pubblico.

e) disciplinare, per specifici settori, percorsi di accesso mediante un reclutamento ispirato alla “tenure-track”, nel rispetto dell’articolo 97 della Costituzione e dei limiti alle assunzioni, definendo presupposti e condizioni; Forse, la Preintesa si riferisce alla scuola e all’Università. La tenure-track (ma perché questo ennesimo becero inglesismo?) negli Usa è un contratto con un periodo di prova di 5 anni, al termine del quale, se la valutazione dell’attività del lavoratore è positiva, consegue l’assunzione (trasformazione) a tempo indeterminato. Pertanto sin da subito è necessario impegnare la spesa sul bilancio come fosse un contratto di lavoro a tempo indeterminato, un po’ come occorrerebbe procedere se si trattasse di contratto di formazione e lavoro o di apprendistato. Nella riforma-Gelmini dell’università si è già introdotto qualcosa di simile, ma dopo la conclusione del rapporto iniziale a tempo determinato non vi è la trasformazione del rapporto. Occorre un giudizio di idoneità nazionale e il superamento di un concorso locale. Si tratta di un vero e proprio contratto a tempo determinato, il cui impegno di spesa resta limitato alla durata fissata col termine.

La tenure-track altro non sarebbe che un contratto a tempo indeterminato a libera recedibilità delle parti, con una prova molto lunga, utile per un tempo di osservazione del lavoratore e di assimilazione di abilità e competenze, finalizzato a mettere progressivamente in ruolo un lavoratore inizialmente fuori ruolo.

Non si vuole necessariamente pensare male, ma le interpretazioni all’italiana di simili strumenti giuridici spesso conducono a produrre mostri, come le “stabilizzazioni”. E il richiamo alla tenure-track, unito ai sindacati del lavoro pubblico che rialzano la testa, lascia proprio presagire l’improprio utilizzo di questo istituto per una grande sanatoria dei lavoratori precari creati illecitamente da troppe amministrazioni pubbliche.

f) contrastare l’uso improprio e strumentale delle tipologie contrattuali di lavoro flessibile con disciplina della responsabilità dirigenziale e delle sanzioni da applicare per il caso di abuso; Le disposizioni contenute negli articoli 7, comma 6, e 36, comma 5, del d.lgs 165/2001 sono sicuramente molto gravi e forti: prevedono responsabilità civile e contabile dei dirigenti che attivino forme flessibili anche di lavoro autonomo, in assenza dei presupposti di legittimità.

Anche in questo caso, dunque, la Preintesa prevede l’ovvio. Meno scontato sarebbe finalmente attivare seri controlli in merito.

g) prevedere discipline specifiche per alcuni settori di attività quali quello della sanità e assistenza, della ricerca e dell'istruzione; Evidentemente, ci si riferisce alla necessità di rendere più semplice l’impiego di personale flessibile in settori in cui l’erogazione delle attivitàe dei servizi è inscindibilmente connessa alla presenza di operatori a contatto col pubblico. Forse, la previsione è destinata ad estendersi anche a deroghe ai tetti alle assunzioni.

h) valorizzare nei concorsi l'esperienza professionale acquisita con rapporto di lavoro flessibile, tenendo conto delle diverse fattispecie e della durata dei rapporti; Anche questa previsione pare preannunciare un’immensa opera di stabilizzazione. Ma, simile previsione è già contenuta nella legge 102/2009…

l) riordinare la disciplina dei licenziamenti per motivi disciplinari fermo restando le competenze attribuite alla contrattazione collettiva nazionale; Uno degli elementi di maggior pregio del d.lgs 150/2009 è consistito nella tipizzazione delle ipotesi di violazioni disciplinari che danno vita al licenziamento per giustificato motivo soggettivo.

La cosa ai sindacati non è per nulla piaciuta. La Preintesa rivela un intento altrettanto odioso di quello di disapplicare gli effetti della riforma dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori al lavoro pubblico: non solo sottrarre i dipendenti alle norme sui licenziamenti dovuti a ragioni economiche, ma perfino per quelli di carattere disciplinare, riattribuendo ai contratti collettivi un perimetro di operatività che, in astratto, dovrebbe essere di loro pertinenza, ma che la prova dei fatti ha dimostrato sia più opportuno sia occupato dal legislatore.

m) rafforzare i doveri disciplinari dei dipendenti prevedendo al contempo garanzie di stabilità in caso di licenziamento illegittimo; Ecco il punto fortemente dolente della Preintesa: il rafforzamento delle garanzie di stabilità nell’ipotesi di licenziamento illegittimo. Insomma, mentre il lavoro privato va in una direzione, quello pubblico intraprende una strada direttamente opposta.

Come ciò si possa conciliare con l’articolo 3 della Costituzione ma col semplice buon senso è impossibile capire.

E’ un passo falso terribile quello che Funzione Pubblica e sindacati hanno fatto e che il legislatore si accinge a compiere, impossibile giustificare agli occhi di imprese e lavoratori del privato assaliti da una crisi senza fine, i quali non potranno che accentuare odio e disappunto nei confronti di tutto ciò che è “pubblico”.

n) fermo restando l’istituto della mobilità volontaria come uno degli strumenti per far fronte ai fabbisogni di personale delle Pubbliche Amministrazioni, garantire la possibilità, in particolari settori, di derogare alla mobilità preventiva nel caso di indizione di concorsi per figure professionali infungibili e nel caso di scorrimento delle graduatorie concorsuali. La mobilità preventiva ai concorsi, costruita come a sua volta una procedura concorsuale, è un peso burocratico, da correggere al più presto.

Non sembra, tuttavia, corretto derogarvi in nessun settore, poiché è uno strumento indispensabile di razionalizzazione di una delle maggiori storture del lavoro pubblico: la cattiva distribuzione dei dipendenti.

I sistemi di formazione del personale. Totalmente condivisibili le affermazioni di principio della Preintesa in questo paragrafo: si evidenzia la “necessità che la formazione riacquisti una natura effettivamente funzionale volta ad incrementare la qualità e offrire a tutto il personale l’opportunità di aggiornarsi e di corrispondere all’evoluzione del fabbisogno di capacità. La formazione rappresenta infatti una leva decisiva per favorire i processi di cambiamento, innovazione e profonda riforma della pubblica Amministrazione, garantendo l’acquisizione di nuove competenze, la costruzione di nuove professionalità e l’affermarsi nelle strutture pubbliche della cultura del servizio alla collettività e della buona amministrazione. In tale contesto si concorda sulla necessità di riordinare il sistema delle scuole pubbliche di formazione, sia centrali che locali, al fine di garantire l’omogenea formazione del personale pubblico, di migliorare il livello formativo permanente dei dipendenti pubblici e ottimizzare l’allocazione delle risorse”.

Speriamo si ricordino di eliminare l’assurda previsione contenuta nella legge 122/2009 che limita le spese per la formazione al 50% di quelle sostenute nel 2009.

La dirigenza pubblica: rafforzamento del ruolo, delle funzioni e delle responsabilità anche al fine di garantirne una effettiva autonomia rispetto all’organo di indirizzo politico politica. La Preintesa dà ampio spazio anche al ruolo della dirigenza.

Analizzando il titolo del paragrafo dedicato all’argomento, viene il forte sospetto di aver già letto quanto ivi scritto.

Infatti, basta leggere l’articolo 6, comma 1, della legge 15/2009, la legge delega da cui è scaturito il d.lgs 150/2009: “L’esercizio della delega nella materia di cui al presente articolo è finalizzato a modificare la disciplina della dirigenza pubblica, al fine di conseguire la migliore organizzazione del lavoro e di assicurare il progressivo miglioramento della qualità delle prestazioni erogate al pubblico, utilizzando anche i criteri di gestione e di valutazione del settore privato, al fine di realizzare adeguati livelli di produttività del lavoro pubblico e di favorire il riconoscimento di meriti e demeriti, e al fine di rafforzare il principio di distinzione tra le funzioni di indirizzo e controllo spettanti agli organi di governo e le funzioni di gestione amministrativa spettanti alla dirigenza, nel rispetto della giurisprudenza costituzionale in materia, regolando il rapporto tra organi di vertice e dirigenti titolari di incarichi apicali in modo da garantire la piena e coerente attuazione dell’indirizzo politico degli organi di governo in ambito amministrativo”. Il d.lgs 150/2009 ha in effetti attuato sufficientemente la previsione, in particolare procedimentalizzando il sistema di affidamento degli incarichi dirigenziali, puntando sulla competenza piuttosto che sull’affinità con l’organo di governo. Anche se, poi, successivi interventi normativi hanno deteriorato la qualità di tali previsioni, reintroducendo elementi di spoil system e fiduciarietà selvaggia, in particolare con riferimento alla revoca anticipata degli incarichi.

La Preintesa predica la necessità di “assicurare alla dirigenza un’effettiva autonomia, rafforzando i meccanismi di selezione, formazione e valutazione e qualificando le modalità di conferimento dell’incarico. A tal fine si devono rafforzare il ruolo e le funzioni e le responsabilità dei dirigenti, garantendone una effettiva autonomia rispetto all’organo di indirizzo politico”. Ma, negli stessi giorni in cui a Palazzo Vidoni si riunivano i tavoli per l’accordo con i sindacati, il Governo avallava le disposizioni recentemente inserite nel decreto fiscale che permettono la sanatoria di migliaia di dirigenti a contratto delle agenzie delle dogane, del territorio e dell’entrate, reclutati senza alcuna selezione tra i funzionari in servizi, nonché ampliano a dismisura la possibilità per gli enti locali di assumere dirigenti a contratto a tempo determinato, in barba ai limiti percentuali fissati dalla Brunetta e senza alcun riferimento a competenze e formazione necessari. Il tutto, mentre emergono sempre più casi di “manager” pubblici con lauree comprate nelle università più bislacche d’Europa e curriculum di nessun valore.

Non ci vuole nessuna preintesa per comprendere che l’articolo 19, comma 6, del d.lgs 165/2001 ed ogni norma a questo analoga vanno semplicemente aboliti. Della possibilità di integrare, ma solo in casi speciali e particolari, le competenze dei dirigenti pubblici le amministrazioni hanno da sempre e smaccatamente abusato, basta riportare alla memoria la sentenza 165/2009 della Sezione giurisdizione della Corte dei conti della Lombardia, in riferimento alle “imprese” della giunta-Moratti.

Il più piccolo spazio dato alle amministrazioni per introdurre nei ruoli dirigenziali “uomini di fiducia” viene allargato all’infinito. Questo nuoce irrimediabilmente all’intento di avere una dirigenza competente, formata, capace di attuare i piani e i progetti della politica, ma da essa autonoma.

Le indicazioni della Preintesa appaiono troppo sfumate ed astratte, visto che non menzionano la necessità di eliminare del tutto il sistema degli incarichi fiduciari, per altro considerato incostituzionale a più riprese dalla Consulta.







[1] La curva di Gauss (curva a campana o curva “di distribuzione normale”) rappresenta come normalmente o più probabilmente variabili causali, che dovrebbero concentrarsi prevalentemente intorno ad un singolo valore medio. Nel caso delle valutazioni, secondo il legislatore, il valore medio della produttività dei dipendenti dovrebbe restare all’interno del 50% dei dipendenti, mentre un 25% caratterizza dipendenti poco produttivi ed il restante 25% dipendenti molto produttivi.




[2] L. Oliveri: Difetti comuni dei sistemi di valutazione negli enti locali in www.lavoce.info del 26.11.2007; Il nuovo ordinamento del lavoro pubblico (il d.lgs 150/2009 dopo la Manovra Monti commentato articolo per articolo) ed. Maggioli, Rimini 2012, pag 108 e segg.).


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