domenica 24 giugno 2012

Il mistero della spending review…

Doveva essere pronta agli inizi di maggio, ma ancora resta una misteriosa sconosciuta la tanto declamata spending review, della quale, per ora, dobbiamo limitarci a conoscere i contorni, lasciati trapelare probabilmente ad arte, per “vedere l’effetto che fa”.


L’unica certezza che viene distribuita è la possibilità concreta di conseguire un risparmio vicino ai 7 miliardi, che potrebbe scongiurare l’aumento dell’Iva altrimenti inesorabilmente previsto per il prossimo autunno.

Sicuramente dai tecnici e dai tecnici nominati dai tecnici ci si aspettava molto di più, specie da parte dei non addetti ai lavori. Gli sprechi nel settore pubblico indubbiamente vi sono. Ma, a molti sfugge un dato: al di là delle tante, troppe opere pubbliche incompiute, spesso oggetto di servizi ed inchieste, e dei casi di vere e proprie ruberie, ciò che non funziona non è tanto e solo la quantità della spesa, quanto piuttosto la qualità della sua destinazione.

La revisione della spesa dovrebbe svolgere esattamente il compito di verificare prima “come” si spende, per rideterminare le priorità e, dunque, la destinazione di essa e il “quanto” riferito alle voci prioritarie. La riduzione della spesa dovrebbe essere conseguenza indiretta delle nuove priorità: le voci meno rilevanti possono, infatti, agevolmente essere oggetto di riduzioni. Esempio lampante: in Sicilia per il piano giovani 293 mln su 450 sono destinati ad enti di formazione e non a politiche per il lavoro. Spending review significherebbe rivedere esattamente questi meccanismi tali da finire in spesa solo assistenziale di alcuni enti, vicini a determinate parti politico-sindacali, invece che produrre lavoro ed investimenti.

Un simile processo, tuttavia, è lungo e complicato. I tempi per evitare l’incremento dell’Iva oggettivamente non ci sono, nonostante supertecnici e tecnici al quadrato.

Alla finfine, l’urgenza di provvedere genera le solite idee: sostanzialmente tagli lineari, prevalentemente da dedicare alle spese vive delle strutture e, dunque, agli acquisti e al personale, anche se questa seconda voce inizialmente non era stata inclusa nella “manovra”.

In quanto agli acquisti e alle spese per servizi, tuttavia, i segnali dati dal Governo non appaiono troppo confortanti.

I risparmi sono molto ottimisticamente in parte affidati alla stretta sulle telefonate urbane ed ai cellulari, ideata da Palazzo Vidoni. Se questi sono davvero gli strumenti con i quali scongiurare l’incremento dell’Iva, aspettarsi l’ennesima manovra correttiva che corregge la correttiva precedente è più che lecito.

Dovrebbe essere arcinoto che la “chiama urbana” è estinta come lo sono le cabine telefoniche. Il sistema universalmente utilizzato, ormai, è proprio il cellulare, anche grazie a sistemi tariffari estremamente convenienti o allo sviluppo di software di chiamata tramite il web totalmente gratuiti di fonia e voce.

Il risparmio sul nulla, come risultato è nullo. La gran parte delle telefonate sul “fisso”, se così vogliamo chiamare i nuovi telefoni solo perché attaccati ai cavi e posati sulla scrivania, nelle pubbliche amministrazioni sono rivolte ad altre pubbliche amministrazioni. Ma, almeno dal 2008 tutte avrebbero dovuto passare al Voip, sistema sempre web-based di distribuzione dei dati di fonia praticamente gratuito.

Più che pensare a conseguire risparmi sulle telefonate procedendo ad un impensabile blocco delle chiamate utilizzando gli strumenti più moderni ed utilizzati, forse sarebbe il caso di puntare il dito nei confronti delle amministrazioni inadempienti, che non hanno attuato quanto già prevede da tempo la legge. Ma, in ogni caso la “polpa” risulterebbe poca cosa.

Le altre “ideone” sono il risparmio sulle bollette (sacrosanto), sulle auto blu (ottimo) e sulla realizzazione di un sistema unico di controllo delle presenze. Non parliamo, poi, della fantascientifica idea di puntare sull’informatica per conseguire i risparmi, proprio mentre, contestualmente, si predica il blocco delle chiamate ai cellulari…

Insomma, a pelle, limitandosi a guardare i titoli delle idee sulla spending review, sembra proprio di rivedere la celeberrima scena di Miseria e nobiltà, in cui il vecchissimo e rovinato paltò dovrebbe consentire di fare una luculliana spesa (“prendi la mozzarella di Casoria, freschissima la spremi con le dita, se sgocciola la prendi, se no… desisti!”). Da mere misure, per quanto doverose, di corretta gestione ben difficilmente possono emergere 7 miliardi di spese.

Non migliori appaiono le prospettive dal lato degli appalti. L’idea dell’accentramento della decisione quantitativa della spesa anche per amministrazioni decentrate e locali è quanto meno bizzarra. E’ necessario conoscere livelli standard di prezzo (ma una prima previsione normativa di questa natura risale al 1993, con la prima legge finanziaria del primissimo Governo Berlusconi, il che è tutto dire…), per guidare ad acquisti con livelli di spesa uguali nel territorio. Stabilire da Roma se a Lampedusa e a Bolzano debbano spendere una quantità data in servizi e appalti è francamente bizzarro. Nemmeno sotto il dominio degli antichi romani, improntato ad un’organizzazione ferrea e molto decisionista, si stabiliva tutto al centro: le vituperate “province” sono state inventate dai romani proprio per quel quantum di autonomia organizzativa necessaria nelle periferie.

Il capitolo province, a proposito, non può mancare. L’ultima tra le continue novità pare la definitiva decisione di eliminare quelle con meno di 350.000 abitanti, giungendo a paradossi territoriali di province grandi quanto regioni, con enclavi al loro interno, come avverrebbe in Toscana. Tutto ciò, servirebbe a consentire l’accorpamento degli uffici periferici dello Stato. Come se la riduzione del numero delle sedi territoriali delle prefetture o delle varie direzioni provinciali dipendesse dall’eliminazione degli enti province. Lo Stato è perfettamente autonomo di organizzare le proprie sedi territoriali, senza che da nessuna parte sia prevista l’obbligatoria corrispondenza tra ente provincia e sede statale decentrata.

Nonostante sia ormai noto a tutti che il risparmio sulla manovra riguardante le province, modifica del sistema elettorale che diverrebbe di secondo grado compresa, essendo riferito ai soli organi di governo porterebbe a poco più di 60 milioni di euro. Inezie come quelle dei risparmi da telefonate o utenze, ben lontane dall’obiettivo dei 7 miliardi.

Si andrà, comunque, avanti per la gloria di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, che potranno raccontare ai nipoti di aver contribuito al raggiungimento dell’importantissimo traguardo dell’eliminazione delle province.

E’ importante “fare”, si dirà. Sarebbe opportuno, però, fare ciò che è utile. Per risparmiare i 12 miliardi che spendono le province occorrerebbe azzerare del tutto le competenze che esercitano. Ma non andrà così. Alle province superstite si pensa di lasciare pochissime funzioni in campo ambientale, programmazione territoriale e strade. Il resto andrebbe ripartito tra comuni e regioni. Come? Se la spending review fosse seria e non il frutto di editoriali o corsivi sui giornali, sarebbe questo il problema principale da risolvere, insieme a quello della destinazione del personale e, soprattutto, dell’imponente riforma al sistema tributario e finanziario locale, per ridistribuire i finanziamenti, il debito e il contributo che le province apportano al patto di stabilità. Ma di questi, che sono i reali problemi connessi ad un disegno iconoclasta puro e semplice, nemmeno un cenno, un’idea. Proprio perché non si tratta di vera spending review, ma di sperimentazioni o tentativi. Lo ha affermato, del resto, il Ministro Fornero sulla riforma del mercato del lavoro: intanto l’approviamo, se non va bene la cambiamo.

Come se si trattasse di un vestito o di un oggetto, il Parlamento sforna riforme frettolose e prova a vedere come vanno. Per, poi, puntualmente, ma dopo anni, rivederle totalmente, alla luce di fallimenti devastanti.

Ne sono testimonianza i ridisegni delle Agenzie fiscali, frutto dell’ipertrofia riformatrice degli anni ’90, quelli che hanno portato a introdurre, per poi eliminare quasi del tutto, i direttori generali nei comuni, la contrattazione decentrata (praticamente annullata dalla riforma Brunetta e saltata a piè pari ora dalla spending review), e appunto alcune idee di modifica dell’organizzazione a dir poco azzardate, delle quali ora si paga lo scotto. Era evidente che la creazione di agenzie varie avrebbe incrementato posti dirigenziali, centri decisionali, staff, segreterie, stazioni appaltanti, edifici, reti, utenze. Ma ancora fino al 2001 il legislatore addirittura spingeva le amministrazioni pubbliche ad “esternalizzare”, creando quelle migliaia di società ed enti che oggi si ritiene siano troppi e da cancellare.

Legiferare “per prova” può costare molto caro. Ma l’esperienza fatta, evidentemente, non insegna.

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