domenica 22 luglio 2012

Il garbuglio dei servizi pubblici locali

Le manovre estive degli ultimi anni hanno tutte un carattere comune: sono scritte male, sono frettolose, sono pensate male ed attuate peggio.

Nessuna è rimasta uguale a se stessa: i ritocchi, le modifiche, i ripensamenti, le interpretazioni contraddittorie di Corte dei conti, Authority e giudici si sprecano.

L’incertezza del diritto, già purtroppo molto elevata nel nostro ordinamento, impera. La sentenza 199/2012 della Corte costituzionale riguardante la materia dei servizi pubblici locali ne è perfetta testimonianza.

Il fatto è noto: il referendum del giugno 2011 aveva abolito l’articolo 23-bis del d.l. 112/2008, convertito in legge 133/2008 (la prima dell’infausta serie di manovre finanziarie estive), che aveva riformato in senso estremamente restrittivo la disciplina dei servizi pubblici locali, imponendo la privatizzazione dei servizi a rete e assumendo un atteggiamento assolutamente negativo nei riguardi delle assegnazioni in house. L’articolo 4 del d.l. 138/2011, convertito in legge 148/2011, pochissimi giorni dopo, ha sostanzialmente riprodotto nel suo intero la norma abolita.

La Consulta, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’articolo è stata tranciante: l’articolo 4 citato è incostituzionale perché vìola “il divieto di ripristino della normativa abrogata dalla volontà popolare desumibile dall’art. 75 Cost., secondo quanto già riconosciuto dalla giurisprudenza costituzionale”.

Se, da un lato, la decisizione della Consulta conforta, perché ancora esiste un baluardo contro il deterioramento del diritto da lungo tempo in corso, per altro verso la vicenda nel suo complesso è accasciante.

Si evidenzia la tendenza della politica ad essere del tutto incapace di essere la guida dei cittadini, producendo programmi, per, al contrario, mostrarsi totalmente supina verso slogan e indicazioni provenienti dalla stampa e dai media.

Essi avevano qualificato – erroneamente – il referendum come finalizzato esclusivamente al ripristino della pubblicizzazione del servizio idrico. Non era per nulla vero. Il referendum intendeva abolire l’intera disciplina di tutti i servizi pubblici locali, come fissata dall’articolo 23-bis e dal regolamento di attuazione.

Ma, incredibilmente, il Governo, prima, e il Parlamento, poi con la conversione, hanno pensato che fosse possibile ripristinare nella sostanza le previsioni della norma abolita dal referendum semplicemente intitolando l’articolo 4 «Adeguamento della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare e alla normativa dall’Unione europea», ed escludendo dalla riscrittura dei medesimi contenuti dell’articolo 23-bis, abolito, la sola disciplina del servizio idrico.

La Consulta, ovviamente, non è cascata nell’equivoco e ha rilevato che l’articolo 4 “detta una nuova disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, che non solo è contraddistinta dalla medesima ratio di quella abrogata, in quanto opera una drastica riduzione delle ipotesi di affidamenti in house, al di là di quanto prescritto dalla normativa comunitaria, ma è anche letteralmente riproduttiva, in buona parte, di svariate disposizioni dell’abrogato art. 23-bis e di molte disposizioni del regolamento attuativo del medesimo art. 23-bis contenuto nel d.P.R. n. 168 del 2010”.

La Corte costituzionale non ha potuto fare a meno di considerare “che l’intento abrogativo espresso con il referendum riguardava «pressoché tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica» (sentenza n. 24 del 2011) ai quali era rivolto l’art. 23-bis”, sicchè non poteva “ritenersi che l’esclusione del servizio idrico integrato dal novero dei servizi pubblici locali ai quali una simile disciplina si applica sia satisfattiva della volontà espressa attraverso la consultazione popolare, con la conseguenza che la norma oggi all’esame costituisce, sostanzialmente, la reintroduzione della disciplina abrogata con il referendum del 12 e 13 giugno 2011”.

Ora, gli uffici legislativi, i consulenti, i giuristi, i magistrati che compongono i gabinetti dei ministeri e delle commissioni parlamentari, non si sono avveduti della clamorosa violazione della Costituzione, derivante dal ripristino della norma abolita?

Seriamente Governo e Parlamento ritenevano che, poiché secondo i giornali si trattava del referendum sull’acqua, bastava espungere dall’articolo 4 la disciplina dell’acqua, per garantirne la legittimità costituzionale?

Si tratta dello stesso atteggiamento ed errore che adesso il Governo dei tecnici sta commettendo con le province. L’afflato populistico di molta stampa induce una politica debolissima ad abdicare alla funzione di guida ed elaborazione di programmi, per seguire ciò che appare più gradito al popolo, nonostante in questo momento il Governo non risponda direttamente ad un elettorato. Quindi, si sta modificando in modo a dir poco arruffato l’ordinamento locale, senza acquisire alcun beneficio finanziario diretto dall’accorpamento delle province, solo per dare l’impressione di seguire la volontà popolare, sbagliando completamente bersaglio. I centri di spesa realmente fuori controllo, in Italia, sono le regioni, a causa della riforma del Titolo V della Costituzione e non solo. L’esempio della Sicilia è, in questo senso, fuorviante. La testimonianza del disastro finanziario delle regioni discende dall’incremento senza fine della spesa sanitaria e dal tentativo delle regioni stesse di sottrarsi all’istituzione dei revisori dei conti. Tentativo bloccato ancora una volta dalla Consulta, con la sentenza 198/2012.

Un altro elemento della vicenda dell’articolo 4 del d.l.138/2011 appare clamoroso e si tratta del mutato atteggiamento del legislatore nei confronti dei sistemi di gestione dei servizi pubblici.

Solo nel 2001, l’articolo 29 della legge 448/2001 (per altro ancora vigente), rubricato “Misure di efficienza delle pubbliche amministrazioni” spingeva le amministrazioni pubbliche a gestire i servizi e le funzioni mediante la costituzione di soggetti privati interamente partecipati:

1. Le pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, nonchè gli enti finanziati direttamente o indirettamente a carico del bilancio dello Stato sono autorizzati, anche in deroga alle vigenti disposizioni, a:

        a) acquistare sul mercato i servizi, originariamente prodotti al proprio interno, a condizione di ottenere conseguenti economie di gestione;

        b) costituire, nel rispetto delle condizioni di economicità di cui alla lettera a), soggetti di diritto privato ai quali affidare lo svolgimento di servizi, svolti in precedenza;

        c) attribuire a soggetti di diritto privato già esistenti, attraverso gara pubblica, ovvero con adesione alle convenzioni stipulate ai sensi dell’articolo 26 della legge 23 dicembre 1999, n. 488, e successive modificazioni, e dell’articolo 59 della legge 23 dicembre 2000, n. 388, lo svolgimento dei servizi di cui alla lettera b)”.

Era ancora il periodo post-Bassanini di riforme in senso privatistico della pubblica amministrazione, quando nei corsi di formazione si insegnava ai segretari comunali, nel frattempo quasi tutti qualificati come direttori generali, che buona amministrazione significava creare enti, partecipate, privatizzazione dei servizi pubblici locali.

Purtroppo non c’è nulla di peggio di una cultura tendenzialmente socialista e statalista, quale quella italiana, che vuole improvvisamente trasformarsi in liberista. Mancando i fondamentali, mancando, soprattutto, una vera concorrenza, tanto nel sistema pubblico quanto in quello privato, in Italia la tutela della concorrenza non è parte salda della cultura giuridica. Essa trova una disciplina di rimando solo per effetto delle direttive europee.

E’ certamente vero che nel decennio scorso molti enti locali hanno costituito società di servizi pubblici, tanto di rilevanza economica, quanto privi di rilevanza economica, allo scopo di creare degli “assunzionifici” e per violare, in modo più o meno evidente o sofisticato, le regole sulla concorrenza, sulle assunzioni, sul patto di stabilità o sugli appalti.

Tuttavia, queste considerazioni hanno portato a radicalizzare le scelte e a pensare che, da un lato, ogni gestione municipalizzata fosse anticoncorrenziale, e dall’altro ogni affidamento in house spreco e intento di elusione o violazione delle norme.

Dunque, dal liberismo totale e assoluto, si è passati al liberismo ma solo per i servizi economicamente produttivi, una lotta ai monopoli ben strana, che ha fatto sempre salvi i supermonopoli delle società quotate, mentre ha iniziato ad impedire le assegnazioni di servizi, non solo produttivi, ma anche meramente rivolti a rendere le proprie attività alle amministrazioni, andando ben oltre le indicazioni veramente liberali della Ue.

E la Consulta ne dà puntualmente conto, osservando come la disciplina dell’articolo 4 del d.l. 138/2011 “rende ancor più remota l’ipotesi dell’affidamento diretto dei servizi, in quanto non solo limita, in via generale, «l’attribuzione di diritti di esclusiva alle ipotesi in cui, in base ad una analisi di mercato, la libera iniziativa economica privata non risulti idonea a garantire un servizio rispondente ai bisogni della comunità» (comma 1), analogamente a quanto disposto dall’art. 23-bis (comma 3) del d.l. n. 112 del 2008, ma la àncora anche al rispetto di una soglia commisurata al valore dei servizi stessi, il superamento della quale (900.000 euro, nel testo originariamente adottato; ora 200.000 euro, nel testo vigente del comma 13) determina automaticamente l’esclusione della possibilità di affidamenti diretti. Tale effetto si verifica a prescindere da qualsivoglia valutazione dell’ente locale, oltre che della Regione, ed anche – in linea con l’abrogato art. 23-bis – in difformità rispetto a quanto previsto dalla normativa comunitaria, che consente, anche se non impone (sentenza n. 325 del 2010), la gestione diretta del servizio pubblico da parte dell’ente locale, allorquando l’applicazione delle regole di concorrenza ostacoli, in diritto o in fatto, la «speciale missione» dell’ente pubblico (art. 106 TFUE), alle sole condizioni del capitale totalmente pubblico della società affidataria, del cosiddetto controllo “analogo” (il controllo esercitato dall’aggiudicante sull’affidatario deve essere di “contenuto analogo” a quello esercitato dall’aggiudicante sui propri uffici) ed infine dello svolgimento della parte più importante dell’attività dell’affidatario in favore dell’aggiudicante”.

Insomma, come sintetizza meglio la sentenza “Le poche novità introdotte dall’art. 4 accentuano, infatti, la drastica riduzione delle ipotesi di affidamenti diretti dei servizi pubblici locali che la consultazione referendaria aveva inteso escludere”.

Il problema della cattiva qualità delle norme emanate da Governo e Parlamento, tuttavia, è certamente con-causato anche dalla non eccelsa qualità degli staff a supporto, che continuano, evidentemente, a battere e proporre solo le medesime idee. Basti pensare, per andare all’attualità, alla proposta dell’accorpamento delle ferie. L’idea, assolutamente bislacca, fu proprio inserita neld.l. 138/2012, ma mai attuata, comprensibilmente. Eppure, la settimana scorsa è stata riportata in auge, salvo essere nuovamente accantonata, perché dichiarata, indirettamente, inutile dal Governo.

Sarebbe auspicabile, allora, che il Governo leggesse con molta attenzione la sentenza 199/2012 della Corte costituzionale, perché il d.l. 95/2012, ancora una volta all’articolo 4, ritorna sui servizi pubblici locali e sulle società in house, esattamente con lo spirito di drastica riduzione di affidamenti diretti, ancora più restrittiva della disciplina comunitaria, stigmatizzata dalla Consulta.

Il d.l. 95/2012 condivide con tutte le precedenti manovre estive, delle quali fa pienamente parte, la frettolosità e la sommarietà.

Indubbiamente, moltissime società partecipate e in house sono improduttive, in deficit, male amministrate, dotate di organi di amministrazione pletorici.

Ancora una volta, tuttavia, il Governo sceglie la strada più comoda e drastica: invece di introdurre sistemi di controllo attenti e occhiuti e, soprattutto, di sanzione nei confronti delle partecipate inefficienti, prevede la liquidazione praticamente per tutte, reintroducendo una soglia bassissima, punitiva e contraria alle direttive europee (200.000 euro) per gli affidamenti diretti alle società costituite in house, senza più nemmeno curarsi dell’indagine preventiva di mercato dell’esistenza di condizioni concorrenziali o della qualità dei servizi come aventi o meno rilevanza economica.

E’ auspicabile che la sentenza della Consulta faccia comprendere al Governo che “spending review” non è tagliare indiscriminatamente e senza criteri. La messa in liquidazione delle società va benissimo se indebitate, inefficienti, piene di personale assunto non si sa come, pletoriche.

Saper discernere l’utilità della spesa è compito dei decisori. Passare un tratto di penna, ascoltando le lusinghe facilone della stampa, non è da tecnici, ma da arruffapopoli.

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