L’Italia ha perso e occorre farsene una ragione, per molte motivazioni. In primo luogo, ha perso non da un avversario qualsiasi, ma dalla Spagna campione del Mondo e d’Europa in carica, non una squadretta qualsiasi e, in aggiunta, per nulla in fase declinante.
E’ la seconda volta, la prima avvenne con la Francia, che incontriamo in una finale dell’europeo i campioni del mondo in carica. Non è certo facile andare da outiseder a sconfiggere squadroni motivate, cariche di gloria e di esperienza.
Per altro, seconda motivazione, l’Italia è scesa in campo nella finale di Kiev indubitabilmente stanca e malmessa. Per tutto il mese di giugno si è visto che la squadra non era a posto sul piano fisico. La partita pre-europei con la Russia fu un disastro da questo punto di vista. Ma anche il confortante esordio proprio con la Spagna dimostrò i limiti della preparazione, con l’ultima mezz’ora, nella quale vi fu un calo verticale delle energie fisiche e finimmo letteralmente in balìa degli iberici, che quella volta, però, non riuscirono a fare più di un gol.
A meglio vedere, terza motivazione, l’Italia non solo era stanca, ma letteralmente groggy. Gli spagnoli avevano letteralmente un passo in più, una velocità di gamba, oltre che di circolazione della palla (ma questo lo si sapeva) molto maggiore. Quando a manovrare era l’Italia, sembrava un rallenty, se giocava la Spagna improvvisamente si aveva l’impressione di aver schiacciato il tasto “FF”.
Questa terza motivazione mette in evidenza le oggettive pecche di Prandelli. Nessuno vuole gettare la croce addosso ad un allenatore e ad una squadra che, oggettivamente, hanno fatto molto più di quanto erano accreditati e, forse, meritavano. Sicuramente, tuttavia, Prandelli non si è reso conto fino in fondo dello stato fisico dei giocatori che ha mandato in campo. Basti l’esempio di Thiago Motta, talmente fuori fase da stirarsi malamente poco dopo essere entrato. Ma anche Cassano, Chiellini, Marchisio erano l’ombra di se stessi e Balotelli è sembrato talmente gasato dalla prestazione con la Germania da estraniarsi in parte dal gioco di squadra e presumere troppo da se stesso, anche se occorre ammettere che nel secondo tempo ha anche cercato di aiutare il centro campo e la difesa.
La quarta motivazione è all’evidenza di tutti: la Spagna è una scuola calcistica, impostata ormai da anni da un preciso gioco, fatto della ricerca della conquista del terreno per linee orizzontali, mediante un intensissimo e difficilissimo intreccio di passaggi stretti, fino ad arrivare al passaggio filtrante improvviso per vie centrali, o al tagli in diagonale, a favore di centrocampisti trequartisti mobilissimi che sorprendono i difensori. Ad alcuni questo gioco sembra noioso, perché ripetitivo. Ma il grado di difficoltà della sua esecuzione è enorme, la pazienza e la consapevolezza dei giocatori straordinari. Sanno esattamente quello che c’è da fare, attuano un piano ed una modalità che conoscono a memoria, perché applicato sin da ragazzini. Si aiutano e non lasciano nulla al caso, avanzando strettissimi in un fazzoletto di terra. E tutti dispongono di una tecnica individuale eccezionale, messa a servizio, però, non di funambolismi individuali, ma del gioco.
La Spagna è la dimostrazione che la cosiddetta “meritocrazia” non consiste nel premiare o esaltare alcuni singoli, a detrimento degli altri, come sciaguratamente si pensa in Italia, dove scuola, università e pubblica amministrazione sono state impostate malamente secondo questa idea devastante. Una “scuola” è davvero tale se insegna a tutti un metodo, fornisce loro strumenti e li fa crescere insieme secondo un’impostazione comune. La Spagna crea non solo buoni giocatori individuali, ma interpreti di un gioco preciso e collettivo, insegnato in particolare nella Cantera del Barcellona, ma ormai entrato nel dna anche della Nazionale.
L’Italia non poteva competere su questo terreno. Prandelli l’ha presa in mano solo due anni fa dalle macerie del Mondiale in Sud Africa e ha dovuto svolgere questo compito nell’ambito di un calcio italiano visibilmente declinante, nel quale si nota, simmetricamente a quanto avviene in Spagna, l’assenza assoluta di una scuola, di un sistema. Il compito del selezionatore tecnico della nazionale era estremamente arduo. E si è visto che l’Italia riesce ad esprimersi bene solo a sprazzi, proprio per l’assenza di un’armonia e di una scuola tecnica. Germania e Inghilterra, squadre molto fisiche, che tendono a saltare il centro campo utilizzando molto lanci lunghi o fasce laterali impensieriscono meno. La Spagna, con i suoi uno-due, le triangolazioni, i tocchi vorticosi porta una squadra scollegata come la nostra a soffrire. Se poi la condizione fisica è quella di Kiev, sono dolori.
Certo, spiace la dimensione del punteggio. Prender 4 gol da una squadra come la Spagna che di solito soffre proprio per non segnare molto, dà la conferma che nella finale molte cose non hanno funzionato, sul piano fisico soprattutto.
C’è da rallegrarsi, comunque, per aver raggiunto la finale. Ma questi europei non sono un punto di arrivo. Non risolvono i gravi problemi del calcio-scommesse, dei debiti che soffocano le squadre italiane, della mancanza di pubblico, degli stadi da rottamare, dell’improvvisa perdita di una scuola e di un modulo di gioco. Eravamo maestri del “catenaccio”, che l’Inter di Mourinho, prima, e il Chelsea di Di Matteo, poi, hanno dimostrato essere, col Barcellona, l’unico sistema per affrontare e magari sconfiggere l’impostazione del gioco iberica.
Non ci siamo riusciti. Pazienza. Abbiamo perso con una squadra nettamente più forte, che sembra avere di fronte a sé un futuro ancora ricco, mentre quello dell’Italia appare, invece, nonostante tutto, avvolto nella nebbia.
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