sabato 20 luglio 2013

Dadaismo istituzionale: la riforma delle #province Il delirio di #Delrio prosegue

Il passaggio maggiormente mortificante della sentenza della Corte costituzionale 220/2013, che boccia con mille sottolineature di matita blu il riordino delle province maldestramente operatod al Governo Monti è quando la Consulta nota che con decreto legge si è provato “alla costruzione di nuove strutture istituzionali, senza peraltro che i perseguiti risparmi di spesa siano, allo stato, concretamente valutabili né quantificabili, seppur in via approssimativa”.

La Corte costituzionale, con pochissime parole incidentalmente inserite nella ponderosa pronuncia, svela il giochino del Governo. E’ fin troppo evidente: all’interno di norme lacrime e sangue (in particolare la pesantissima riforma delle pensioni), vendute però come salvifiche per l’Italia (e invece produttive di aumento del debito e aggravamento terribile della crisi), occorreva dare alla popolazione un “contentino”.

Vista la campagna di stampa che durava da anni sulle province, considerato il flebile aggancio dato, sulla questione, dalla famosa lettera della Bce rivolta al Governo nell’estate 2011, si è pensato di offrire lo scalpo delle province, come agnello sacrificale per placare gli animi.

Dunque, il Governo, ed il Parlamento, hanno approvato norme platealmente incostituzionali, al solo scopo di distrarre e consolare.

Dei fantasmagorici risparmi che la manovra avrebbe comportato, nelle norme e nei conteggi per l’assestamento del bilancio, non c’era nessuna traccia. Con tanti saluti a tutti quelli che hanno sparato cifre di risparmio assurde, come chi favoleggiava dei 12 miliardi di risparmio derivanti dalla riforma, cioè l’intero ammontare della spesa affrontata dalle province, destinati, come è ovvio allo svolgimento delle loro funzioni. Spesa, dunque, che a meno che non si aboliscano le funzioni, resterebbe interamente così com’è, semplicemente spostandosi verso gli enti subentranti.

Sta di fatto, comunque, che in una serie di decreti legge, finalizzati alla correzione urgente dei conti pubblici, era stata inserita una riforma delle province malissimo congegnata, palesemente incostituzionale e, soprattutto, completamente inefficace sul piano finanziario.

Non possiamo immaginare che Patroni Griffi e Cancellieri, principali “autori” della riforma, non sapessero, non fossero stati informati e tenuti all’oscuro dalla solita burocrazia cattiva. Gli allora ministri della Funzione Pubblica e degli Interni erano lì da “tecnici”. Il primo, in quanto consigliere di stato; la seconda, perché prefetto di lungo corso. Due persone che il diritto, l’ordinamento, la costituzione, i bilanci pubblici, i decreti legge, i loro effetti, gli enti locali, dovevano conoscerli meglio di chiunque altro.

Ma la questione delle province non è mai stata affrontata e normata con competenza e cognizione tecnica.

Nessuno e niente impedisce di abolire le province. Il problema non è la scelta. Il problema è come procedere, con quali obiettivi, in che modo e in che tempi.

Procedimento, obiettivi, tempi ed obiettivi di risparmio nelle manovre di Monti erano solo finzione, solo per fare l’occhiolino a Stella e Rizzo, nulla più, un esperimento di normazione dettata dall’esigenza di farsi belli di fronte agli editorialisti dei giornali, naufragato miseramente.

Purtroppo, l’attuale Governo, che è in totale linea di continuità col precedente, sta procedendo esattamente nello stesso modo.

Magari non commetterà l’errore imperdonabile di provare a modificare l’assetto ordinamentale dello Stato per decreto legge. Ma ancora nessuno ha avuto il piacere e l’onore di sapere quale risparmio deriverebbe dall’abolizione delle province. Mentre, il disegno di legge costituzionale non spende una parola che sia una su quali enti dovrebbero succedere alle province nella gestione delle loro funzioni ed esattamente come il decreto “salva Italia” (?) lascia la questione a successive leggi dello Stato e delle regioni, senza nemmeno indicare con chiarezza la reciproca competenza riservata.

Un caos, letteralmente portato ad esplodere senza rimedio alcuno, laddove dovesse andare in porto il disegno di riforma del Ministro per gli affari regionali Delrio, che non può che, eufemisticamente definirsi, assurdo, confusionario, folle, almeno stando alle anticipazioni di Italia Oggi del 20 luglio scorso.

Le idee di Delrio sono dadaismo istituzionale all’ennesima potenza. Le province si debbono abolire, ma le città metropolitane che sorgeranno avranno la medesima estensione territoriale delle province stesse ed assommeranno alle competenze del comune capoluogo, quella delle province. Ma come? Le province non sono da abolire? E perché in certi territori sì, ed in altri no? E che senso ha una provincia tutta incentrata e gravitante solo sul capoluogo, se la provincia è l’ente che trascende le mura cittadine?

Delrio è un ex sindaco: mostra di conoscere solo esigenze ed ambizioni di sindaci e di considerare la provincia un peso ed un territorio di conquista.

Completamente assurda la delineazione delle province come rimarrebbero, a partire dall’1.1.2014, in attesa della loro abolizione: competenze e funzioni ridotte ai soli trasporti, scuole e pianificazione territoriale, senza indicare in alcun modo quali enti svolgerebbero le moltissime altre (ambiente, strade, lavoro, formazione professionale, ecologia, turismo, commerci). Incomprensibile il sistema di governo. Si insiste per la trasformazione in “enti di secondo livello”, senza giunta con un presidente eletto dai sindaci, ed un consiglio provinciale eletto dall'assemblea dei sindaci. Cioè si lascia in piedi il consiglio, l’organo che, nelle province, è quello con meno ragione di esistere, essendo le sue competenze molto ridotte rispetto a quelle del consiglio comunale. I componenti del consiglio sarebbero i sindaci, ma solo quelli dei comuni con più di 15 mila abitanti e i rappresentanti delle unioni. Dunque, per i piccoli enti nessuna rappresentatività e voce in capitolo.

Però, nel nuovo fantasmagorico organo, l’assemblea, farebbero parte tutti i sindaci della provincia.

Alla faccia della semplificazione e della burocratizzazione. E’ vero che eliminandosi la giunta le funzioni operative di questa dovrebbero concentrarsi nel presidente, ma lo sdoppiamento tra consiglio ed assemblea provinciale appare una duplicazione senza senso,volta solo a creare confusione, soprattutto se le province agonizzanti in attesa di estinzione debbano svolgere solo tre funzioni.

Un capolavoro di democrazia à la carte l’elezione del presidente: un’elezione effettuata dai sindaci in carica con “voto ponderato”: pesa di più il voto del sindaco del comune con maggiore popolazione.

Lo scopo dell’area vasta di tenere conto dei bisogni in rete, senza considerare chi è il sindaco e quale sia la popolazione del punto della rete, viene completamente a saltare, come se le funzioni di collegamento e coordinamento di strade, lavoro, economia, istruzione, dipendessero da quanto grande è un comune, invece di quanto integrato e connesso sia un determinato territorio.

La riforma delle province, come la loro abolizione, è certamente possibile e potrebbe anche comportare davvero risparmi anche significativi, se si riuscisse sul serio a puntare al traguardo non impossibile di 500-750 milioni annui.

Ma, se la riforma viene guidata ed effettuata da questi apprendisti stregoni del diritto, che si avventurano in castelli di carta istituzionale senza alcuna base, senza alcun futuro, solo il caos sarà il risultato. E, ribadirlo non è male, ancora nemmeno Delrio è stato capace di far intravedere il primo cent di risparmio che deriverebbe dalla manovra.

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