La scelta di indirizzare la gestione delle funzioni di “area vasta”, sottratte alle province, verso la forma associativa delle unioni dei comuni, appare oggettivamente avventata e perdente.
Le unioni di comuni possono certamente essere annoverate tra gli esperimenti più fallimentari della riforma delle autonomie locali, avviata a partire dal 1990, con la legge 142.
Prima, fino al 1999, dell’ente unione di comuni, non se ne ebbe mai traccia, perché era obbligatoria, dopo 10 anni, la fusione degli enti partecipanti.
Solo dopo, con la riforma del 1999, poi trasfusa nel d.lgs 267/2000, si è assistito alla nascita e crescita di questa forma associativa.
Intanto, quante unioni di comuni ci sono in Italia? 370, distribuite come segue:
Regione | |
Valle d'Aosta | 0 |
Piemonte | 49 |
Lombardia | 61 |
Veneto | 27 |
Liguria | 1 |
E. Romagna | 31 |
Trentino | 1 |
Friuli V. Giulia | 3 |
Toscana | 24 |
Marche | 11 |
Umbria | 1 |
Lazio | 20 |
Abruzzo | 7 |
Campania | 10 |
Molise | 8 |
Basilicata | 1 |
Puglia | 21 |
Calabria | 10 |
Sicilia | 49 |
Sardegna | 35 |
totale | 370 |
Fonte: SCHEDA RIASSUNTIVA NAZIONALE UNIONI DI COMUNI - Dati complessivi-ultimo aggiornamento: LUGLIO 2013 -Dati raccolti ed elaborati da ANCI-Area Piccoli Comuni/Unioni di Comuni
Il quadro dinamico aggiornato è consultabile sul sito www.anci.it - link Unioni di Comuni
Il quadro numerico e di distribuzione territoriale delle unioni è estremamente frastagliato. Due evidenze saltano subito all’occhio. Per un verso il numero delle unioni è ancora estremamente basso: solo 370 unioni di comuni, quando i comuni con meno di 5000 abitanti, quelli considerati più idonei o addirittura necessitati a costituirle sono 5.692 dati sulla popolazione residente al 31.12.2009 - Istat 2010). L’incidenza delle unioni di comuni sui comuni, dunque, è bassissima.
In secondo luogo, al di là del fallimentare numero di unioni esistenti, esse rappresentano già, comunque, più del triplo delle 107 province amministrativamente operanti. Già così si percepisce molto bene che l’opera di svuotamento delle province e di attribuzione alle unioni di comuni (oltre che ai comuni) non porterebbe in alcun modo all’effetto di “accorpamento” di cui parla il Ministro Delrio, non si capisce francamente sulla base di quali dati e valutazioni.
Un ulteriore elemento è da sottolineare: le 370 unioni di comuni non hanno portato alla riduzione significativa del numero dei comuni, che sono rimasti regolarmente oltre la soglia degli 8100. Dunque, le unioni di comuni hanno, sin qui, certamente fallito l’obiettivo di giungere ad una fusione degli enti partecipanti e ad una riduzione del numero dei comuni.
Sembra, francamente, paradossale che un ente, l’unione di comuni, che non ha colto nemmeno alla lontana l’obiettivo di accorpare i comuni possa considerarsi fonte di razionalizzazione, semplificazione ed accorpamento delle funzioni delle province, quando come minimo ne triplicherebbe la funzione di ente di area vasta.
In ogni caso, l’aspetto più fortemente velleitario di una riforma dell’ordinamento locale che punti sulle unioni di comuni come soggetti competenti a gestire le funzioni di “area vasta” (ma si dovrebbe dire di area “vastina” o “media”…) riguarda proprio la ragion d’essere stessa delle unioni di comuni, il loro tratto funzionale saliente.
Esse hanno il preciso scopo non di gestire funzioni di area vasta, bensì di sussidiare le forze operative, estremamente carenti sul piano quantitativo, dei comuni aderenti, nel tentativo di creare strutture amministrative capaci di fare fronte alle ordinarie esigenze amministrative e di creare bacini territoriali significativi, per ottenere qualche economia di scala.
In assenza di analisi approfondite di insieme sulla capacità delle unioni di ottenere dette economie, difficile valutare questo aspetto.
Sta di fatto che le unioni, le quali hanno di fatto sostituito i vecchi consorzi del passato regime normativo ante 1990, permettono materialmente a due o più comuni di avere il ragioniere, il geometra, il necroforo, un numero complessivo di vigili tale almeno da consentire l’esercizio della vigilanza anche il pomeriggio.
Vi sono, ovviamente, anche nelle 370 unioni casi diversi, nei quali le unioni hanno obiettivi e capacità più ambiziosi, specie (cosa, però, molto rara) quando dell’unione facciano parte enti già forti e strutturati.
Le unioni di comuni, dunque, non sono in grado “di fare la forza”. Sono un insieme di “debolezze”, che tuttavia si sostengono ed in una visione olistica fanno fronte ad esigenze proprio di minima necessità: consentire al geometra di prendere ferie, perché nell’unione ne sono presenti due, invece che il solo ed unico geometra del singolo comune.
Pensare che simili enti possano avere forza, capacità e ruolo di assumere, sia pure in ambiti territoriali inferiori (il che, comunque, crea ovvi problemi di disomogeneità e coordinamento) di enti molto più strutturati e forti, dotati di esperienze amministrative di centinaia di anni, come le province è francamente pura utopia. Per altro, anche ammettendo che tutte le risorse ed il personale delle province dovesse andare verso le unioni (il che, stando all’arruffatissimo e caotico disegno di legge Delrio non è, visto che vi sarà un intreccio inestricabile di rimandi di funzioni tra città metropolitane, comuni, unioni, regioni e province “svuotate”), esse, per svolgere quelle funzioni, riceverebbero meno di un terzo del complesso di risorse necessario. Altre debolezze, dunque, si aggiungerebbero a quelle già esistenti.
La comprova della sostanziale incapacità delle unioni (facendo salve le eccezioni esistenti) di semplificare, razionalizzare e rafforzare il ruolo dei comuni aderenti, è data dalla vicenda francamente un po’ grottesca delle centrali di committenza, di cui all’articolo 33, comma 3-bis, ai sensi del quale “I Comuni con popolazione non superiore a 5.000 abitanti ricadenti nel territorio di ciascuna Provincia affidano obbligatoriamente ad un’unica centrale di committenza l’acquisizione di lavori, servizi e forniture nell’ambito delle unioni dei comuni, di cui all’articolo 32 del testo unico di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, ove esistenti, ovvero costituendo un apposito accordo consortile tra i comuni medesimi e avvalendosi dei competenti uffici. In alternativa, gli stessi Comuni possono effettuare i propri acquisti attraverso gli strumenti elettronici di acquisto gestiti da altre centrali di committenza di riferimento, ivi comprese le convenzioni di cui all’articolo 26 della legge 23 dicembre 1999, n. 488 e ed il mercato elettronico della pubblica amministrazione di cui all’articolo 328 del d.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207)”.
L’obbligatorietà di questa norma è stata più volte rimandata. Ma, si nota che essa è sostanzialmente utopica. Pare indurre ed obbligare i comuni ad avvalersi di una centrale unica di committenza (e si è, sciaguratamente scelto di scartare le province come naturali destinatarie di simile ruolo: la norma venne, infatti, introdotta dal “decreto salva Italia”…), ma nella realtà contiene una norma di chiusura molto più razionale: in alternativa alla provabilissima inidoneità delle unioni di avere forza, risorse, capacità tecniche di proporsi come centrali di committenza, si prende comunque atto che i singoli comuni possono (ma era evidente anche senza tale precisazione) avvalersi delle centrali di committenza operanti, in primo luogo la Consip ed il suo Me.Pa. e, dove esistenti, anche le centrali regionali.
Le unioni di comuni, a meno che non si trasformino in nulla più di province in miniatura (con l’effetto paradossale della moltiplicazione di enti che si vorrebbero abolire), non sono in alcun modo idonee agli effetti di semplificazione, risparmio e razionalizzazione immaginati dal ddl Delrio. E’ auspicabile che ciò che risulta evidentissimo prima che la riforma venga approvata, non debba divenire amara constatazione tra qualche anno, quando sarebbe troppo tardi.
Grazie della precisazione
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