La vicenda del decreto cosiddetto “salva Roma” è davvero una storia disdicevole e rappresentativa, purtroppo, del momento molto, molto difficile che sta attraversando il Paese.
Lo è non solo dal punto di vista della cronaca, ma anche e soprattutto delle prospettive aperte dall’iniziativa del Governo.
Intanto, sul piano della cronaca, si avvertono due pesantissime stonature. La prima è prendere atto che questo decreto viene reiterato per la terza volta, sia pure in contesti, cioè cornici contenutistiche del decreto, differenti. Ciò prova in modo incontestabile come la cosiddetta “ghigliottina” sul cosiddetto decreto “bamnkitalia-Imu” sia stata una proditoria forzatura. Infatti, si affermò che il presidente della Camera fosse stata “costretta” a chiudere la discussione ed andare al voto su un provvedimento del quale, ora, la Ue ci chiede (com’era ovvio) conto, per evitarne la decadenza, perché “non lo si sarebbe potuto riproporre”.
Il decreto salva Roma è la puntuale e pronta smentita al palco di giustificazioni ingiustificabili allo strappo istituzionale commesso poche settimane fa.
In secondo luogo, l’iniziativa normativa, per quanto cerchi di collegare l’intervento finanziario dello Stato, volto a coprire il deficit e la pluriennale inefficienza amministrativa di Roma, con un sistema di “anticipazione-restituzione” soggetto a razionalizzazioni, si tratta comunque di una sgradevole sanatoria.
Il decreto lancia per l’ennesima volta il segnale che a governar male, ci perdono solo i cittadini, mai i responsabili.
Roma è l’archetipo della fanfaluca secondo la quale i “sindaci” rappresenterebbero il meglio della politica e dell’amministrazione, portata avanti da anni.
Non è, purtroppo, così. I sindaci non rappresentano affatto un nerbo sano, forte e costitutivo del convivere civile, quella ventata di novità, buon governo e attenzione per i cittadini che potrebbe cambiare l'Italia. Nonostante la retorica affermi il contrario: basti leggere la relazione al ddl Delrio, dalla quale appare che solo i sindaci possano risanare finanze e governi.
Tuttavia, il recupero di minimo di memoria alle cronache, e la realtà torna a prendere il sopravvento.
Ogni anno, da 20 anni, una pioggia appena più intensa e lunga del normale inonda le città. Inizialmente, si dà la colpa al fato, alla "bomba d'acqua". Poi, si scopre, ad Olbia come a Genova, che sono state costruite case o strade sul letto di fiumi, o si è permesso di edificare nelle golene o nelle depressioni. Di chi la responsabilità di ciò se non, per primi, dei sindaci? Il treno in bilico sui binari della ferrovia in Liguria dovrebbe rappresentare la fotografia del disprezzo, più che dissesto, del territorio causato dal pessimo e diffusissimo governo dei sindaci.
Ogni giorno, sui giornali economici in particolare, ma anche nelle inchieste demagogiche ormai troppo spesso ospitate sui quotidiani, si legge la giaculatoria contro le società "partecipate" degli enti locali: troppe, troppo costose, troppo inefficienti, "assunzionifici". In questi giorni, la società dei trasporti veronese, Atv, ha indetto un bando per l’assunzione del direttore generale, con compenso di 170.000 euro l’anno, ma non prevedendo la laurea come requisito, considerato, dai vertici della società “un paletto inutile”. Occorrerebbe chiedersi: chi costituisce le società partecipate, chi le controlla, chi nomina i vertici di queste società, chi in modo compiacente collabora per le assunzioni clientelari? Sono società dei comuni, o no? E perchè, allora, i sindaci che hanno creato questo disastro amministrativo, una volta andati al Governo dovrebbero saper porvi rimedio?
Il bilancio pubblico è un disastro, soffocato dai debiti. E quali sono le amministrazioni che, proprio in questa fase, si sono indebitate ancor più di prima fino al collo, acquistando in modo acritico e insensato prodotti bancari che più tossici non si può, come swap e subprime? I comuni, con il piglio deciso dei sindaci. Che, una volta al Governo, però, dovrebbero saper risanare i bilanci.
Il disastro dell'Imu, Iuc, Tari, Tasi, è certamente una colpa evidente, grave, imperdonabile del duo Letta-Saccomanni. Ma, se un'entrata con corrispettiva spesa di circa 4 miliardi (tale il valore delle imposte sulla prima casa) su un totale di spesa dei comuni di circa 65 miliardi (dunque appena il 6,15%), non può essere tagliata, pena urla, minacce di disgrazie indicibili, non può essere cancellata, di chi è la responsabilità? Dei sindaci, i quali non ci pensano nemmeno a tagliare le spese per notti bianche, consulenze, contributi a scopi elettoralistici, iniziative di ogni tipo che disperdono tempo, risorse, denaro. E, infatti, nel decennio 2002, 2011, a fronte di tagli ai trasferimenti statali ai comuni, i sindaci, tramite la lobby Anci, hanno sempre ottenuto la possibilità di incrementare le imposte comunali, il cui gettito (basta guardare i dati Istat sui consuintivi dei comuni) sono passati, in 10 anni, da 22 a 33 miliardi, con un incremento del 50%. I sindaci, dunque, sono parte decisiva dell'insostenibile pressione fiscale che fiacca il Paese. Ma, al governo dovrebbero cambiare idea e pelle e fare quei tagli alle tasse e alle spese, che nei loro comuni nemmeno lontanamente pensano a fare.
Infine, ma in realtà si potrebbe continuare, i comuni sono continuamente alla ribalta delle cronache per i dissesti, conclamati o ancora solo potenziali: Roma, appunto, ma anche Alessandria, Torino, Palermo, Catania, Napoli, Parma, solo per fermarsi a casi particolarmente noti.
Il decreto salva Roma prevede il “piano di rientro”. Ma non si ha traccia di conseguenze nei confronti dell’amministrazione: nessun obbligo a smantellare il poderoso ufficio stampa, risolvere i contratti con lo stuolo di consulenti, ridurre le ingentissime spese “di rappresentanza” e “viaggi”, rivedere totalmente le spese per la cultura, spesso tradotte in sostegni ad associazioni più o meno vicine al partito politico vicino all’amministrazione. Né si vedono obblighi per rivedere gli assetti organizzativi dell’universo delle società partecipate della Capitale.
Insomma, si tratta solo di una “cambiale in bianco”, concessa ad una città che mentre si espandeva sempre più, diveniva sempre più inefficiente e meno pronta alle emergenze (ricordiamo la neve e le peripezie del sindaco Alemanno), continuava a crogiolarsi in opere costosissime e di dubbio gusto (l’Ara Pacis), nella replica finanziariamente devastante dei festival dei cinema ed in altre mondanità molto contrastanti col caos delle metropolitane nelle ore di punta.
Il decreto salva Roma, per altro approvato con l’altro decreto che consente ai sindaci di incrementare ulteriormente la pressione fiscale mediante l’aumento possibile fino allo 0,8% della Tasi, è il segnale che una classe dirigente, quella dei sindaci, non intende assumersi alcuna responsabilità vera. E lo fa con la prepotenza di chi sa di poter contare sulla presenza radicata e fortissima dei loro rappresentanti, l’Anci, all’interno del governo, con il premier Renzi e il sottosegretario alla presidenza del consiglio, Delrio, fino a un anno fa presidente dell’Anci.
Tornando alle prospettive, il ruolo di Delrio ed il suo, e dell’Anci, modo di concepire il ruolo dei sindaci lascia intravedere il pericolosissimo cortocircuito amministrativo, che potrebbe preludere ad un ulteriore disastro.
Il salva Roma, infatti, consente di vedere in controluce uno degli altri, tra i moltissimi, aspetti negativi della riforma dell’ordinamento locali, avviata proprio da Delrio, che, come noto, punta sulla costituzione delle città metropolitane e lo svuotamento delle province, con la simmetrica crescita di competenze e forza rappresentativa dei sindaci, i quali saranno presenti negli organi di governo di tali enti che diverranno di “secondo grado”.
Roma diventerà una città metropolitana, per altro con una normativa peculiare. Il sistema delineato dal ddl Delrio stabilisce che i sindaci dei comuni capoluogo assumano anche il ruolo di sindaci metropolitani, cioè dei vertici delle città metropolitane.
Ora, moltissime delle future città metropolitane sono in condizioni finanziarie disastrose, alcune non conclamate, altre già evidenti e non dissimili in nulla da quella della Capitale.
Dovrebbe sorgere spontaneamente la domanda: come si può immaginare che l’acquisizione delle strutture e competenze delle province, destinate ad essere assorbite dalle città metropolitane, da parte di enti, i comuni, e dei loro sindaci, votati al disastro ed ai dissesti visti prima, possa portare nulla di buono?
Il rischio fortissimo e ben evidente, anche se nessuno, ovviamente, lo afferma, è che il sostanziale “impossessamento” dei comuni delle risorse, patrimonio, finanze, sedi e competenze delle province possa essere utilizzato per “calmierare” gli sconquassi dei propri bilanci. Nuove risorse patrimoniali e finanziarie (ma, attenzione, anche le province sono esposte a debiti e a garantire il patto di stabilità), con i quali per qualche anno tornare a nascondere situazioni finanziarie da fallimento.
Le conseguenze di questo sarebbero devastanti. Per un verso, i cittadini delle città ed i paesi della provincia finirebbero per essere sostanzialmente dei vassalli soggetti a corvee in termini di imposizione fiscale e servizi, che rischierebbero di essere tutti concentrati sul capoluogo, lasciando il resto a degradare a periferia delle già degradatissime periferie: Rima ne è un perfetto archetipo.
Ovviamente, però, questo gioco delle tre carte finirebbe per durare poco. La sostanziale confusione tra comune capoluogo e comune-vertice della città metropolitana potrebbe mettere in irrisolvibile crisi finanziaria e di servizi capoluoghi e città metropolitane stesse, considerando anche l’elevata possibilità che sorgano nuove società partecipate ed enti ed entini per gestire in modo combinato l’universo scibile e non scibile delle attività locali.
Una volta che le città metropolitane entrino, però, nella sfera degli interessi da proteggere dell’Anci, per i sindaci dei capoluoghi, sarebbe fatta: come dimostra il salva Roma, non mancherebbe mai una norma “caritatevole”, pronta a ripianare la mala gestione.
Non diversa potrebbe rivelarsi la situazione per le province svuotate, “occupate” dai sindaci, che all’interno degli organi rappresentativi dovrebbero, chissà, perché, dare prova di quel coordinamento e quella coesione nella programmazione delle attività sovracomunali che mai hanno concretamente dimostrato di possedere. Anche in questo caso, il rischio fortissimo è che gli interessi, racchiusi all’interno della mura e dei campanili, faccia completamente perdere il senso della dimensione di funzioni che non possono, invece, restare compresse in angusti confini e lasciar pensare di utilizzare risorse e strumenti delle province per fini lontanissimi dalla corretta gestione.
Decadenza Consiglieri Provinciali dai Cda delle Partecipate
RispondiEliminaSi parla molto poco delle Partecipate delle Province che sono tantissime: ma se è vero che con il Ddl Del Rio si cancellano 3500 Consiglieri Provinciali, non si può trascurare il fatto che esiste una moltitudine di Consiglieri Provinciali, che occupano contemporaneamente poltrone nei cda delle Partecipate (Aeroporti, Aziende di trasporto locale, etc..) e che forse continueranno ad occupare tali poltrone, nonostante la decadenza da Consigliere Provinciale. A mio sommesso avviso, la questione va normata, precisando nei regolamenti attuativi che i Consiglieri Provinciali dovranno decadere automaticamente anche dai Cda delle Partecipate in quanto tali incarichi sono vincolati alla funzione pubblica da loro svolta come Consigliere Provinciale. Se tutto ciò non avvenisse, si manterrebbe in piedi un poltronificio che permetterebbe ai Consiglieri Provinciali, di uscire dalla porta principale e rientrare da quella di servizio. Sarebbe opportuno che tali poltrone andassero a chi ne ha le competenze e non al trombato di turno. Spero che qualcuno si faccia garante di tale mozione.